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lunedì 24 marzo 2014

Cosi' non puo' durare, il patratac e' alle porte...


Il guaio dell’uomo è che vive per troppo poco tempo. I fenomeni importanti richiedono molti decenni, per concludersi, e alla fine o ci stanchiamo di aspettare la soluzione o più semplicemente non ci siamo più. L’esempio migliore è la decadenza dell’Impero Romano. I più avvertiti si rendevano conto che “così non poteva durare”, e infatti l’imperatore Giuliano fece un tentativo generoso di fermare il declino. Ma molti tiravano a campare. I decenni passavano e, pur andando di male in peggio, l’Impero Romano era sempre lì. Qualcuno poteva anche pensare che dopo tutto quegli scricchiolii in fondo non fossero importanti. Finché Odoacre tirò una riga sotto quel grande fenomeno storico e morì persino la lingua latina. “Così non poteva durare” e infatti “non durò”.
Alcuni uomini ragionevoli, negli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si preoccupavano dell’immane debito pubblico che si stava accumulando, ne erano allarmati e ne parlavano con i pochi disposti ad ascoltarli. E invece gli ottimisti li guardavano scettici: parlavano di economia in espansione, di dilatazione demografica e dunque dell’allargamento della platea di contribuenti. I pessimisti passavano per dei menagramo e infatti sono morti “avendo torto”. Ma chi ha continuato a vivere fino all’epoca presente, ha potuto vedere che l’aritmetica non fa sconti a nessuno: quel debito astronomico ci ha portati al disastro ed oggi è difficile trovare osservatori ottimisti.
Nella vita bisogna innanzi tutto cercare di capire se i grandi problemi non dipendano dalla natura umana: perché in questo caso sarebbero ineliminabili e comunque non peggiorerebbero mai di molto, nel tempo. Sarebbero qualcosa con cui bisogna convivere. Se invece  le difficoltà di un momento storico sono di natura speciale e vanno aggravandosi (come nel caso della Roma antica), c’è da concludere che, magari con un percorso a denti di sega,  porteranno ad un crollo finale.
Della natura umana fanno indubbiamente parte l’egoismo, la follia e la stupidità. In ambito pubblico ci saranno sempre la demagogia, la tentazione di appropriarsi del denaro dello Stato (pessimo sorvegliante dei suoi beni) e la tendenza a rinviare le soluzioni dolorose. Nel caso del popolo italiano, bisogna aggiungere a queste caratteristiche una sorta di insensibilità all’economia, la mancanza di senso civico e la pulsione irresistibile a dividersi su qualunque argomento. In questi anni abbiamo avuto un’interminabile discussione sulla legge elettorale perché da un lato si vorrebbe la perfetta rappresentatività, dall’altro la perfetta governabilità. Cosa impossibile. Se il Parlamento italiano fosse veramente rappresentativo della volontà dei cittadini, dovrebbe avere una sessantina di partiti. Quanto alla governabilità, dal momento che essa si ottiene a scapito della rappresentatività, in tanto la si potrebbe ottenere, in quanto i perdenti si rassegnassero al gioco democratico. E da noi non c’è da contarci.
Nel caso attuale il problema è: la nostra situazione economica fa parte integrante dell’Italia eterna o ci stiamo avvicinando alla deflagrazione? Matteo Renzi, per come parla (e parla tantissimo), sembra credere che si tratti solo di amministrare il Paese con più coraggio di prima. E se avesse ragione, ci sarebbe da esserne felici: avremmo scoperto contemporaneamente di avere avuto il cancro e di essere riusciti a debellarlo con una risoluta chemioterapia.
Se viceversa Odoacre fosse a meno di cento chilometri da Roma, si potrebbe non badare a tutto ciò che raccontano giornali e televisioni. Sarebbe questione di tempo, ma ciò che è fatale avverrà. Per dirne una, ai sensi del fiscal compact, presto l’Italia dovrà cominciare a “rientrare” dal debito pubblico, fino ad arrivare in vent’anni al 60% del pil. Intanto, con i governi recenti, incluso quello del "virtuoso" Mario Monti, il nostro debito non è diminuito ed anzi ha continuato ad aumentare: ma parliamo dei doveri cui ci siamo impegnati per il futuro.
Attualmente il nostro debito pubblico viaggia verso i 2.100 miliardi. Ciò corrisponde all’ingrosso al 130% del pil. Se ne deduce che dovremmo rimborsare il 70% del nostro debito (130-70=60) e Il 70% di 2.100 è 1.470 miliardi. Somma che, diviso venti, fa 73 miliardi l’anno. Ma gli italiani non sono quelli che hanno perso la guerra dell’Imu, che pure corrispondeva a miseri quattro miliardi?
Anche ammettendo che la cifra di 70 miliardi sia sbagliata, e che quella giusta sia di cinquanta miliardi, come dicono, i governanti italiani dove andranno a prenderli, cinquanta miliardi oltre i 60-90 che si pagano per gli interessi? Nelle nostre tasche sicuramente no. Semplicemente perché non li abbiamo. E allora?
L’agiografia rende pessimisti. I santi hanno operato molti miracoli ma ne mancano certamente due: la ricrescita di un arto amputato e il risanamento dei conti pubblici.
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Il giusto compenso dell'Ing Moretti

Ci sono aggettivi, come “giusto”, che sembrano evidenti e che invece si guastano se si scende sul concreto. Il colpevole deve essere condannato, ma qual è la pena giusta? A partire da questo momento è difficile trovare l’unanimità fra magistrati, accusa e difesa. Il metro, per sua natura opinabile, lo è particolarmente quando si tratta di un compenso. Chi fornisce la prestazione tende a misurare il compenso sulla fatica che gli è costata, chi la prestazione deve pagarla, la misura sulla base dell’utilità che ne ha ricavato.
Dall’inizio della rivoluzione industriale le discussioni più appassionate sono quelle riguardanti “il giusto compenso” per i lavoratori dipendenti. In questo campo si intersecano parecchi parametri: quello morale, sul quale gli interessati non si metteranno mai d’accordo; quello politico, dove si fanno scorpacciate di demagogia, sempre a spese dei terzi; e infine quello economico: in definitiva, l’unico che conta. Qui infatti, come per tutti i contratti, il compenso dipende in fin dei conti, dall’incontro della domanda con l’offerta: “Se mi dài troppo poco non vengo a lavorare per te”, “Se chiedi troppo non ti assumo”.
Ci sono però persone i cui compensi sorprendono e scandalizzano la gente. Un vecchio aneddoto racconta che una volta un re si lamentò dell’eccessivo onorario richiesto da un cantante, osservando: “Non pago tanto nemmeno i miei generali”. E quello gli rispose: “Maestà, faccia cantare i suoi generali”. E infatti Pavarotti poteva chiedere per una serata compensi inimmaginabili per chi vive di stipendio.
Ma non sono privilegiati solo i grandi artisti. La gente e i giornali si scandalizzano quando fanno la proporzione fra ciò che guadagna un operaio – per esempio della Fiat – e ciò che guadagna il numero uno dell’impresa, per esempio Marchionne. La differenza - dicono - è immorale. E dimenticano che la legge della domanda e dell’offerta è valida anche ai livelli più alti. Se Pavarotti chiedeva troppo, il teatro lirico poteva sempre rivolgersi a Placido Domingo. E se la Scala offriva troppo poco, Pavarotti poteva sempre rivolgersi al Metropolitan di New York.
Ciò ci conduce all’attualità. L’ing.Mauro Moretti, Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato, avendo sentito parlare di riduzione dello stipendio (il suo è di 850.000 € l’anno) ha detto che, nel caso, egli lascerà il suo incarico. E tutti gli hanno dato addosso: alcuni, benevoli, hanno parlato di un’inammissibile gaffe, altri, dopo aver ricordato quanto essi stessi guadagnano al mese, hanno dichiarato che quel signore meriterebbe più o meno di essere fustigato sulla pubblica piazza. Ma la risposta giusta la dà la realtà. Se questo signore, lasciate le Ferrovie, non trovasse lavoro, o lo trovasse con un compenso minore, si rivelerebbe uno sciocco e uno sbruffone. Se al contrario trovasse presto un altro incarico, per giunta con un compenso ancora maggiore, sarebbe chiaro che la sua paga attuale è appena sufficiente. Dunque avrebbe avuto perfettamente ragione a dichiarare ciò che ha dichiarato: quel compenso “lo vale” largamente.
Il punto è che qualunque operaio, ed anche qualunque ingegnere delle ferrovie, sono perfettamente fungibili. E infatti, cambiando lavoro, non è detto che guadagnerebbero di più. Mentre il grande amministratore somiglia, in questo campo, al grande artista. Opera su una tale scala che, se riesce a migliorare i bilanci della ditta di una piccola percentuale, ne migliora i conti per un notevole multiplo del suo compenso. Ciò valse, ad esempio, per Lee Yacocca, ed oggi per Marchionne. Anche se poi ci sono i pagatissimi executive della Lehman Brothers che non ne hanno evitato il fallimento. Comunque i discorsi moralistici sui compensi altrui sono inutili. Se si trova che Pavarotti è troppo pagato, si vada a cantare al suo posto.
Il discorso puramente tecnico va precisato ed in parte contraddetto quando si tratta di imprese di Stato. Qui un grande amministratore può essere prezioso a condizione che gli si lasci la libertà di guidare l’impresa con criteri economici. Se invece all’occasione gli si vieta di ridimensionare la forza lavoro, oppure di licenziare chi sabota la produzione, i grandi compensi sono sprecati e i suoi eventuali cattivi risultati sono giustificati. Infatti è come se, per pilotare un’automobile di Formula 1, si assumesse un asso e poi gli si vietasse di schiacciare l’acceleratore.
Di perdere soldi siamo capaci tutti. Se l’erario è risoluto a tenersi un’impresa antieconomica, tanto vale che la lasci dirigere a una qualunque mezza calzetta. Purtroppo poi non va così: perché, quando si tratta di imprese pubbliche, c’è sempre il sospetto che l’assunzione di un collaboratore costoso non corrisponda tanto alla volontà di avere un’ottima amministrazione, quanto a quella di procurare ad un amico una retribuzione da sogno. 
In questo caso, come è evidente, oltre che fuori dalla morale, siamo fuori dall’economia.
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Chi frena le riforme di Renzi


Galli Della Loggia riguardo a Matteo Renzi osserva che il consenso non è così universale e indiscusso come sembra. È massimamente a suo favore la folla indifferenziata dei cittadini che poco si intendono di politica, in particolare di coloro che desiderano un qualunque cambiamento perché, tanto, peggio non potrebbe andare. E sono a suo favore anche i giornali, un po’ per patriottismo, un po’ per non andare contro l’opinione dei lettori. Viceversa riguardo al giovane Primo Ministro sono perplessi e scettici soprattutto coloro che hanno qualche competenza politico-economica.
Renzi si esprime come se potesse decidere tutto e in fretta, mentre in realtà non può decidere niente; e in fretta, in Italia, si aumenta soltanto il prezzo della benzina.
Naturalmente i più preoccupati sono i membri dell’establishment. Ma questi personaggi, interessati allo statu quo, si trovano in tutte le fazioni. E infatti l’editorialista sostiene che, riguardo all’attuale Primo Ministro, il consenso e il dissenso non si situano su opposte rive politiche – destra/sinistra, per intenderci – ma su diversi piani sociali.
In tutto ciò c’è molta verità. Ma non tutta. Si può infatti essere in disaccordo con Galli Della Loggia quando, parlando di establishment, sembra accennare alle persone importanti: ai grandi dirigenti d’azienda, ai ricchi e ai titolari di alte cariche. In realtà, il blocco sociale che si oppone al cambiamento comprende i molti che dell’attuale modello sociale e statale beneficiano anche al livello più basso. Ecco perché da un lato la resistenza ai cambiamenti è efficace, dall’altro essa opera con i governi di qualunque colore.
E c’è una considerazione che fa andare oltre. Non solo frenano coloro che dallo stato attuale ricavano dei vantaggi, frenano anche coloro che non ne ricavano nulla e non contano niente. È un paradosso che va spiegato.
Se ad un comunista si fa osservare che dovunque si sia tentato di applicare il suo credo i cittadini hanno ottenuto soltanto di essere miserabili e schiavi, spesso si ottiene che neghi la realtà e si arrampichi sugli specchi. Se invece è “intelligente”, riconosce i fatti ma ne ricava una conclusione sorprendente: il comunismo ha prodotto guasti, dirà, non perché fosse sbagliato ma perché non è stato applicato integralmente. Dovunque si è tentato l’esperimento il popolo è stato infelice non perché ci fosse il comunismo, ma perché non ce n’era abbastanza. Insomma: vediamo un ubriaco sporco e lacero, riverso su un marciapiede, e qualcuno ci dice che si è ridotto così perché non ha bevuto abbastanza vino.
Lo stesso avviene in Italia. La maggioranza dei nostri mali deriva da uno Stato spendaccione, avido ed inefficiente. Il rimedio naturalmente sarebbe che esso rinunci ai mille compiti che si è dato, compiti che assolve male e a costi  altissimi, e si occupi, ma bene, dell’essenziale. Ipotesi assurda. Se si ipotizza una cosa del genere non protesta soltanto l’alto establishment, protestano anche i più poveri fra i poveri. Costoro non vogliono che lo Stato spenda meno, vogliono che spenda anche per loro, regalandogli sussidi e provvidenze. E intanto attribuiscono la loro condizione all’avidità dei ricchi. Non meno, ma più comunismo.
La grande illusione è che lo Stato fornisca tutto gratis. Se dunque Renzi proverà a toccare la sanità, le province, i bidelli, i forestali, tutte le nicchie in cui tanti trovano uno stipendio, un sussidio o una sinecura, si scontrerà non con le persone importanti, ma con l’universo mondo. Infatti tutti sperano che egli “colpisca qualcun altro”.
Non sono i governi, non sono i politici, non sono i tycoon i massimi conservatori: sono i poveri. E infatti votano per i partiti più conservatori, quelli di sinistra
Oggi Renzi fruisce dei vantaggi della demagogia e del fatto che rimane sul vago. Finché non entrerà nei particolari – dove si annida il diavolo – l’applauso è assicurato. Si pensi alla reazione di quei dipendenti il cui posto di lavoro salta sicché essi rischiano, se non il licenziamento, almeno il trasferimento
E allora, come riformare la Pubblica Amministrazione? Il principio si scrive in inglese, not in my backyard, ma si legge in italiano: toccate chiunque ma non me. 
E lo dicono in sessanta milioni.

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mercoledì 5 marzo 2014

La "Grande Bellezza" sarebbe riconoscere l'Oscar di Silvio Berlusconi

Il film di Sorrentino ha vinto la statuetta. Tutti lo esaltano ma nessuno dice grazie a chi l'ha prodotto e distribuito


Alessandro Sallusti - Mar, 04/03/2014 

Per Renzi, l'Oscar alla Grande Bellezza è la prova che «non dobbiamo aver paura ad allargare le nostre ambizioni». Per Franceschini, ministro della Cultura, che «se l'Italia crede in se stessa, ha fiducia e investe nei propri mezzi può vincere».
Vendola ringrazia «tutti coloro che hanno reso possibile questa magnifica opera», la Boldrini afferma che «il cinema è risorsa fondamentale per la cultura».
Napolitano parla di «una grande vittoria per l'Italia», e la ministra europea alla Cultura Vassiliou esclama: «Fantastica Italia».
L'Italia della sinistra postcomunista e quella renziana (al momento teniamo una separazione in attesa di giudizio) si intestano il merito dell'Oscar di Sorrentino. Loro sì che sanno come si fa a far trionfare il made in Italy. Ma tacciono colpevolmente due cose. La prima. Il film è la presa per i fondelli del loro mondo, vuoto e ipocrita. La seconda è ancora più ridicola. Perché chi ha permesso a Sorrentino di salire sul palco, quello che - per citare i signori di cui sopra - non ha avuto paura di allargare le sue ambizioni, di investire propri soldi, quello che va ringraziato, quello che ha capito che il cinema è una risorsa e che ha contribuito a fare vincere l'Italia ha un nome e un cognome volutamente assenti dai loro commenti.
Si chiama Silvio Berlusconi, fondatore e azionista di maggioranza del gruppo Mediaset, la cui controllata Medusa ha creduto nel progetto di Sorrentino, prodotto (insieme a piccoli partner) e distribuito la pellicola.
Scusate Renzi, Franceschini, Vendola, Boldrini, Napolitano e soci: dire un grazie alla più importante e prestigiosa azienda culturale privata del Paese, Mediaset, è chiedere troppo? La risposta è scontata: troppo. Perché ammettere che Berlusconi, la sua famiglia e i suoi manager (Carlo Rossella e Giampaolo Letta a Medusa) sono il volano del migliore sapere italiano vuole dire sconfessare vent'anni di linciaggio mediatico. Significa rinnegare i fischi di giornalisti e cinefili di sinistra che alla mostra di Venezia accompagnano la vista del logo Medusa in testa di pellicola (anche per questo alla scorsa edizione del festival Medusa non presentò alcun film in concorso).
Ci sono voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è quell'associazione a delinquere immaginata dai magistrati italiani.
Oggi siamo orgogliosi di Sorrentino, ma anche di Mediaset e di quel folle di Berlusconi che continua a investire in un Paese così. E adesso, cari compagni, continuate pure a fischiare Medusa e a spiegarci che cosa è cultura e come si fa: siete come le patetiche caricature della Grande bellezza. Poca cosa.


sabato 1 marzo 2014

Governo sul filo e senza rete

L'Opinione - Pare che i 60 miliardi promessi da Matteo Renzi alle imprese con crediti verso lo Stato siano un terzo. E questo terzo sia formato in gran parte dai miliardi già versati alle imprese nel quadro delle misure varate a suo tempo dal Governo Letta.

Pare poi che i famosi tagli alla spesa pubblica previsti dal commissario Carlo Cottarelli non riusciranno a coprire il fabbisogno necessario a finanziare i dieci miliardi previsti per la riduzione del cuneo fiscale. E pare, infine, che passata l’euforia per le miracolistiche promesse pronunciate in Parlamento e in tivù dal nuovo Presidente del Consiglio, i conti incomincino a non tornare ed a far sospettare che non siamo alla vigilia di alcuna resurrezione economica.

L’edificio governativo, in sostanza, non è ancora stato ultimato ma già è oggetto di sinistri scricchiolii. Che non provengono solo dalla parte economica e finanziaria, ma anche e soprattutto dalla parte politica che dovrebbe essere il suo più solido fondamento. Non è un caso che il ritorno di Pierluigi Bersani alla Camera, con annesso abbraccio volutamente significativo all’asfaltato Enrico Letta, sia coinciso con il ritorno in campo di Massimo D’Alema, fino a ieri ufficialmente interessato solo alle grandi questioni europee e da ieri di nuovo intrigato dalle vicende interne del Pd.
E non è affatto un caso che mentre Pippo Civati ha confermato di lavorare alla preparazione di un gruppo autonomo chiamato Nuovo Centrosinistra, l’ex segretario del partito Guglielmo Epifani abbia avvertito l’esigenza di manifestare in un’intervista al Corriere della Sera tutte le perplessità sue e della maggioranza dei parlamentari del Pd per la nuova fase politica segnata dall’ascesa a Palazzo Chigi di Matteo Renzi. Nessuno pensava che la tradizionale luna di miele del Governo potesse durare troppo a lungo. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che già all’indomani del voto di fiducia la spinta propulsiva del nuovo Governo venisse frenata dalle barriere provenienti dal partito del Premier.
L’aria che tira non è delle migliori per Renzi. Che da adesso in poi deve vedersela non tanto con le resistenze dei partners della coalizione, con l’opposizione oltranzista dei grillini e quella “costruttiva” di Forza Italia, ma con le oggettive difficoltà di una situazione economica che non consentono miracoli di sorta e con l’azione di logoramento avviata dai suoi irriducibili avversari interni del Partito Democratico.
In queste condizioni appare irresponsabile e ridicola la battaglia che i “cespugli” centristi ed i malpancisti del Pd stanno facendo contro l’approvazione della legge elettorale. Il Governo può cadere da un momento all'altro lasciando come unica alternativa la necessità di andare ad elezioni anticipate. Ma non solo la nuova legge elettorale non viene approvata, ma si cerca di rinviarla il più lontano possibile legandola alla approvazione della riforma costituzionale per l’abolizione del Senato. E non per un qualche superiore interesse del Paese, ma per l’evidente interesse degli attuali parlamentari entrati alla Camera ed al Senato con il “Porcellum” di continuare a mantenere la propria poltrona ed il proprio stipendio il più a lungo possibile.
Certo, in caso di estrema necessità si potrebbe sempre andare a votare con la legge elettorale realizzata in maniera dissennata dalla Corte Costituzionale. Ma perché non mettere una rete un po’ più solida sotto un Governo che cammina sul filo e può facilmente precipitare a terrà?

venerdì 28 febbraio 2014

Se Renzi flirta piu' con Berlusconi che con il PD una ragione c'e'


Un corteggiamento che corre sul filo del telefono, tra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli, tra il Castello di Arcore e la casa di Pontassieve. Un amorevole pissi pissi, e un solido orizzonte comune: le elezioni anticipate, anche se – shhh – non si può dire. Ed è una corrispondenza perfetta, perché da parte del Cavaliere prevede anche il graffio e l’attacco del Giornale di riferimento, talmente innamorato da costringersi, ancheggiando un po’, a tenere il muso al governo. Così Denis Verdini già si divide in due, gioca tutte le partite, rassicura il Sovrano di Arcore, gli dice che l’accordo sul nuovo sistema di voto non è in discussione (“Matteo rispetterà i patti”). Ma nel suo gioco spettacolare Verdini tiene insieme anche la partita delle nomine, invade il campo che fu del solo Gianni Letta, e dunque discute con l’ambasciatore renziano Marco Carrai, tratta, tesse, baratta: la legge elettorale, sì, ma anche i posti di comando nelle società che fanno capo al Tesoro. Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Terna… Tutto si tiene.
Adesso il Cavaliere sorride seducente: “Ho sempre predicato che bisogna farsi amare dai propri avversari”. Poi, ammiccando verso il compiaciuto Verdini: “In fondo Matteo è il mio carissimo competitor”. E Renzi stesso non saprebbe dire quanto Berlusconi gli si è rivelato. La pantomima raggiunge nel Cavaliere una grazia acrobatica, nel suo fascino c’è anche una sfacciataggine o una sapienza di istrione. Renzi lo sa, e dunque un po’ diffida (ricambiato). Ma certo è che il giovane presidente del Consiglio ha anche l’impressione di avere più amici nell’opposizione, dove persino Daniela Santanchè fatica molto a occultare il suo sguardo innamorato, che nella maggioranza dove siede Pier Luigi Bersani. 

“Se ce la fa, bene. Sennò bene lo stesso”
Dipende dalla legge elettorale, in definitiva dipende da Matteo. Così, l’altro giorno, il Cavaliere è rimasto incuriosito dal libro che Renzi ha portato alla Camera: “L’arte di correre”, di Haruki Murakami. Raccontano che a casa Berlusconi sorrideva silenzioso, una sfinge, socchiudendo gli occhi come fessure orientali. E una battuta, più seria che faceta: “Corri, Matteo, corri”. Il Sultano di Arcore non è oberato da complicazioni esistenziali, si tortura per i guai con la giustizia, ma appare ancora padrone nel suo godereccio disordine. E ancora riempie lo schermo della politica con la sua vasta, gaia, cinica presenza. Così, con le sue troppe telefonate, e attraverso le mascoline pacche di Verdini, è Berlusconi che ha stretto con Renzi il vero patto di legislatura.

L'uomo della demolizione

Matteo Renzi è un uomo ambizioso. Straordinariamente ambizioso. Ed è anche molto intelligente quantunque in questi giorni i suoi avversari, la maggior parte dei quali risiede nel suo stesso partito, cerchi di accreditare l’immagine di uno spaccone, un ballista, inesperto e avventurista, un venditore di sogni o pentolame con ciò replicando l’errore fatto con Berlusconi cui non a caso si attribuivano analoghi appellativi e le cui fortune politiche erano semplicisticamente spiegate con il controllo delle televisioni.
Favorirono sottovalutandolo  così una carriera politica tra le più lunghe e brillanti della storia Repubblicana che, per quanto inevitabilmente in fase discendente, è ancora lontana dalla sua conclusione.
Renzi vola alto e le sue mire vanno oltre quella di restare per qualche mese o anno a Palazzo Chigi. Vuole passare alla storia come colui che è riuscito a cambiare l’Italia.
La diagnosi dei mali del paese è facile come semplice è individuarne l’eziologia, per quanto in questi anni sia stata attuata una gigantesca azione di depistaggio.
La vera “casta” non è, infatti, quella dei “politici” ma di quei fasci conservatori che si sono insediati nei posti nevralgici del paese, ne succhiano la linfa e, soprattutto, si battono contro ogni tentativo, ancorché timido e parziale, di cambiamento.
Intendiamoci, non voglio con ciò assolvere la classe politica dalle sue responsabilità ché non hanno saputo opporsi a questo disegno per inettitudine, paura, compromesso o complicità ed hanno preferito il comodo ruolo di ancelle di quei poteri, di quelle forze reazionarie che non sono mai passate attraverso il vaglio del voto popolare, ma quello di un concorso, di una carriera più o meno automatica, di escalation per amicizie, frequentazioni, relazioni o connivenze e che hanno saputo tessere rapporti di reciproco interesse con il mondo finanziario, imprenditoriale, sindacale e persino culturale.
Se non si smantella questo sistema non vi è alcuna speranza di cambiamento.
Renzi lo sa bene e ne era cosciente anche Silvio Berlusconi che per anni, nell’indifferenza generale, denunciava come l’esecutivo fosse sostanzialmente inerme di fronte ad un sistema ed incrostazioni di potere che avevano la forza di vanificare ogni legge o provvedimento che non gli garbasse.
Se Renzi dice le stesse cose che il Cavaliere sostiene da lustri, perché il giovane Premier dovrebbe riuscire dove l’anziano Leader del centrodestra ha clamorosamente fallito? Berlusconi aveva molto da perdere: le sue aziende e probabilmente qualche scheletro nascosto.
Così quando gli si è scatenata  l'opposizione il Cavaliere ne è rimasto fiaccato e intimorito. Ha cercato, alla fine, di sopravvivere scoprendosi impotente, tradito dai suoi stessi alleati.
Renzi non aveva niente da perdere, se non una modesta carica di Sindaco, non ha verosimilmente alcunché da celare. Con il discorso di insediamento si è tagliato i ponti alle spalle. Quando, infatti, ha indicato un timing stringente per i provvedimenti che il suo governo intende prendere ha assunto un impegno che non potrà non onorare pena la perdita di ogni credibilità.
Un altro buon motivo per cui dovrebbe riuscire laddove il Cavaliere ha deluso sta nel fatto che mentre quest’ultimo aveva in Parlamento e nel paese un’opposizione feroce ed agguerrita, l’attuale Premier ha un patto con il Leader del centrodestra, nemmeno tanto segreto, i cui termini possiamo intuire nelle grandi linee.
La vera arma del neo Premier è tuttavia la sua leadership.
Nel suo discorso di insediamento al Senato Renzi è sembrato rivolgersi più al paese che ai Senatori stessi verso i quali ha avuto, a tratti, espressioni al limite dell’insolenza. Era un modo per far capire che non si aspetta niente dai membri di Palazzo Madama, non ha bisogno di loro perché la sua vera forza la troverà nel voto popolare che si terrà molto prima di quanto molti osservatori politici si aspettano.
E qui che la sua strategia si salda con quella di Berlusconi. Andare al voto in modo che Renzi possa ottenere quell’investitura popolare che ora gli manca e che gli consentirà di mettere il turbo alle riforme.