domenica 13 ottobre 2013

La deindustrializzazione dell'Italia

 
  

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Luigi Rossi
venerdi 11 ottobre 2013

Sesta potenza industriale del mondo. Era questa l’espressione rituale, vanto dei politici, con cui i giornalisti definivano con il pregio della sintesi il ruolo dell’Italia nello scacchiere economico mondiale. Settima o sesta che fosse, l’Italia è stata a lungo nell’Olimpo delle potenze economiche ed industriali mondiali. Persino sopra la Gran Bretagna, culla della Rivoluzione industriale e presto convertita ad economia di servizi, più che di produzione.
Cresciuta con questa consapevolezza, mista a fierezza, la mia generazione si è formata su sussidiari e manuali di geografia umana o educazione tecnica che rendevano giustizia e spiegavano le ragioni di questa impegnativa definizione. Chi non ricorda la nascita del triangolo industriale tra Torino, Milano e Genova? La nascita dell’industria automobilistica torinese, lo sviluppo della grande siderurgia, l’importanza della chimica italiana a livello mondiale. Il boom economico e il dirompente successo dei distretti industriali, come quello della lana biellese, quello tessile di Prato, quelli motoristici emiliani, quelli calzaturieri e del mobile nelle Marche. Eccetera eccetera. E proprio in questi distretti a farla da padrone era la piccola e media impresa, orgoglio e modello di sviluppo tipicamente italiani.
Laddove, infatti, non erano le dimensioni a fare la differenza era la qualità, la creatività italiana a misurare la nostra competitività. Ma che fosse la grande industria chimica o siderurgica o la piccola impresa tessile o di pellame o di moda il marchio Italia – e il suo portato in termini di conoscenze e capacità industriali e e artigianali – funzionava ovunque nel mondo.
Oggi l’Italia continua a frequentare gli incontri tra i grandi del mondo, eppure l’impresa italiana vive un declino che pare inarrestabile. Un declino che ha travolto prima la grande industria, poco più che un ricordo, e la piccola e media impresa. Se ci fosse stato bisogno di una conferma da Bruxelles ci informano che l’Italia perde posizioni nella classifica della competitività dell'industria europea. Anche la Spagna, paese sotto aiuti Ue per le banche e dove la disoccupazione è seconda solo a quella della Grecia, ci ha sorpassato, agganciando il gruppo di testa dei paesi Ue più performanti guidato dalla Germania.
Gli esperti europei parlano, ormai, di «vera e propria deindustrializzazione». Dal 2007 ad oggi la produzione industriale italiana ha registrato un crollo del 20%, sebbene la quota di valore aggiunto totale nell'economia del manifatturiero resti ''leggermente al di sopra della media Ue''. A preoccupare ancor di più il fatto che in Europa non diminuisce, ma continua a crescere il divario di competitività tra i 28. La forbice tra virtuosi e non virtuosi, in altre parole, si allarga. Si è insomma bloccato il cosiddetto 'processo di convergenza', per cui gli stati virtuosi trainano gli altri verso l'alto in una dinamica di reciproco vantaggio. A livello europeo pesa il costo dell'energia, che sta portando alla deindustrializzazione non solo dell'Italia ma dell'intera Ue, la diminuzione degli investimenti, la difficoltà di accesso al credito e l'inefficienza della pubblica amministrazione. Se l’Europa perde competitività a livello mondiale, se si accentua la differenza di passo tra gli Stati membri, il giudizio negativo sull’Italia assume il tono del de profundis.
Cercare oggi le ragioni di questo disastro appare un esercizio facile, ma poco più che inutile. Da dove iniziare? Dallo smantellamento delle grandi industrie? Dal peso delle tasse e del costo del lavoro? Dall’inefficienza della pubblica amministrazione o dalla fuga dei capitali? Dal fatto che le banche si occupano di tutto tranne che di concedere credito? Dall’inettitudine delle nuove generazioni di imprenditori? Non era a tutti ovvio che la delocalizzazione avrebbe portato alla conseguente deindustrializzazione? Dal fatto che per aprire un’impresa ci vogliano mesi se non anni spesi solo per i permessi? Dai veti incrociati per qualsiasi infrastruttura o impresa di interesse pubblico? Potrei continuare a lungo questo elenco. Ognuno può aggiungere altre domande e trovare risposte adeguate ad alcune di esse, Basta, però, percorrere questa martoriata penisola per rendersi conto che l’industria in Italia non esiste più.
Capannoni abbandonati, fabbriche dismesse sono una triste costante nei panorami delle strade italiane. La deindustrializzazione è ormai un fatto incontrovertibile. Se anche le piccole imprese continueranno a chiudere allora l’Italia sarà un deserto. Da troppo tempo in Italia non si parla con coraggio di industria, non si promuove un piano industriale degno di quella che un tempo era la sesta potenza al mondo. Il momento è giunto.

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