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giovedì 7 giugno 2018


Le mani dei grillini sulla Rai

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Focus
Le idee e i comportamenti del M5s appaiono preoccupanti. Un nome per la presidenza? Carlo Cottarelli
Tra le candidature per il nuovo Cda Rai, quello vecchio è in scadenza il 30 giugno, c’è quella di Michele Santoro che spiega i suoi propositi in una bella intervista sul Foglio. Michele è un giornalista che divide, ma nessuno può dubitare della sua professionalità e della sua autonomia dalle forze politiche, anche quelle di sinistra, cui non ha mai fatto mistero di appartenere. Ecco cosa dice:
“Lega e Movimento Cinque Stelle dicono di essere rivoluzionari? Benissimo adesso devono farci vedere come si compie questa rivoluzione. Anche nella televisione di stato…È rivoluzionario se la Gabanelli la fai direttore generale… E fatela ‘sta rivoluzione dico io. Metteteci Marco Travaglio al Tg1”.
Ora, sia ben chiaro che io non sono un fan della Gabanelli, né di Travaglio, perché entrambi hanno piegato il giornalismo alla propaganda populista e giustizialista, ma poiché sono gli interpreti più genuini del nuovo che avanza sarebbe giusto vederli all’opera: cosa ne farebbero della Rai? Quale missione le assegnerebbero? Sarebbero in grado di realizzare quei cambiamenti di modernizzazione ed efficientamento sui quali ha fallito Antonio Campo Dall’Orto? Oppure, come io credo, ne farebbero una gigantesca macchina di propaganda al servizio dei nuovi potenti?
Il discorso riguarda in particolare il M5S perché la Lega, ancorchè Matteo Salvini cerchi di presentarsi come il nuovo assoluto, in Rai piazza i suoi uomini da più di vent’anni (non era in Rai in quota Lega l’attuale parlamentare M5S Gianluigi Paragone?). Il M5S finora invece è stato fuori. La sua unica nomina in Rai è stata quella di Carlo Freccero, un intellettuale geniale e sopra le righe, le cui idee non condivido quasi mai, ma che è una persona libera. Per il resto, stando fuori hanno imposto agenda e forme di comunicazione alla la Rai e a tutto il sistema radiotelevisivo, sotto la guida astuta di Rocco Casalinoattraverso la gestione della partecipazione dei leader M5S, i nuovi potenti, ai vari talk show, imponendo ai conduttori che essi fossero sempre da soli e senza contraddittorio (brava Gaia Tortora a rinfacciarglielo in diretta!); ma anche attraverso l’uso delle fake news e degli scoop suggeriti ma poi spietatamente svelati in rete.
Il problema è molto semplice: la Rai è la più grande macchina culturale del Paese, ricca di risorse e di sprechi, potenzialmente in grado di mettere in campo una formidabile comunicazione integrata tra vecchi e nuovi media. Immaginate una Rai che risponda a Rocco Casalino, prossimo portavoce del presidente del Consiglio, e Davide Casaleggio, padrone della piattaforma Rousseau che possiede gli elenchi e controlla le opinioni degli iscritti al Movimento, che invece che smontare le fake news le amplifichi, che invece di spiegare la scienza propagandi l’antiscienza, che invece di spiegare i grandi flussi migratori e il nuovo mondo li demonizzi, che invece di costruire un nuovo senso comune attorno alla cultura europea strizzi l’occhio a Putin e Orban, che imponga nei talk show l’assenza di contraddittorio, che faccia della Rai la cassa di risonanza della propaganda social. Sono paure infondate? Basta leggere il libro Supernova, scritto da due ex-stretti collaboratori di Gianroberto CasaleggioMarco Canestrari e Nicola Biondo, per capire quanto poco vi sia di casuale e di improvvisato nel loro approccio ai media e quanta maniacale attenzione si sia posta alla manipolazione delle opinioni.
A tutto questo bisognerà opporsi con tutti gli strumenti parlamentari e mobilitando la coscienza dei giornalisti, ma la maggioranza sovran-populista va sfidata su un’idea della Rai alternativa, come grande infrastruttura del paese, capace di una narrazione globale delle virtù e delle bellezze italiane, del coraggio degli eroi per caso che ogni giorno affrontano i poteri criminali, del talento dei nostri scienziati. Una Rai che non si accodi alla canea antielitaria ma che diventi, come è stata nei momenti migliori della sua storia, lo strumento di una nuova acculturazione di massa. Chi ci vedrei a capo? Mi spiace per lui, ma un nome ce l’ho: Carlo Cottarelli, un civil servant con le idee molto chiare su dove portare l’Italia, un uomo che ha stupito per sobrietà e senso del dovere in un tempo dominato dal bullismo politico, istituzionale e mediatico.

mercoledì 6 giugno 2018

La loro confusione e la nostra pazienza

I primi giorni di scuola sono sempre incasinati, tra euforia e inesperienza delle matricole

Oggi il governo Conte otterrà la scontata fiducia del Parlamento. I primi giorni di scuola sono sempre incasinati, tra euforia e inesperienza delle matricole.







L'occasione di oggi potrebbe servire a mettere un punto fermo, a patto che Cinque stelle e Lega non trasformino anche la seduta solenne dell'investitura in un talk show, o peggio in un comizio a reti unificate.
Vogliamo, dobbiamo capire che cosa questo governo vuole e può fare al netto della propaganda, dei sogni e delle bugie, possibilmente da una voce unica, che teoricamente dovrebbe essere quella di Giuseppe Conte, fino ad ora silente. Perché in queste ore abbiamo sentito di tutto e il contrario di tutto. Basta alle unioni gay, sì alle unioni gay; sulla flat tax ci sono varie versioni: dal prossimo anno alle imprese (che peraltro già ne usufruiscono) poi forse alle famiglie, anzi no, dal 2019 per tutti ma solo sulla carta; sulla lotta all'immigrazione circolano le tesi più disparate, quasi tutte in contraddizione con le parole d'ordine dure e definitive ascoltate in campagna elettorale.
Mi sembra di rivivere la stagione del renzismo prima nascente e poi imperante, quando il premier andava in tv tutte le sere a mostrare slide con progetti mirabolanti e impegni a fare una riforma al mese. Anche allora c'era entusiasmo per il nuovo che avanzava, ma siccome alle parole non seguirono i fatti, gli italiani, come noto, archiviarono velocemente la pratica.
Dopo una rincorsa di cinque anni di opposizione e tre mesi di trattativa e studio del programma-contratto ci saremmo aspettati da Cinque stelle e Lega idee un tantino più chiare fin da subito. Perché va bene, come ha fatto ieri Di Maio, fare il primo incontro da ministro con i riders, ma il futuro del Paese, detto con rispetto, non è nelle mani dei ragazzi in bicicletta che, quasi solo a Roma e Milano, ti portano di tutto a casa. Pesano molto di più il destino dell'Ilva (che vuol dire anche il comparto acciaio del Nord), dell'Alitalia, della Tav e di altre pratiche sulle quali c'è buio pesto.
«Aspettiamo, ci vuole pazienza, lasciamoli lavorare», dicono in tanti e tra questi anche nostri lettori. Mi auguro che Matteo Salvini abbia la pazienza per non disperdere un grande patrimonio sull'altare del governo grillino. Con un'avvertenza: c'è un limite oltre il quale la pazienza smette di essere virtù e diventa servilismo.
 

Conte, l’equilibrista sempre in bilico

Giovanni Belfiori - 6 giugno 2018

Focus
Prime pagine sui commenti al discorso del nuovo premier. E c’è chi lo paragona al Coniglio Mannaro della prima repubblica, Arnaldo Forlani
“Fiducia a Conte: siamo populisti”: il Corriere della Sera apre così la prima pagina di oggi, aggiungendo nel sommario che “Il premier apre a Mosca: rivedere le sanzioni. «Tagli alle pensioni d’oro, Daspo per i corrotti»”. Il blocco del titolo di Repubblica è “Conte: la Russia paese amico. E sui migranti sarà linea dura. Il premier ottiene la fiducia al Senato con 171 voti, 25 astensioni e 117 no. Liliana Segre sfida Salvini: mai leggi speciali sui rom”, mentre La Stampa sceglie “Conte si presenta: “Siamo populisti ma non razzisti” E apre alla Russia”.

Le parole non dette

Francesco Bei sulla Stampa accosta Conte a un personaggio manzoniano che, guarda caso, è il Conte Zio: il premier ha “la stessa attitudine del Conte Zio di Manzoni mira a «sopire, troncare, troncare, sopire» gli spigoli più acuminati dei due ingombranti azionisti della sua maggioranza. Un «parlare ambiguo, un tacer significativo, un restare a mezzo» che copre tutto (…) C’è l’elogio del Parlamento certo, ma non la difesa della libertà del parlamentare nei confronti del governo e dei partiti, una libertà che si esprime anzitutto attraverso il presidio liberale del divieto di ogni vincolo di mandato. C’è la definizione degli Stati Uniti come «alleato privilegiato», ma si invoca l’apertura alla Russia e la fine delle sanzioni. C’è la difesa degli immigrati, ma anche la promessa-minaccia di riorganizzare il sistema dell’accoglienza”.
Poi c’è il non detto, i temi “taciuti o sorvolati per titoli: la cultura, la scuola, l’abolizione della legge Fornero, il destino dell’Ilva, l’Alitalia. Per non dire del silenzio sui diritti civili, sulle nuove famiglie “arcobaleno” e sui loro figli”. E c’è il non detto sulle coperture, come sottolinea Dino Pesole sul Sole 24 Ore: “È un contratto «per il Governo del cambiamento», quello illustrato ieri dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che parte con alcuni omissis. Dall’euro, che avrebbe richiesto già nell’esposizione programmatica quanto poi Conte ha esplicitato in sede di replica (l’uscita dall’euro «non è mai stata in discussione»), al tema altrettanto decisivo delle coperture e delle clausole Iva. Si va dal «salario minimo orario» al reddito e alla pensione di cittadinanza, al debito pubblico che va ridotto azionando la leva della crescita. Obiettivo condivisibile a patto che si chiarisca in che modo si intende spingere sul pedale dello sviluppo per creare occupazione e lavoro stabile, con quali politiche economiche, industriali e fiscali”.

“Robespierre de noantri”

Il Manifesto ha in copertina una immagine con Conte che ha al suo fianco Salvini e Di Maio, titolo: “Sorvegliato speciale”. E Gian Antonio Stella, sul barcamenarsi di Conte fra il programma leghista e quello grillino, scrive sul Corriere della Sera un commento che evoca una delle figure più rappresentative della prima repubblica: Arnaldo Forlani. “Tener insieme le pretese dei grillini e le pretese dei leghisti, infatti, non sarà affatto facile. Certo, l’uomo scelto da Luigi di Maio e Matteo Salvini per fare, sia detto col massimo rispetto, il nobile servant dei due padroni, ha mostrato ieri al debutto nell’aula di Palazzo Madama, terreno di sanguinose battaglie parlamentari a dispetto di velluti e stucchi, di aver doti di trapezista. E dopo aver reso omaggio al presidente Sergio Mattarella «che rappresenta l’unità nazionale» (manco un applauso: muti) si è avviato sul filo del programma stando miracolosamente attento a non spostare il peso di un millimetro più in qua o più in là. I più anziani, ricordando le acrobazie di Arnaldo Forlani in mezzo agli amatissimi aspiranti sicari democristiani, dicono di vedere in lui qualcosa di quell’indimenticato «Coniglio Mannaro»”.
Sul Fatto Quotidiano, Tommaso Rodano paragona il premier a una lavatrice: “L’impressione che si ricava dal primo, lunghissimo discorso pubblico di Giuseppe Conte – 71 minuti e 24 secondi, più altri 30 di replica – è che di Maio e Salvini abbiano piazzato a Palazzo Chigi una lavatrice. Conte prende il programma di Lega e Movimento Cinque Stelle e ripulisce i panni sporchi sui temi più sensibili: euro, Nato, immigrazione. Il professore presta la sua immagine compita e il suo eloquio pacato e rassicurante -un pò rigido – ai due partiti che lo sostengono”.
Paolo Guzzanti sul Giornale ne dà una immagine da provinciale Robespierre: “(…) l’ambizioso cattedratico Giuseppe Conte ieri in Senato sembrava che parlasse a una convention aziendale anziché davanti a una Camera del Parlamento. E purtroppo quasi tutti gli interventi della sua parte sono restati sulla lunghezza d’onda corta: enfatici, rabbiosi, pieni di complessi, desolatamente banali. Il leader, che imbarazzo, si umettava con la lingua il dito per voltare pagina come un vecchio parroco o una vecchia zia, e levava poi lo tesso dito umido per zittire i contestatori come un don Abbondio arrabbiato.(…) Alza la voce fingendosi emozionato, ma si vede che manca di empatia, non parliamo della simpatia. Non cerca i sentimenti degli altri, ma pretende di imporre i propri. abituato, è accademico, è un giovane barone. Non ha sorriso mai. Neanche un cenno di leggerezza, un segnale di presenza di quella virtù democratica che è il senso dell`umorismo. Insomma, un Robespierre de noantri, un Saint-Just di periferia (…)”.

La reazione del PD

Tutti i quotidiani danno spazio alla risposta di Matteo Renzi.Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera scrive: “L’ex segretario aveva promesso di ritagliarsi un ruolo da mediano nel Pd, ma alla fine anche ieri ha indossato la maglia del numero io. (…) Nel bene e nel male e, a volte, suo malgrado, Renzi resta al centro della scena. E infatti Salvini, che subito dopo l’intervento di Conte era scomparso dall’aula, rientra proprio per ascoltarlo. Solo Di Maio ostenta una sdegnosa indifferenza. (…) secondo l’ex premier «Salvini e Di Maio sono le due facce della stessa medaglia». Ed è a loro direttamente che si rivolge, dopo aver detto a Conte: «Non avrete la nostra fiducia, ma avrete il nostro rispetto perché quando lei, presidente, andrà al G7, all’Onu o alla Ue, ci andrà con il tricolore a rappresentare l’Italia». Poi, il messaggio indirizzato al vicepremier grillino risuona forte e chiaro nell’aula: «Voi non siete lo Stato, siete il potere, non avete più alibi e noi non vi faremo sconti». E che cosa intenda per non fare «sconti» Matteo Renzi lo spiega poco dopo: «Noi faremo il nostro dovere di opposizione e inizieremo già la settimana prossima convocando la ministra della Difesa al Copasir per una cosa che ella sa bene». Parole che si riferiscono all’accusa lanciata dal Pd a Elisabetta Trenta di conflitto di interessi per i passati rapporti con una società di contractor. Anche con Salvini l’ex premier è duro: «Stia attento alle parole, non possiamo permetterci di creare un clima incendiario, polemiche e una crisi con la Tunisia. Salvini non è più solo un leader politico. Rappresenta un Paese. E io parlo al ministro dell’Interno da padre a padre. Ora che è responsabile della sicurezza nazionale, parli sapendo che i figli ci ascoltano». Quanto al futuro di questo governo l’ex premier è tranchant: «Il contratto è scritto con l’inchiostro simpatico e garantito da un assegno a vuoto»”.
Andrea Orlando, sul Manifesto, facendo riferimento alla dichiarazione orgogliosa di Conte di rappresentare il populismo, sottolinea che: “Il populismo, termine con cui definiamo cose diverse, ha il tratto comune di alzare le aspettative e poi, per nascondere il fallimento, provare a individuare dei nemici. Fondare due nazioni in uno stesso stato, dare la colpa all’altra. Colpa di una categoria di stranieri in patria, accanto agli stranieri. Lo hanno fatto Trump e Orban”.

Il commento / I muri della nuova Italia

Mario Calabresi su Repubblica mette in evidenza le nuove parole d’ordine del governo Conte: “in questa direzione nuova i riferimenti diventano la Russia di Putin e l’Ungheria di Orbàn, non importa se siano esempi di uno scadimento della democrazia e dei diritti umani, importa che parlino il linguaggio della sicurezza tanto caro a Matteo Salvini. La nuova Italia immaginata avrà i suoi muri, siano quelli delle nuove carceri o dei centri dove tenere i migranti che sperano di ottenere lo status di rifugiati, e guarda a una nuova Europa che sia fortezza per contenere chi già ci abita. Pazienza se il continente invecchia e non è capace di tenere il passo dell`innovazione e della crescita, pazienza se quasi la metà delle prime 500 grandi aziende americane sono state fondate da immigrati di prima o seconda generazione, la priorità oggi è difendersi dalla diversità che spaventa, costi quel che costi. L’avvocato difensore degli italiani, il portavoce del contratto, ha la spensierata sicurezza dell’uomo nuovo, sa che deve convivere con i due veri premier di questa maggioranza e sa che il suo di contratto prevede la capacità di stare un passo indietro. A dettare le regole sono i patti tra i due partiti. Tanto che le sue linee guida le esplicita con chiarezza: ascolto, esecuzione e controllo”.

lunedì 4 giugno 2018

Vittorio Feltri, la replica ad Antonio Socci: "Dimmi come questo governo può fare ciò che ha promesso"

3 Giugno 2018
Vittorio Feltri
Caro Antonio Socci, Libero pensa, sperando di sbagliare, che l’alleanza grillini-leghisti non possa dare buoni frutti. Ti segnalo: per l’intera, lunga, campagna elettorale i due partiti si sono scannati. L’improvviso accordo suscita pertanto sospetti motivati. Mi stupisco che il dettaglio ti sia sfuggito. Inoltre non ci fidiamo di Di Maio e del suo gruppo. Trattasi di persone impreparate. Le lacune culturali del leader sono note a tutti tranne che a te. Strano. Non consideri neppure questo: consegnare il ministero del Lavoro a un ragazzo disoccupato vocazionale fa venire i brividi a coloro che si guadagnano il pane sgobbando. I governi sono come gli alberi, è vero: si giudicano da quanto producono. Però se nel programma dell’esecutivo si elencano il reddito di cittadinanza, l’abolizione della legge Fornero, la aliquota unica (bassa) - per citare solo alcune amenità - suppongo sia lecito essere perplessi.
Spiegami tu, che non sei conformista come immagini sia invece io, se è normale ridurre il debito pubblico più alto d’Europa, incrementando in misura folle la spesa anziché tagliandola. È un mistero che ti prego di svelarci. Io non sono un economista per fortuna, altrimenti sarei povero, in ogni caso so fare il conto della serva e non ho mai visto nessuna famiglia e nessuna azienda raggiungere il pareggio di bilancio sborsando più soldi di quanti ne incassano. Se aggiungi che i pentastellati vogliono chiudere l’Ilva, sospendere la realizzazione delle grandi opere, predicando la decrescita felice, capirai che le mie preoccupazioni non sono assimilabili a quelle dei commentatori progressisti.
Per attaccare me e Libero non c’è bisogno di inventarsi la nostra amicizia con Renzi. Certe bufale lasciale dire a Maurizio Belpietro allo scopo di giustificare la sua uscita da viale Majno. Noi siamo estimatori della Lega per ragioni concrete: i padani amministrano da decenni, e assai egregiamente, numerosi enti locali, tra cui la Lombardia e il Veneto, quindi hanno le carte in regola per gestire pure il Paese. Non ci garbano i Cinquestelle perché sono dei pasticcioni. Le loro esperienze a Roma e a Torino sono prove negative incontestabili.
E veniamo alla stampa. È innegabile che tenda in massima parte al rosso e questo la spinge lontana dalla realtà che intende descrivere e dalle opinioni popolari. Se però i giornali hanno perso il 60 per cento delle copie vendute, ciò dipende dalla rivoluzione tecnologica: la gente legge le notizie (spesso false) sul display, e lo fa gratis, trascurando la carta, che costa cara.
Ultima cosa, il referendum sulle riforme renziane. Avessimo votato sì oggi non saremmo conciati tanto male. Ci saremmo sbarazzati del Senato e avremmo una legge elettorale meno perniciosa di quella in vigore. Il caos odierno è figlio della bocciatura del plebiscito. Chi lo nega è in malafede.
di Vittorio Feltri

domenica 3 giugno 2018

Il governo degli spergiuri

Il governo giura su furbizie e false promesse

Onore al governo che si è insediato giurando fedeltà alla Costituzione, ma se e quanto sarà vero onore lo vedremo.
Non ci mettiamo la mano sul fuoco non per sfiducia pregiudiziale ma perché è innegabile che si è arrivati a ieri attraverso una serie di spergiuri nei confronti degli elettori ai quali - scommettiamo - si aggiungeranno quelli sugli impegni presi e sottoscritti solennemente nel contratto di governo tra Cinque stelle e Lega. 
Qui non c'entra la Costituzione ma l'affidabilità, la serietà e la lealtà dei personaggi in campo. Sarebbe banale ricordare che Di Maio e Salvini avevano giurato «mai insieme»; che Di Maio aveva ridicolizzato la flat tax e viceversa Salvini aveva giurato sul «mai reddito di cittadinanza» spreco di Stato. 
Sarebbe facile ripescare le battute ferocemente antieuropeiste dei due leader ora rassicuranti sulla tenuta dei patti monetari e politici; o ricordare a Salvini che prima del voto voleva portare Berlusconi dal notaio per certificare e blindare a futura memoria l'indissolubilità dell'unità del centrodestra
Sarebbe un gioco da ragazzi far notare che i membri del governo hanno giurato nelle mani di un presidente al quale fino a poche ore fa davano dello spergiuro, con tanto di richiesta di messa sotto accusa.
Sarebbe facile completare questo lungo elenco. Ma parleremmo del passato, mentre da oggi il problema è il futuro con i suoi spergiuramenti che incombono. 
Quisquilie, ma già si parla di cambiare i vertici della Rai e dei Tg per uniformare l'informazione pubblica ai voleri del nuovo regime, tradendo l'annunciato principio «fuori i partiti dalla Rai». Come già vacillano i giuramenti di non alzare le tasse (si parla di aumentare l'Iva per pagare altre promesse) e di «rispedire al mittente i barconi degli immigrati» (perché tecnicamente non è possibile).
È dura passare dalle parole ai fatti. Come scrive su queste pagine Francesco Del Vigo, i ministri del popolo grillini e leghisti sono arrivati al Quirinale in taxi ma sono usciti in auto blu, con scorte e segretari al seguito. Come è giusto che sia alla faccia della loro demagogia che sosteneva il contrario. 
Quando i «cittadini» arrivano al potere diventano casta, che la smettano almeno di fare i moralisti. 
Del resto siamo il paese del Gattopardo: tutto cambi perché nulla cambi. Giuro che è e sarà così.