Luigi Rossi venerdi 11 ottobre 2013
Sesta potenza industriale del mondo. Era questa l’espressione rituale,
vanto dei politici, con cui i giornalisti definivano con il pregio della sintesi
il ruolo dell’Italia nello scacchiere economico mondiale. Settima o sesta
che fosse, l’Italia è stata a lungo nell’Olimpo delle potenze economiche ed
industriali mondiali. Persino sopra la Gran Bretagna, culla della Rivoluzione
industriale e presto convertita ad economia di servizi, più che di produzione.
Cresciuta con questa consapevolezza, mista a fierezza, la mia generazione
si è formata su sussidiari e manuali di geografia umana o educazione tecnica che
rendevano giustizia e spiegavano le ragioni di questa impegnativa
definizione. Chi non ricorda la nascita del triangolo industriale tra
Torino, Milano e Genova? La nascita dell’industria automobilistica torinese, lo
sviluppo della grande siderurgia, l’importanza della chimica italiana a livello
mondiale. Il boom economico e il dirompente successo dei distretti industriali,
come quello della lana biellese, quello tessile di Prato, quelli motoristici
emiliani, quelli calzaturieri e del mobile nelle Marche. Eccetera eccetera. E proprio in questi distretti a farla da padrone
era la piccola e media impresa, orgoglio e modello di sviluppo tipicamente
italiani.
Laddove, infatti, non erano le dimensioni a fare la differenza era la
qualità, la creatività italiana a misurare la nostra competitività. Ma che
fosse la grande industria chimica o siderurgica o la piccola impresa tessile o
di pellame o di moda il marchio Italia – e il suo portato in termini di
conoscenze e capacità industriali e e artigianali – funzionava ovunque nel
mondo.
Oggi l’Italia continua a frequentare gli incontri tra i grandi del mondo,
eppure l’impresa italiana vive un declino che pare inarrestabile. Un declino
che ha travolto prima la grande industria, poco più che un ricordo, e la piccola
e media impresa. Se ci fosse stato bisogno di una conferma da Bruxelles ci
informano che l’Italia perde posizioni nella classifica della competitività
dell'industria europea. Anche la Spagna, paese sotto aiuti Ue per le banche e
dove la disoccupazione è seconda solo a quella della Grecia, ci ha sorpassato,
agganciando il gruppo di testa dei paesi Ue più performanti guidato dalla
Germania.
Gli esperti europei parlano, ormai, di «vera e propria
deindustrializzazione». Dal 2007 ad oggi la produzione industriale italiana
ha registrato un crollo del 20%, sebbene la quota di valore aggiunto totale
nell'economia del manifatturiero resti ''leggermente al di sopra della media
Ue''. A preoccupare ancor di più il fatto che in Europa non diminuisce, ma
continua a crescere il divario di competitività tra i 28. La forbice tra
virtuosi e non virtuosi, in altre parole, si allarga. Si è insomma bloccato il
cosiddetto 'processo di convergenza', per cui gli stati virtuosi trainano gli
altri verso l'alto in una dinamica di reciproco vantaggio. A livello europeo
pesa il costo dell'energia, che sta portando alla deindustrializzazione non solo
dell'Italia ma dell'intera Ue, la diminuzione degli investimenti, la difficoltà
di accesso al credito e l'inefficienza della pubblica amministrazione. Se
l’Europa perde competitività a livello mondiale, se si accentua la differenza di
passo tra gli Stati membri, il giudizio negativo sull’Italia assume il tono del
de profundis.
Cercare oggi le ragioni di questo disastro appare un esercizio facile, ma
poco più che inutile. Da dove iniziare? Dallo smantellamento delle grandi
industrie? Dal peso delle tasse e del costo del lavoro? Dall’inefficienza della
pubblica amministrazione o dalla fuga dei capitali? Dal fatto che le banche
si occupano di tutto tranne che di concedere credito? Dall’inettitudine delle
nuove generazioni di imprenditori? Non era a tutti ovvio che la delocalizzazione
avrebbe portato alla conseguente deindustrializzazione? Dal fatto che per aprire
un’impresa ci vogliano mesi se non anni spesi solo per i permessi? Dai veti
incrociati per qualsiasi infrastruttura o impresa di interesse pubblico? Potrei
continuare a lungo questo elenco. Ognuno può aggiungere altre domande e trovare
risposte adeguate ad alcune di esse, Basta, però, percorrere questa martoriata
penisola per rendersi conto che l’industria in Italia non esiste più.
Capannoni abbandonati, fabbriche dismesse sono una triste costante nei
panorami delle strade italiane. La deindustrializzazione è ormai un fatto
incontrovertibile. Se anche le piccole imprese continueranno a chiudere allora
l’Italia sarà un deserto. Da troppo tempo in Italia non si parla con coraggio di
industria, non si promuove un piano industriale degno di quella che un tempo era
la sesta potenza al mondo. Il momento è giunto.
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