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mercoledì 8 gennaio 2014

Le panzane qualunquiste di Renzi



 
  
Giovanni Alvaro 
Martedì, 07 Gennaio 2014 
 
Matteo Renzi ha, indiscutibilmente, una grande capacità comunicativa. Riesce con la parola e senza urlare alla plebe, a trasmettere messaggi accattivanti. Sembra un commerciante in grado di vendere qualsiasi prodotto, anche scadente e poco utile. In una parola, sa far stare in piedi, come si dice al Sud del nostro Paese, anche i sacchi vuotiGli manca, però, quel quid che può far pensare ad un politico di razza o a un premier di livelloper cui è improbabile che possa diventare uno statista.
Il suo percorso è tutto lastricato di opportunismo. Cavalca sopratutto quanto può fargli realizzare il sogno di sostituire Enrico Letta a Palazzo Chigi stando attento a non caricarsi della responsabilità della caduta del governo e delle conseguenti nuove elezioni. Per questo nel mentre presenta tre proposte per sciogliere il nodo della ‘legge elettorale’senza indicare quale preferiscee lasciando agli altri il compito di fronteggiarsi, accompagna le stesse con tre micidiali bombe.
Due destinate agli ingenui del NCD che si cullavano sulla loro indispensabilità e si sentivano in una botte di ferro perché sicuri del rapporto con Letta, e ultrasicuri della copertura del Presidente della Repubblica. Mettere sul tappeto, come Segretario del PD, le unioni civili e la legge Bossi-Fini è stato un colpo terribile sferrato agli Alfanoai Formigoni ed ai Giovanardi che non possono ingoiare l’avvio della legalizzazione delle unioni gay, e non possono tollerare la liquidazione di una legge che aveva bloccato i flussi di immigrazione clandestina senza rompere quel tenue legame con un pezzo di popolo moderato. La terza è stata riservata a Fassina che d’impulso, come certamente previsto, ha rassegnato le dimissioni aprendo la strada ad un rimpasto che farà crollare tutto.
Ma la specialità di Renzi, come egregiamente ha sottolineato Arturo Diaconale, su l’Opinone, è l’inquietante pressapochismo ispirato alla demagogia mediatica più semplicistica e becera”In parole semplici, è costantemente attento alla pancia dell’elettorato e si fa guidare dagli umori che salgono dal basso facendo concorrenza al grillismo qualunquista tanto di moda in tempi durante iquali anche la grande stampa offre una valida sponda all’antipoliticaLa scelta di dire no all’amnistia (malgrado fosse uno dei 100 punti del programma della Leopolda degli anni passati) e la bandiera del risparmio, posta a base delle riforme costituzionali, sono la cartina di tornasole.
Che ciò sia poi accompagnato da un esasperante giovanilismo (dal quale non sfuggono Letta e Alfano) e condito da uno sconfortante pressappochismo la dice lunga sulla consistenza del guascone fiorentino che sventola bandiere senza specificare il come e il quando. Non sarà infatti la trasformazione della ragion d’essere del Senato e l’abolizione delle province che faranno risparmiare quel miliardo stampato sulla bandiera che sventola qualunquisticamente ad uso e consumo degli allocchi. Il risparmio sarà circoscritto solo agli stipendi dei senatori, a quelli dei membri delle Giunte Provinciali ed ai gettoni dei Consiglieri.
Il Senato, infatti, continuerebbe a lavorare con altri compiti (è lo stesso Renzi a metterlo in conto) e le competenze delle province, con annessi dipendenti, passerebbero ad altri enti come le città metropolitane o le stesse regioni. Alla fine, e a regime, il risparmio sarebbe veramente irrisorio e non supererebbe i 200 milioni. Ma intanto è stato fatto passare il messaggio che i guai del paese siano tutti da ricercare nei costi della politica e in quelle delle istituzioni, allontanando l’attenzione dagli sprechi della spesa pubblica senza risolvre il problema del debito.
Qualcuno dovrebbe dire a Renzi che per finanziare i pannelli fotovoltaici si sono spesi ben 70 miliardi per produrre energia quanto potrà essere prodotta da una centrale che costerà si e no 1,3 miliardiE nel caso della Calabria il finanziamento è totalmente a carico dei private.

venerdì 20 dicembre 2013

Il "rottamatore" gia' quasi "rottamato"



Giampiero Pallotta
venerdi, 20 dicembre 2023

Renzi è già svaporato, come si sospettava. Ora accetta i tempi lunghi imposti da Napolitano e sarà presto cotto in padella. I suoi "proclami" sono diventati ridicoli. Si possono "stiracchiare" in qualsiasi direzione e lui non pare l’uomo giusto per imporre alla politica italiana un percorso deciso e rapido. 
L'elezioni non ci saranno in primavera 2014, quindi lui sara'  "stracotto". Sotto la padella la fiamma è ormai alta, la frittura, tutta bruciacchiata, è già da buttare.
Renzi grida ai quattro venti che vuole realizzare questo e quest’altro. Sai in quanti (Berlusconi in primis) l’hanno detto prima di lui? La speranza, questa volta, era che non si facesse irretire dalle lungaggini tipiche della politica italiana che lui voleva rottamare, e che, invece, già è vicina a rottamare lui.

martedì 17 dicembre 2013

Puntare tutto su una persona


  
 
Ernesto Galli Della Loggia
Martedì, 17 Dicembre 2013 .
      
Corriere della Sera - La crisi economica sta spingendo la politica italiana in una direzione molto precisa: verso un’oggettiva accelerazione del processo di personalizzazione. Soprattutto per due ragioni: perché fino ad ora tale processo - checché se ne sia detto a proposito del berlusconismo - non era ancora andato molto innanzi, ma soprattutto perché da noi più che altrove (eccezion fatta per la Grecia) la crisi economica sta prendendo il carattere di un’aspra crisi sociale. Cioè di una radicale messa in discussione dello status di milioni di persone: percepita in modo tanto più doloroso quanto più elevato era il livello precedente di garanzie e di benefice.
In una situazione del genere è naturale che si diffondano sentimenti individuali e collettivi di incertezza e di timore. Non si è più sicuri di ciò che si è e di ciò che si ha, di ciò che può riservare il futuro. Appaiono in pericolo i progetti di vita e i mezzi necessari a realizzarli (la piccola rendita finanziaria, il mutuo per la casa, l’avere un figlio, la pensione). Domina una sensazione angosciosa d’instabilità.
Sono queste le condizioni psicologiche ideali perché cresca la domanda di una guida, di un orientamento autorevole, di qualcuno che indichi la via per uscire dal tunnel. Non inganni il mare di discorsi sulla presunta ondata di antipolitica. È vero l’opposto: nei momenti di crisi come quello che attraversiamo cresce sì, e diviene fortissima, la critica alla politica, ma a quella passata (che le oligarchie intellettuali vicine al potere scambiano appunto per antipolitica tout court ), mentre invece diviene ancora più forte la richiesta di una politica nuova e diversa. Sotto la forma, per l’appunto, di una leadership all’altezza della situazione. Di qualcuno che sappia indicare soluzioni concrete ma soprattutto sia capace di suscitare un’ispirazione nuova, di infondere speranza e coraggio, di alimentare - non spaventiamoci della parola - anche una tensione morale più alta: quella che serve a restituirci l’immagine positiva di noi stessi che la crisi spesso distrugge.
La leadership in questione però - ecco il punto - può essere incarnata solo da una persona, da un individuo, non da una maggioranza parlamentare o da un’anonima organizzazione di partito: due dimensioni che in Italia si segnalano da decenni solo per la loro irrisolutezza e la loro sconfortante modestia. La personalità, invece, è sempre stata, e sempre sarà, pur nella sua inevitabile ambiguità, la risorsa ultima e maggiore della politica: proprio perché nei momenti critici, delle decisioni ultimative, è unicamente una persona, sono le sue parole e i suoi gesti, il suo volto, che hanno il potere di dare sicurezza, slancio e speranza. Nei momenti in cui molto o tutto dipende da una scelta allora solo la persona conta.
L’opinione pubblica italiana si trova oggi precisamente in questa situazione psicologica: è alla ricerca di qualcuno a cui affidare la guida del Paese, di qualcuno che mostri la volontà di assumersi questo compito, di avere la capacità e il senso del comando, l’autorevolezza necessaria. È una ricerca, un’attesa, così acute, nate da un sentimento di frustrazione e di esasperazione ormai così vasto e profondo, da rendere quasi secondarie le tradizionali differenze tra destra e sinistra, essendo chiaro che a questo punto ne va della salvezza del Paese, cioè di tutti. Dietro l’ascesa di Matteo Renzi, e a spiegare l’atmosfera elettrica che sembra accompagnarlo ovunque, c’è un tale sentimento. Così forte tuttavia - e questo è il massimo pericolo che egli corre - che alla più piccola smentita da parte dei fatti esso rischia tramutarsi in un attimo nella più grande delusione e nel più totale rigetto.

sabato 7 dicembre 2013

La credibilita' perduta

  
 
Fabio Raja
Venerdì, 06 Dicembre 2013
 
In un  editoriale di qualche giorno fa del Corriere della Sera, ripreso anche da questo Blog, il Prof. Angelo Panebianco ha, tra le altre cose, criticato il voto con cui il Senato ha deliberato la decadenza di Silvio Berlusconi dalla carica di Parlamentare ricordando che analogo pensiero era stato espresso il giorno precedente da Sergio Romano in risposta ad una lettera di una Parlamentare Australiana di origine italiana che si complimentava per coraggio mostrato dai nostri Senatori nell’espellere un personaggio “tanto potente”.
Nella sua risposta l’Ambasciatore Romano, dissentendo dalla sua interlocutrice, ha definito quel voto un violazione del “galateo politico”. Ci rallegriamo, naturalmente, che due osservatori tanto autorevoli ed equilibrati esprimano oggi le loro perplessità su quanto accaduto, anche se sarebbe stato più utile e coraggioso sollevare la questione prima e non dopo che il patatrac si consumasse. Ma forse lo hanno fatto e mi è sfuggito.
Utile perché così importanti pareri se pronunciati per tempo avrebbero forse potuto indurre nel PD un ripensamento e a stimolare una discussione che invece non c’è stata a parte qualche isolata voce dissenziente subito rabbiosamente zittita.
Il centrosinistra è stato così lasciato solo nella convinzione che votare per la decadenza fosse giusto oltre che inevitabile. Peggio che solo, era in compagnia dei Grillini che di galateo, e non solo di quello politico, sono tragicamente digiuni.
Potrebbe, a questo punto, apparire ozioso tornare sulla caso e tuttavia lo facciamo convinti che, come ha previsto Panebianco, quel voto avrà pesanti conseguenze sul futuro dell’Italia.
In questi mesi si è sentito ripetere di continuo che la legge è uguale per tutti perciò non si poteva riservare un trattamento diverso al Cavaliere.
Dal punto di vista giuridico non c’è dubbio che i Tribunali debbano trattare allo stesso modo il potente e il poveraccio. Ma quello che si chiedeva al Senato non era una valutazione giuridica, che non è nelle sue competenze ma “politica” essendo il Senato della Repubblica un organo politico.
Sotto questo punto di vista il concetto “siamo tutti uguali” non vale, o almeno in misura minore, essendo incommensurabilmente diverso il peso di un politico qualsiasi da quello del Cavaliere, leader indiscusso di una forza politica da vent’anni è punto di riferimento di milioni di elettori.
La decapitazione del capo di una parte politica attraverso il voto di Senatori che fanno parte di partiti avversari non suona affatto bene ed evoca scenari più simili a paesi sud Americani che non ad una democrazia matura.
La democrazia che, come ha detto argutamente Panebianco, è un oggetto molto delicato, deve essere maneggiato con riguardo e delicatezza. Una cura che avrebbe dovuto suggerire ai Senatori del PD una prudenza straordinaria ed una scrupolosa applicazione di tutte le garanzie perché non vi fosse nemmeno la più piccola ombra, il più remoto dubbio che quel voto fosse “inquinato” dal risentimento e dall’animosità verso l’antico avversario.
Sul quel voto, purtroppo, non incombe solo un’ombra ma una vera e propria tenebra dal momento che, ignorando i richiami di Violante e di illustri Costituzionalisti, non si è voluto sentire il parere della Corte Costituzionale e poi, contravvenendo ad una prassi lungamente consolidata del Parlamento Repubblicano, si è imposto il voto palese.
Il PD ha voluto declassare quel voto a “mero automatismo” quasi che la Legge Severino imponesse la decadenza in modo meccanico. Se così fosse  non avrebbe richiesto il voto della Giunta e quello dell’Aula, ma al più una semplice presa d’atto, come avviene per l’interdizione a seguito di una condanna penale che espelle il Parlamentare senza che vi sia alcun pronunciamento nè in Aula nè in Giunta.
Sul partito che caccia dal Parlamento l’avversario politico storico senza assicurargli almeno il doppio delle garanzie che avrebbe usato nei confronti di un proprio iscritto grava e graverà per molto tempo una macchia che, come ha detto Violante, si chiama credibilità.

sabato 30 novembre 2013

Tutti quelli che si vantano: Berlusconi l'ho ucciso io

Dai politici alle toghe ai giornalisti: adesso c'è persino la gara tra chi vuole attribuirsi la decadenza di Berlusconi

 
 
La sconfitta, diceva John Keats, è orfana; mentre la vittoria ha moltissimi padri. Il meno che ci si potesse aspettare, quindi, era la fila allo sportello dell'anagrafe dei presunti papà ansiosi di registrare a proprio nome quella discutibilissima vittoria che per una parte dell'Italia rappresenta l'espulsione di Silvio Berlusconi dal Senato della Repubblica.
 
Poi magari una pernacchia seppellirà questa sfilza di tristi sciacallini, e la vittoria diventerà soltanto di Pirro.  Ma intanto va così.
Eccoli, i papà della «grande cacciata». L'elenco è lungo, mettetevi comodi. Si potrebbe partire da Marco Travaglio, che è là che alza la manina, non sta nella pelle. «Se ieri per la prima volta nella storia il Parlamento ha espulso un pregiudicato - scriveva ieri sul Fatto Quotidiano - il merito (...) è anzitutto (di) un pugno di giornalisti, alcuni dei quali scrivono su questo giornale». E a proposito di quotidiani, it's party time sulle pagine di Repubblica, il giornale con più lunga militanza antiberlusconiana. Che celebra un po' prematuramente la chiusura di un ventennio con un lungo coccodrillo in vita firmato Filippo Ceccarelli.
Ecco venire avanti una schiera di magistrati, in testa Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Corte di Cassazione che ha messo il turbo al processo Mediaset confermando la condanna per frode fiscale a carico del Cav. Ieri Dagospia avvistava Esposito col collega Piercamillo Davigo allo Splendor Parthenopes, locale partenopeo a pochi metri dal Palazzaccio, sede della Cassazione. Il clima pare fosse ilare. E chissà che non sia stata stappata una bottiglia per un brindisi aumm' aumm'. Ma altre toghe possono disporre sul caminetto la testa del Cav come trofeo di caccia. Elenca Travaglio: «Il tanto bistrattato pm Fabio De Pasquale, i collegi di tribunale e d'appello presieduti da Edoardo d'Avossa e Alessandra Galli, che hanno condotto indagini e dibattimenti sul caso Mediaset con fermezza e correttezza».
Ecco che s'avanza Beppe Grillo a rivendicare la sua fetta di merito: il voto palese «sulla decadenza del senatore Silvio Berlusconi» è stato strappato «grazie al M5S», si legge sul blog del comico. Poi in aula è stata Paola Taverna a vantarsi fiera: "Ci siamo ripresi un potere che era stato strappato ai cittadini e ha Berlusconi lo sputo." E Pietro Grasso, presidente del Senato? Ha pronunciato la decadenza di Berlusconi, ma soprattutto fino all'ultimo ha obliterato lo stravolgimento delle regole stabilito dalla giunta per le elezioni con la scelta del voto palese che ha costretto i senatori al rispetto della disciplina di partito. «Io sono un arbitro», ha ripetuto più volte Grasso. Saremo buoni e gli risparmieremo la moviola. E a proposito di figure formalmente terze, se non padre almeno nonno della decadenza del Cav è pure il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il custode delle larghe intese che però sembra intenzionato a sopravvivere allo svuotamento delle stesse. È lui che molti indicano come il mandante dell'esecuzione di Berlusconi: obiettivo raggiunto e fedina penale pulita. Tra i tanti mezzucci impiegati, quello di nominare un pugno di senatori a vita antiberlusconiani, alcuni dei quali hanno scoperto solo mercoledì l'indirizzo di Palazzo Madama, servendo il loro voto.
E poi c'è Enrico Letta, il premier che nel giorno dello sbianchettamento del Cav ha pensato bene di celebrare i risultati del suo governo e dire ai quattro venti: «Ora siamo più forti». C'è il segretario pro tempore del Pd Guglielmo Epifani che si bulla di aver affermato «lo stato di diritto e il suo principio base, ovvero che la legge è uguale per tutti». C'è perfino Mario Monti a gonfiare il petto: «Non è stata la sinistra, non è stato il M5S a portare a questo fatto riguardante il senatore Berlusconi - dice l'ex premier con sintassi rivedibile - a è stato un governo di grande coalizione, che io presiedevo, sul finire del 2011». E anche Paola Severino, ministro della Giustizia di quel governo, può gloriarsi di aver battezzato la legge che è costata a Berlusconi lo scranno di Palazzo Madama. «Una legge giusta», ripete come un mantra. Lo dirà la Corte Costituzionale.

venerdì 29 novembre 2013

Il sangue del vinto ma non arreso

   


Mercoledì, 27 Novembre 2013 

I dirigenti del Partito Democratico, renziani o cuperliani che siano, non si pongono neppure il problema delle conseguenze della decadenza di Silvio Berlusconi. Sono troppo inebriati dalla possibilità di salutare l’8 dicembre agitando la testa dell’odiato avversario storico sulla picca della loro intransigenza.
E non si rendono minimamente conto che non aver lasciato alla magistratura ordinaria il compito di cacciare il Cavaliere dal Parlamento e di aver compiuto ogni sforzo per assumerne la titolarità strappandola addirittura al Movimento Cinque Stelle, costituisce un atto che si ritorcerà gravemente sul loro partito e sull’intero Paese. In passato, l’aver sparso il sangue dei vinti rivendicandolo come atto di suprema giustizia rivoluzionaria ha alimentato per generazioni nella stragrande maggioranza dell’opinione pubblica nazionale un fortissimo pregiudizio nei confronti dell’affidabilità di governo della sinistra italiana.
Non è senza significato se il primo ed unico esponente della sinistra di discendenza comunista (Massimo D’Alema) è entrato a Palazzo Chigi non in seguito al risultato elettorale ma grazie ad un complotto di Palazzo ordito da un democristiano (Francesco Cossiga) in nome e per conto della Nato. E non dipende dal destino cinico e baro se a Palazzo Chigi oggi sieda un post-democristiano come Enrico Letta e non un post-comunista come Pierluigi Bersani e che il quasi sicuro segretario del Pd sia un altro post-democristiano come Matteo Renzi e non un post-comunista come Gianni Cuperlo.
La maledizione del sangue dei vinti non si è ancora estinta. Ed è facile prevedere che invece di venire dimenticata dal passare degli anni possa essere alimentata dal sangue metaforico di un vinto che però non si arrende e farà di tutto per rivendicare la sua innocenza e prendersi la sua rivincita. Può essere che i dirigenti del Pd se ne infischino di una conseguenza del genere e che siano soddisfatti, come già in passato, del consenso euforico del nocciolo duro dei propri militanti. Ma un partito che, come ha ricordato D’Alema, esprime il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Presidente del Senato ed a mezzadria con Sinistra Ecologia Libertà anche quello della Camera, non può ignorare le conseguenze internazionali dell’espulsione dal Parlamento dell’unico leader di opposizione presente nelle assemblee rappresentative.
Forse la Merkel ne sarà rassicurata, come ha cercato di sostenere Enrico Letta e forse i banchieri inglesi e tedeschi brinderanno all’eliminazione del pericoloso nemico. Ma sotto i festeggiamenti di chi ha interessi e pregiudizi antitaliani incomincerà fatalmente a circolare il sospetto che il nostro Paese si sia incamminato sulla scia di quelle repubbliche post-sovietiche dove i leader dei partiti all’opposizione si sbattono in galera accusati di reati comuni. Non si tratta di un sospetto da poco.
Perché non è da poco caricare un Paese, che già viene visto con gli occhiali degli antichi pregiudizi, del peso dell’etichetta di una democrazia debole dove chi sta al potere cerca di eliminare il principale avversario sbattendolo ai servi sociali grazie ad una magistratura politicizzata. Giorgio Napolitano, che tanto si preoccupa della credibilità internazionale dell’Italia, farebbe bene a porsi il problema. Dalla prossima settimana il nostro Paese sarà più simile all’Ucraina che alle democrazie europee!

Perseguitato da vent'anni

Il saluto di Berlusconi ai suoi elettori


27 novembre 2013

(da “Dagospia”, 27 novembre 2013)

berlusconi-saluta- da Dagospia



Perseguitato da vent’anni

di Simone Di Meo – Luca Rocca
da “Il Tempo”, 27 novembre 2013

Ecco i numeri incredibili (mai calcolati prima, giorno dopo giorno) della più grande persecuzione giudiziaria di tutti i tempi che, almeno politicamente, si conclude oggi con il voto sulla decadenza: in vent’anni, Silvio Berlusconi ha affrontato 34 processi rispondendo di 40 diversi capi di imputazione. Il dato non tiene conto delle decine di inchieste (anche per diffamazione) aperte in ogni angolo del Paese, e anche all’estero, cavalcate mediaticamente e politicamente contro di lui, su ipotesi di reato poi crollate nel nulla. Di tutto questo accanimento dimenticato trovate la prova in queste pagine. Le procure di mezz’Italia non gli hanno risparmiato nulla: corruzione, falso in bilancio, concorso esterno mafioso, riciclaggio, concorso in stragi, frode fiscale, corruzione giudiziaria, finanziamento illecito ai partiti, appropriazione indebita, aggiotaggio, insider trading, rivelazione di segreto d’ufficio, concussione, favoreggiamento della prostituzione minorile, abuso d’ufficio, vilipendio all’ordine giudiziario e induzione a rendere false dichiarazioni all’autorità giudiziaria. Sei procedimenti sono ancora in corso a fronte di 14 archiviazioni, 8 assoluzioni, 1 proscioglimento, 5 prescrizioni, 1 amnistia e 2 fascicoli depenalizzati. Pure la magistratura spagnola l’ha messo sott’inchiesta (archiviata) per la vicenda TeleCinco. Dal 1995 ad oggi, il Cav è stato condannato tre volte, e solo recentemente, a fronte di processi discussi e discutibili, e con una rapidità senza precedenti: in primo grado a 7 anni di reclusione per prostituzione minorile e concussione (Ruby), sempre in primo grado a 1 anno per l’affaire Unipol, e in Cassazione a 4 anni per frode fiscale (Mediaset). È il premier che col suo governo ha raggiunto i maggiori risultati nella lotta al crimine organizzato (incluso l’inasprimento del carcere duro) ed è stato il bersaglio dei pentiti di mafia che lo hanno citato in centinaia di verbali accusandolo di ogni nefandezza, dall’aver trafficato e usato droga per assunzioni personali oltre ad aver comprato partite di calcio Champions, dalle stragi di mafia alla nascita del suo impero dovuto ai suoi contatti con le vecchia e nuova mafia. È stato intercettato in violazione delle prerogative parlamentari anche quand’era premier. Hanno ficcato il naso nella vita privata sua e dei suoi figli. Una gigantesca caccia all’uomo come non se ne sono mai viste al mondo.
L’elenco di 20 anni di accuse -1

L’elenco di 20 anni di accuse – 2

L’elenco di 20 anni di accuse – 3

L’elenco di 20 anni di accuse – 4

L’elenco di 20 anni di accuse – 5

L’elenco di 20 anni di accuse – 6