Powered By Blogger

martedì 22 aprile 2014

"La Repubblica" alla base di tante sciagure italiane

La selezione fu oculata assai. Tutte e tutti avevano accesso a fonti di informazioni alternative o ben integrative alle notizie controllate o dalla Democrazia Cristiana o dal Partito Comunista Italiano, suo eterno acerrimo avversario politico ma circospetto consociato nella gestione del potere.
Alcuni redattori provenivano dal quotidiano romano del pomeriggio “Paese Sera”, medesima sede centrale de “l’Unità”, medesima matrice comunista, possibile intercambiabilità di uomini e articoli, ma più attenta, come testata, a talune scapigliature della borghesia romana. Per scrivere per l’Unità bisognava essere membri del Pci, per “Paese Sera” non necessariamente.
Nella redazione del nascendo giornale, le api regine e i calabroni, di cui tra un momento, ronzavano in mezzo allo sciame di frequentatori diurni dei gruppi parlamentari e dei portaborse di politici di spicco, nonché dei loro padroni, e dei dirigenti dei ministeri, nonché dei ministri stessi ronzavano.
Ma il nocciolo duro, quello che avrebbe fatto la differenza rispetto ad altri organi d’informazione – ai tempi quasi tutti ingessati dai due partiti dominanti che nominavano in Rai e in Ansa i loro pupilli – era costituito da giovani e meno giovani donne e uomini direttamente imparentati o in intimi rapporti con esponenti dei centri di potere dominanti o dei salotti bene della capitale: figlie o compagne, figli o amici di vertici militari, di sindacalisti di massimo livello, di gruppi industriali dell’auto e dell’acciaio e del petrolio, di commissari a Bruxelles dell’allora Cee, la Comunità Economica Europea, di partecipate statali come le aziende dell’Iri, dell’Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità, ICIPU, di analoghi possenti erogatori di mezzi finanziari per iniziative sostenute con il beneplacito dei politici.
Cofondatore con Scalfari fu, non a caso, Carlo Caracciolo, imprenditore editore legato con vincoli culturali e di sangue, alle famiglie Agnelli e Falck, tanto per nominarne due.
Faccio un’eccezione alla mia regola di non parlare di io, spesso il buco nero della personalità di tanti giornalisti. Dirò quindi che, corrispondente dell’Ansa a Bruxelles, ebbi, nelle settimane della messa a punto del giornale, alla fine del 1975, contatti gradevoli, per quanto fugaci, con Mario Pirani Cohen (era amico di Barbara Spinelli, allora mia collega nei quotidiani briefing in sala stampa a Bruxelles) e, pochi giorni dopo, con Scalfari stesso, a Roma. Lui stesso mi spiegò che se un intellettuale era quasi costretto a comprare ogni giorno il “Corriere” e “l’Unità”, con “La Repubblica” non sarebbe stato più necessario.
Il clima era euforico.
L’iniziativa editoriale piaceva poco invece a un’altra collega, Vera Vegetti, funzionaria del Pci e brillante corrispondente da Bruxelles del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: mi espresse l’opinione che “La Repubblica” nascesse in funzione anti-Pci. Era comprensibile il suo punto di vista. Avvezza a una struttura verticistica del suo partito, che aveva già subito la scissione del “Manifesto”, un’altra iniziativa sedicente di sinistra non poteva piacerle.
Era, nell’insieme, una redazione con canali privilegiati con i potenti i quali, come spesso avviene tra loro, si divertivano a fare le gole profonde o per sfizio o per danneggiare qualche diretto avversario nella struttura in cui operavano o in una struttura concorrente.
Gli effetti dirompenti si fecero notare subito. “La Repubblica”, quotidiano giovane, fu ben presto anche molto fresco: le notizie erano di giornata! Tutti i suoi cronisti erano spinti da una nevrotica esigenza di distinguersi, spinta fruttuosa nel giornalismo, ché nulla c’è di meglio di reporter che decidano di cantare fuori dal coro. Fare lo scoop, dare buca a un concorrente erano le parole d’ordine.
Purtroppo in tante battaglie che si svolgevano alle spalle della redazione tanti giornalisti divennero, per dirla col poeta, strumenti ciechi di occhiuta rapina. Un esempio? La copertura della Borsa di Milano fu intensa e, a tratti, avventurosa, tanto da prestare il fianco a critiche di operare senza scrupoli, a vantaggio di speculatori dal fitto pelo sullo stomaco. Le critiche non vennero mai approfondite. Girarono addirittura voci di insider trading, ma furono tutte critiche che si rivelarono maldicenze di collegi malmostosi di altre testate.
Sella linea politica del giornale i timori di Vera Vegetti si dimostrarono fondati nei primi anni, dal punto di vista dell’ortodossia Pci almeno.
Ma né lei né altri avrebbero potuto immaginare che un giornale di sinistra avrebbe avuto una linea politica del tutto dipendente da un ristretto numero di intelligenze attente più agli equilibri economici di banche e grandi industrie vicine alla proprietà del giornale che alle sottili diatribe politiche cui l’Italia era abituata. Avvezzi tutti al potere suadente della Democrazia Cristiana e alla granitica struttura del Partito Comunista Italiano, nessuno poteva supporre che un gruppo di giornalisti, ben finanziato, potesse sparigliare il sistema d’informazione nazionale e usare termini crudi per favorire gli interessi non di una parte o dell’altra dello schieramento nazionale bensì i poteri forti che rappresentava e di cui proprietà e redazione erano antenne e tentacoli. Una lobby trasversale a sé stante, insomma, dicevano i soliti invidiosi degli altri quotidiani che vedevano erodersi diffusione e proventi pubblicitari.
Tuttavia non poteva non notarsi che, agli albori dell’Eurocomunismo di Enrico Berlinguer – poi dissoltosi nella vaghezza del nulla –, l’operazione “La Repubblica” ambiva a sostituire al potere della sinistra ortodossa genere Cominform una nascente sinistra dei poteri altri. Poteri forti? Chissà.
Quando nella seconda metà degli anni Ottanta Carlo De Benedetti, industriale e finanziare, entrò nella compagine azionaria del gruppo Espresso-La Repubblica la sua solidità finanziaria si accrebbe.
Tralascio le campagne politiche – e non giornalistiche – tra la sua nascita e il 1994, ché non furono esse che qui intendo rievocare per fare riflettere sulle strane vicende della testata.
Devo dire però, oggi che guardo a quegli eventi con gli occhi dalle sopracciglia bianche, che fu percorso spesso legato a sostenere uomini strani più legati a poteri locali di stampo affaristico che non a correnti di pensiero riformatore.
E devo rammentare le simpatie di “La Repubblica” per Ciriaco De Mita allora – e ancora oggi, trentacinque anni dopo essere stato presidente del consiglio –, uomo di potenza ad Avellino, insieme con i suoi eredi. Fu il politico che collocò Romano Prodi ai vertici dell’Iri che ben presente e attivo era nel Sud. De Mita fu Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. Di certo il suo criptico linguaggio doveva e deve dire qualcosa di rilevante e più che comprensibile per gli interessi del Gruppo editoriale che ruotava intorno a Eugenio Scalfari e alla sua equipe giornalistica.
Durante le apparizioni del politico Irpino della sinistra democristiana a Bruxelles, il suo Italiano – alla faccia della presentabilità in Europa – faceva ridere, rammento, i colleghi inglesi e tedeschi, che conoscendo un po’ di Italiano, si prendevano la briga di assistere alle sue conferenze stampa in chiusura dei Consigli europei della fine degli anni Settanta.
I cronisti della “Reuter” o della “Die Welt” mi chiedevano, divertiti, cosa mai avesse detto il Presidente del Consiglio italiano. Ricordo che dovevo ammettere che non avevo capito bene neanche io – cosa per loro giocosa, ma per me tragica poiché dovevo decifrare le sue oscure espressioni e scrivere un pezzo.
Devo anche rievocare la comprensibile avversione per Bettino Craxi che si oppose, con Silvio Berlusconi, alla svendita a De Benedetti della Sme, la finanziaria Iri dell’alimentazione. L’Iri era allora guidata proprio da Romano Prodi. (Tra parentesi: fallito l’affare De Mita-Prodi-De Benedetti la Sme venne poi venduta alla Nestlè a un prezzo ben più alto – un’operazione di dubbio vantaggio per l’Italia come altre vendite di gioielli di famiglia dell’Iri, ma fecero vantare il professore di Bologna di avere risanato i fallimentari bilanci della holding di Stato).
Non si può poi non ricollegare il comportamento degli ultimi vent’anni alla matrice di lobby trasversale originaria del quotidiano fondato da Scalfari e Caracciolo e rafforzato da De Benedetti e amato da Prodi. Ad ascoltare i frequenti interventi in televisione di tanti boiardi di Stato passati da banche a gestioni di società pubbliche e viceversa in un vado e torno e torno e vado che non sarebbe stato possibile in alcun altro paese occidentale, i toni cari a “La Repubblica” sono tenuti da loro nella massima considerazione. Così anche da parte di taluni magistrati impegnati in politica come sindaci o parlamentari o consiglieri regionali.
Il loro travolgente antiberlusconianismo – che lunga parola – senza se e senza e che prescinde da funzioni istituzionali o schieramenti intellettuali di appartenenza non può non fare pensare che rifletta appieno la vocazione de “La Repubblica” di perseguire una propria politica indipendentemente dagli schieramenti partitici, come è nella sua natura, fin dalla nascita appunto.
Il fatto grave è che il quotidiano romano – e chi ne propala le visoni – non ha mai approfondito i punti di divergenza con la politica economica dei governi Berlusconi. Né ha mai fornito proprie posizioni alternative che potessero catturare l’attenzione dell’opinione pubblica sui temi vitali nella vita dell’Italia.
Esso – e loro – si sono dedicati con tenacia a tre direttive d’azione.
La prima è stata quella di ricorrere a slogan di facile appiglio per gli insoddisfatti tra la gente e per gli incerti tra i politici (si è visto quanto essi siano sensibili alle critiche negli ultimi mesi mentre twitter imperava) e di battere sull’immoralità sessuale di Berlusconi e di chiunque avesse a che fare con lui. È un terreno mai percorso – giustamente – quando personaggi di spicco dell’economia e della politica si erano abbandonati comportamenti ben più disinvolti del Cavaliere.
La seconda è stata quella di aprire inchieste su malversazioni di politici di Forza Italia e del Pdl non avendo mai fatto analoghi sforzi per esponenti politici di drine, camorre e mafie che ancora oggi sono impuniti per passate azioni e per continuare a essere in combutta con la malavita. Qui siamo alla sponda giustizialista di una magistratura che sembra esercitare l’obbligatorietà dell’azione penale a proprio piacimento.
La terza è stata l’appropriarsi gradualmente della base del Pd, soprattutto quella più giovanile e immatura e quella radicale per temi sindacali e sociali.
È vero: stanno emergendo ora conferme sulle battaglie contro Berlusconi scatenate dai poteri forti che cui lui stesso alludeva fin dai primi anni della sua scesa in campo.
Ma c’è di più ed è qui che alla legittima lotta contro l’avversario politico si sovrappone – o si coglie nello sfondo – qualcosa di più grave, cioè il fatto che il partito degli interessi vicino a “La Repubblica” sia riuscito a delegittimare persino chi contro Berlusconi si batteva in chiave meramente culturale e sanamente politica, il Pd.
La sovrapposizione si è appalesata quando, nonostante la tragica situazione sociale del Paese, l’estremismo autoreferenziale de “La Repubblica” ha portato prima al vano tentativo di Pier Luigi Bersani di portare il Movimento 5 Stelle nella maggioranza di sinistra, almeno al Senato dove gli occorreva per governare senza controlli (con Prodi al Quirinale: l’anticamera di un regime che più regime non si poteva) e poi, fallito il bieco piano e tornato Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica, alla sua incapacità di mettere insieme una grande colazione Pdl-Pd che non poteva non avere capito essere necessaria.
Bersani stesso ebbe a dire – cito quasi testualmente – che non poteva fare accettare alla base del Pd un dialogo con un partito, il Pdl, creatura di un uomo – Berlusconi – che per un ventennio era stato indicato come fonte e icona di ogni male e di ogni nequizia e di ogni corruttela e vizio. Da chi? Ovvio: da “La Repubblica” ché sono decenni che tutti i politici hanno imparato che contro quello che scrive La Repubblica è pericoloso andare.
Non conosco gli sviluppi ultimissimi essendo lontano dall’Italia e privo di informazioni fresche. Ma credo che chiunque possa ancora osservare gli intralci posti al governo di larghe intese da una base umana a dire poco furiosa per il cosiddetto inciucio, cioè l’unico modo ragionevole di tentare di portare fuori il Paese dalla crisi – né soltanto economica ma anche profondamente culturale – dati i risultati elettorali e la sua struttura costituzionale.
Bersani si è rivelato – fino a dover porre fine ai propri sogni di gloria – non prigioniero del suo partito ma del partito “La Repubblica”. E dopo di lui analogo imbarazzo hanno mostrato altri esponenti del Pd. Altro che twitter pentastellati! A turbarli c’erano i commenti del giornale antiberlusconiano per eccellenza!
Mentre non c’era più quel partito che, quando si chiamava comunista, era abituato a ogni salto mortale imposto – oplà – dal Comitato Centrale, fin dai tempi del Fascismo e del Comintern, dell’Hotel Lux a Mosca negli anni Trenta del secolo scorso. Basti pensare alla Svolta di Salerno che portò Togliatti e Pci ad accettare persino la monarchia, la principale responsabile dell’ingresso dell’Italia nella tragicissima Seconda Guerra Mondiale.
L’ex segretario dei Ds si è palesato totalmente condizionato dalla cultura repubblichina – se con cultura si possono etichettare le tre direttive d’azione del giornale romano e con repubblichina la sua impostazione politica.
Per età e per formazione storica so della ferrea disciplina del più grande partito di sinistra di origine comunista d’Italia, d’Europa e del mondo. Se un qualunque Palmiro Togliatti aveva saputo perdonare gli efferati delitti commesso dal Fascismo e da taluni Fascisti scopertisi dopo il 1943 ferventi compagni e fare accettare il perdono – se non altro a livello di Comitato Centrale del Pci di allora (vi si entrava soltanto per cooptazione!) –, figurarsi se il povero Pier Luigi Bersani non avrebbe potuto convincere i membri di una Direzione democraticamente – si fa per dire – eletta, che era nell’interesse del Paese trovare un qualche accordo non dico con il Berlusca, ma con un partito che propugnava cambiamenti – parola cara, “cambiamenti”, al Non-Pettinatore-Di-Bambole – simili a quelli del Pd.
Nossignori. Non ha potuto ché nella famosa base del Pd c’era una sola password: odiare Berlusconi, cioè la parola d’ordine sparata per vent’anni in vena da “La Repubblica” in milioni di Italiani di bassa-media scolarità e/o di alta nevrotica invidia delle vite altrui.
“La Repubblica” è stata il miglior collante della peggiore sinistra che ieri andava e oggi va da Fausto Bertinotti a Nicola Vendola a Beppe Grillo e, oggi come ieri, a Romano Prodi e ai democristiani come lui moralisti in casa altrui (che anche lui non è mai stato un santo). Sua la responsabilità della non nascita di un partito liberaldemocratico in Italia.
Ha diseducato milioni di propri lettori e di elettori. Perché studiare la Storia, perché documentarsi, perché riflettere individualmente se cogito – e mi esprimo a pappagallo – repubblicanamente, ergo sum un intellettuale fatto e finito? – e mi si perdoni la miscela di Latinorum e Italiano.
Perché informarsi se per sentirsi giusti e appartenente a una eletta schiera basta provare l’emozione di odiare un uomo e dimostrare agli altri – in ufficio, a scuola, all’università, in fabbrica – di essere con gli altri in sintonia? Quali più semplici formulette di catechismo per essere accolti nella religione più santa?
Errato dunque è riferirsi al partito del giornale romano come a un epigono del Partito Comunista, come lo stesso Berlusconi a volte dice – e sbaglia, storicamente parlando. Il partito di “La Repubblica” non è mai stato un’appendice o un gregario del Pci o dei partiti che gli sono succeduti con i cambiamenti di nomi che tutti sanno. “La Repubblica” ha sempre avuto una sua propria politica nei quasi quarant’anni il cui ha gestito più o meno oscure manovre tra corridoi parlamentari, vertici ministeriali, segrete stanze del Quirinale e posizioni apicali nelle industrie e nelle banche italiane.
Si è servito di giovani e meno giovani addestrati ad anteporre le linee dettate dalla direzione del giornale a una qualsiasi concezione del tanto e da tanti invocato fare sistema Italia. Costoro sono stati anzi educati a un’ideologia anti-italiana che ha sputtanato il Paese in tutto il mondo con danni enormi finanziari e politici. Sono stati loro i barzellettieri che hanno fatto ghignare la Sieg-Heil!-Angela-Merker e il suo tirapiedi Sarkozy, clone dei peggiori collaborazionisti francesi nei cinque anni in cui la Francia fu asservita al Terzo Reich.
Una certa mia deformazione professionale – da psicanalista junghiano – mi induce però a chiedermi da dove sia venuta tanta energia in grado di alimentare giorno dopo giorno un odio così feroce contro un uomo, ben oltre quindi la stessa natura di lobby del giornale romano.
Credo che sia venuta da una sponda di livore di anima malata (anima in senso junghiano), quella malattia dello spirito che anziché farne strumento di esplorazione e valorizzazione delle parti più profonde e ricche della propria personalità, ne fa un moltiplicatore delle negatività dell’io frustrato.
È una malattia che affligge da sempre i più infelici umani, spesso causata non da cattiveria ma da una vita infelice e che si accanisce contro i meno fortunati.
Senza una tale fonte di potente energia dubito che gli interessi economici della lobby del giornale, seppur vasti quanto si è detto, avrebbero potuto sostenere anni e anni di quotidiani attacchi – e in così squallida forma – a un uomo e a tutti coloro che hanno lavorato con lui e che lui hanno apprezzato e alimentare il vasto mare di rancore senza il quale la corazzata di rancori non avrebbe potuto navigare.
Parlo della veemenza, e del cattivo giornalismo, fatto di spiate intorno alla vita sessuale degli avversari politici di entrambi i sessi, dell’odio per quanti non si sono fatti sedurre dal livore antiberlusconiano.
Mi pare rivelino un’animosità – appunto – che può soltanto allignare in individui poco sereni assai. Sappiamo tutti bene che “La Repubblica” aggrega persone sane e robuste e felici della propria vita di intellettuali di prim’ordine.
Ma ad alcuni strizzacervelli – i meno preparati, certo – comportamenti così lividi farebbero pensare a uomini che non accettano di invecchiare e ostentano moralismi da sacrestia dopo essere stati in verde età seduttori a gogò e stupratori, se non fisici, psichici. E a donne che, liberatesi in gioventù dalle prepotenze maschili così frequenti nella società italiana di quattro decenni fa, non vogliano concedere la medesima libertà di lotta per affrancamento alle più giovani del loro medesimo sesso, di quarant’anni più giovani, grande delitto!
Sono di questo tipo – mi chiedo spesso, ma rifiuto subito una tale ipotesi – i gentiluomini di rango elevato e le dame più intelligenti e colte del seguito del romano doge Eugenio, le dame che vivono da quarant’anni alla sua ombra e nelle sue redazioni? No di certo, mi confermo nello scartare l’ipotesi. Non è possibile! Tra loro ci sono signori e signore appartenenti ai salotti più dotti e come-si-deve della Capitale e giornalisti e giornaliste bravissime che hanno fatto con grande intelligenza il loro mestiere – per decenni e decenni.
Preferisco pensare piuttosto che nonostante l’asserita impostazione progressista della redazione di “La Repubblica”, nata aperta al nuovo rispetto alla palude democristiana di allora da cui liberò il paese – tutti gliene fummo grati –, anch’essa, come accade a tutti gli umani, sia semplicemente invecchiata – vent’anni dopo, quando Berlusconi entrò in politica. I Moschettieri e le Moschettiere non erano più le stesse. Figurarsi dopo altri vent’anni ancora!
La vecchiaia è una situazione umana meravigliosa, di questi tempi, ma porta con sé i suoi acciacchi inevitabili. A volte si fa senescenza conservatrice e rivela fastidiosi sintomi di vetero-tuttismo. Sono i sintomi di una senescenza malata di nostalgia amarissima, una fonte di livore, appunto.

La condanna di Renzi

Bisogna resistere alla tentazione di considerare passeggeri e senza importanza i fenomeni che ci sembrano volgari. Quando il destinatario è il popolo, meno raffinato di quel che si potrebbe sperare, le conseguenze possono essere tutt’altro che insignificanti. In fondo è l’errore che commisero le élite tedesche nei confronti di Adolf Hitler. Non bisogna mai dimenticare che un messaggio di speranza, sommario ma chiaro, per il popolo vale più di fondate previsioni pessimistiche. In questo campo i personaggi meritevoli di attenzione sono Silvio Berlusconi, Beppe Grillo e Matteo Renzi.
Sul primo si è detto e scritto tanto, che sarebbe una perdita di tempo farlo qui. Basterà ricordare che all’inizio del 1994, sia lui, sia il suo partito furono considerati poco più che dilettanti allo sbaraglio. E invece.
Il secondo personaggio è Grillo. Un comico ben diverso dal Cavaliere, che ha avuto un successo politico inimmaginabile e imprevedibile. Ma mentre Berlusconi aveva un progetto politico, Grillo non è portatore di alcuna ideologia o programma, né in politica né in economia. Insomma è sterilmente antisistema. Essendo prudente, non sapendo quale successo otterrebbe impegnandosi nella pratica e forse prevedendo che essa lo divorerebbe, ha sempre preferito non sottomettersi al controllo della realtà. Ma questa è una via senza sbocco. La protesta è come certe malattie, o se ne muore o se ne guarisce. E infatti il M5S rischia la delusione dell’elettorato. Potrebbe avere un bel successo alle prossime “europee” ma ciò potrebbe non significare molto, per il futuro.
Il caso più interessante è Renzi. L’uomo ha successo. Strappa l’applauso di quelli che lo ascoltano, sia perché è un grande comunicatore, sia perché ciò che dice corrisponde ai pregiudizi della gente. Tutti pensano che i parlamentari fruiscano d’infiniti privilegi e lui gli toglie da sotto il sedere le auto blu. La soddisfazione delle massaie e dei barbieri è tangibile. Mette un tetto alle retribuzioni degli alti dirigenti pubblici e dei magistrati (se ce la farà), e pure se l’effetto economico è trascurabile, e sull’intero Paese passa il vento di un sospiro di sollievo: finalmente sono colpiti anche loro. Renzi non ha realizzato niente di sostanziale ma è riuscito a dare la sensazione del coraggio nel cambiamento. L’idea dell’abolizione del Senato, e di “senatori” non pagati, ha fatto molto piacere alla gente. Soprattutto si è avuta la sensazione che Renzi non avesse paura nemmeno della Cgil, che è come dire, di un cardinale, che non ha paura del Papa.
Si narra però che durante la battaglia di Balaclava, mentre la Light Brigade si faceva macellare avanzando intrepida e impettita verso i cannoni russi (la famosa Carica dei Seicento), un generale francese abbia esclamato: “C’est très joli, mais ce n’est pas la guerre”, è molto bello non ma non è la guerra. Nello stesso modo il bagliore delle parole è un fuoco di paglia. La gente intravedrà qualcosa di sostanziale negli ottanta euro mensili che riceveranno alcuni milioni di lavoratori, e tutto ciò potrebbe portare il Pd ad avere un enorme successo alle prossime elezioni europee: ma è da quel momento che nascono la perplessità.
Renzi dovrà continuare a governare. Fino ad oggi si è comportato come un ragazzino che, avuta la sua paghetta settimanale, l’ha interamente spesa la prima sera, e ora il problema sono gli altri sei giorni. Il regalo degli ottanta euro è stato ottenuto raschiando il fondo del barile, con coperture una tantum, incerte o aleatorie. E si è trattato di coprire otto mesi soltanto. Se invece, come dicono, quegli euro dovranno rimanere in busta paga anche in seguito, dove si troverà il denaro? E che ne sarà delle altre mille promesse, riguardanti gli “incapienti”, i pensionati, le famiglie? Di riffa o di raffa esse richiedono tutte del denaro. Che non c’è. Come se non bastasse, attualmente abbiamo un miracoloso spread Btp-Bund intorno ai 160 punti base: ma se esso risalisse, come molti prevedono, aumenterebbero le somme da sborsare per interessi sul debito pubblico, e la situazione di questi giorni, con la disoccupazione stratosferica che abbiamo, potrebbe essere ricordata con rimpianto. Nulla assicura la calma di vento.
La condanna di Renzi è che sarà ancora lì dopo il 25 maggio. Dalla nomina ad oggi la sua immagine è stata sempre in salita, ma con la mancata attuazione delle promesse (non per sua cattiva volontà ma perché impossibili), come reagirà la gente? Si possono ingannare tutti per qualche tempo, non si possono ingannare tutti per sempre. Che avverrà, quando la voce della realtà sarà più forte di quella dell’ex sindaco?
Il pessimismo nei confronti di questo giovane politico non nasce soltanto dal pregiudizio intellettuale nei confronti del suo pressappochismo volontaristico: nasce da una situazione inamovibile, contro cui sarebbero tutti incapaci di vincere, da Berlusconi a Grillo, da Letta a Vendola e perfino da De Gasperi ad Einaudi, se fossero vivi.
Gianni Pardo
pardonuovo.myblog.it

lunedì 24 marzo 2014

Cosi' non puo' durare, il patratac e' alle porte...


Il guaio dell’uomo è che vive per troppo poco tempo. I fenomeni importanti richiedono molti decenni, per concludersi, e alla fine o ci stanchiamo di aspettare la soluzione o più semplicemente non ci siamo più. L’esempio migliore è la decadenza dell’Impero Romano. I più avvertiti si rendevano conto che “così non poteva durare”, e infatti l’imperatore Giuliano fece un tentativo generoso di fermare il declino. Ma molti tiravano a campare. I decenni passavano e, pur andando di male in peggio, l’Impero Romano era sempre lì. Qualcuno poteva anche pensare che dopo tutto quegli scricchiolii in fondo non fossero importanti. Finché Odoacre tirò una riga sotto quel grande fenomeno storico e morì persino la lingua latina. “Così non poteva durare” e infatti “non durò”.
Alcuni uomini ragionevoli, negli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si preoccupavano dell’immane debito pubblico che si stava accumulando, ne erano allarmati e ne parlavano con i pochi disposti ad ascoltarli. E invece gli ottimisti li guardavano scettici: parlavano di economia in espansione, di dilatazione demografica e dunque dell’allargamento della platea di contribuenti. I pessimisti passavano per dei menagramo e infatti sono morti “avendo torto”. Ma chi ha continuato a vivere fino all’epoca presente, ha potuto vedere che l’aritmetica non fa sconti a nessuno: quel debito astronomico ci ha portati al disastro ed oggi è difficile trovare osservatori ottimisti.
Nella vita bisogna innanzi tutto cercare di capire se i grandi problemi non dipendano dalla natura umana: perché in questo caso sarebbero ineliminabili e comunque non peggiorerebbero mai di molto, nel tempo. Sarebbero qualcosa con cui bisogna convivere. Se invece  le difficoltà di un momento storico sono di natura speciale e vanno aggravandosi (come nel caso della Roma antica), c’è da concludere che, magari con un percorso a denti di sega,  porteranno ad un crollo finale.
Della natura umana fanno indubbiamente parte l’egoismo, la follia e la stupidità. In ambito pubblico ci saranno sempre la demagogia, la tentazione di appropriarsi del denaro dello Stato (pessimo sorvegliante dei suoi beni) e la tendenza a rinviare le soluzioni dolorose. Nel caso del popolo italiano, bisogna aggiungere a queste caratteristiche una sorta di insensibilità all’economia, la mancanza di senso civico e la pulsione irresistibile a dividersi su qualunque argomento. In questi anni abbiamo avuto un’interminabile discussione sulla legge elettorale perché da un lato si vorrebbe la perfetta rappresentatività, dall’altro la perfetta governabilità. Cosa impossibile. Se il Parlamento italiano fosse veramente rappresentativo della volontà dei cittadini, dovrebbe avere una sessantina di partiti. Quanto alla governabilità, dal momento che essa si ottiene a scapito della rappresentatività, in tanto la si potrebbe ottenere, in quanto i perdenti si rassegnassero al gioco democratico. E da noi non c’è da contarci.
Nel caso attuale il problema è: la nostra situazione economica fa parte integrante dell’Italia eterna o ci stiamo avvicinando alla deflagrazione? Matteo Renzi, per come parla (e parla tantissimo), sembra credere che si tratti solo di amministrare il Paese con più coraggio di prima. E se avesse ragione, ci sarebbe da esserne felici: avremmo scoperto contemporaneamente di avere avuto il cancro e di essere riusciti a debellarlo con una risoluta chemioterapia.
Se viceversa Odoacre fosse a meno di cento chilometri da Roma, si potrebbe non badare a tutto ciò che raccontano giornali e televisioni. Sarebbe questione di tempo, ma ciò che è fatale avverrà. Per dirne una, ai sensi del fiscal compact, presto l’Italia dovrà cominciare a “rientrare” dal debito pubblico, fino ad arrivare in vent’anni al 60% del pil. Intanto, con i governi recenti, incluso quello del "virtuoso" Mario Monti, il nostro debito non è diminuito ed anzi ha continuato ad aumentare: ma parliamo dei doveri cui ci siamo impegnati per il futuro.
Attualmente il nostro debito pubblico viaggia verso i 2.100 miliardi. Ciò corrisponde all’ingrosso al 130% del pil. Se ne deduce che dovremmo rimborsare il 70% del nostro debito (130-70=60) e Il 70% di 2.100 è 1.470 miliardi. Somma che, diviso venti, fa 73 miliardi l’anno. Ma gli italiani non sono quelli che hanno perso la guerra dell’Imu, che pure corrispondeva a miseri quattro miliardi?
Anche ammettendo che la cifra di 70 miliardi sia sbagliata, e che quella giusta sia di cinquanta miliardi, come dicono, i governanti italiani dove andranno a prenderli, cinquanta miliardi oltre i 60-90 che si pagano per gli interessi? Nelle nostre tasche sicuramente no. Semplicemente perché non li abbiamo. E allora?
L’agiografia rende pessimisti. I santi hanno operato molti miracoli ma ne mancano certamente due: la ricrescita di un arto amputato e il risanamento dei conti pubblici.
pardonuovo.myblog.it

Il giusto compenso dell'Ing Moretti

Ci sono aggettivi, come “giusto”, che sembrano evidenti e che invece si guastano se si scende sul concreto. Il colpevole deve essere condannato, ma qual è la pena giusta? A partire da questo momento è difficile trovare l’unanimità fra magistrati, accusa e difesa. Il metro, per sua natura opinabile, lo è particolarmente quando si tratta di un compenso. Chi fornisce la prestazione tende a misurare il compenso sulla fatica che gli è costata, chi la prestazione deve pagarla, la misura sulla base dell’utilità che ne ha ricavato.
Dall’inizio della rivoluzione industriale le discussioni più appassionate sono quelle riguardanti “il giusto compenso” per i lavoratori dipendenti. In questo campo si intersecano parecchi parametri: quello morale, sul quale gli interessati non si metteranno mai d’accordo; quello politico, dove si fanno scorpacciate di demagogia, sempre a spese dei terzi; e infine quello economico: in definitiva, l’unico che conta. Qui infatti, come per tutti i contratti, il compenso dipende in fin dei conti, dall’incontro della domanda con l’offerta: “Se mi dài troppo poco non vengo a lavorare per te”, “Se chiedi troppo non ti assumo”.
Ci sono però persone i cui compensi sorprendono e scandalizzano la gente. Un vecchio aneddoto racconta che una volta un re si lamentò dell’eccessivo onorario richiesto da un cantante, osservando: “Non pago tanto nemmeno i miei generali”. E quello gli rispose: “Maestà, faccia cantare i suoi generali”. E infatti Pavarotti poteva chiedere per una serata compensi inimmaginabili per chi vive di stipendio.
Ma non sono privilegiati solo i grandi artisti. La gente e i giornali si scandalizzano quando fanno la proporzione fra ciò che guadagna un operaio – per esempio della Fiat – e ciò che guadagna il numero uno dell’impresa, per esempio Marchionne. La differenza - dicono - è immorale. E dimenticano che la legge della domanda e dell’offerta è valida anche ai livelli più alti. Se Pavarotti chiedeva troppo, il teatro lirico poteva sempre rivolgersi a Placido Domingo. E se la Scala offriva troppo poco, Pavarotti poteva sempre rivolgersi al Metropolitan di New York.
Ciò ci conduce all’attualità. L’ing.Mauro Moretti, Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato, avendo sentito parlare di riduzione dello stipendio (il suo è di 850.000 € l’anno) ha detto che, nel caso, egli lascerà il suo incarico. E tutti gli hanno dato addosso: alcuni, benevoli, hanno parlato di un’inammissibile gaffe, altri, dopo aver ricordato quanto essi stessi guadagnano al mese, hanno dichiarato che quel signore meriterebbe più o meno di essere fustigato sulla pubblica piazza. Ma la risposta giusta la dà la realtà. Se questo signore, lasciate le Ferrovie, non trovasse lavoro, o lo trovasse con un compenso minore, si rivelerebbe uno sciocco e uno sbruffone. Se al contrario trovasse presto un altro incarico, per giunta con un compenso ancora maggiore, sarebbe chiaro che la sua paga attuale è appena sufficiente. Dunque avrebbe avuto perfettamente ragione a dichiarare ciò che ha dichiarato: quel compenso “lo vale” largamente.
Il punto è che qualunque operaio, ed anche qualunque ingegnere delle ferrovie, sono perfettamente fungibili. E infatti, cambiando lavoro, non è detto che guadagnerebbero di più. Mentre il grande amministratore somiglia, in questo campo, al grande artista. Opera su una tale scala che, se riesce a migliorare i bilanci della ditta di una piccola percentuale, ne migliora i conti per un notevole multiplo del suo compenso. Ciò valse, ad esempio, per Lee Yacocca, ed oggi per Marchionne. Anche se poi ci sono i pagatissimi executive della Lehman Brothers che non ne hanno evitato il fallimento. Comunque i discorsi moralistici sui compensi altrui sono inutili. Se si trova che Pavarotti è troppo pagato, si vada a cantare al suo posto.
Il discorso puramente tecnico va precisato ed in parte contraddetto quando si tratta di imprese di Stato. Qui un grande amministratore può essere prezioso a condizione che gli si lasci la libertà di guidare l’impresa con criteri economici. Se invece all’occasione gli si vieta di ridimensionare la forza lavoro, oppure di licenziare chi sabota la produzione, i grandi compensi sono sprecati e i suoi eventuali cattivi risultati sono giustificati. Infatti è come se, per pilotare un’automobile di Formula 1, si assumesse un asso e poi gli si vietasse di schiacciare l’acceleratore.
Di perdere soldi siamo capaci tutti. Se l’erario è risoluto a tenersi un’impresa antieconomica, tanto vale che la lasci dirigere a una qualunque mezza calzetta. Purtroppo poi non va così: perché, quando si tratta di imprese pubbliche, c’è sempre il sospetto che l’assunzione di un collaboratore costoso non corrisponda tanto alla volontà di avere un’ottima amministrazione, quanto a quella di procurare ad un amico una retribuzione da sogno. 
In questo caso, come è evidente, oltre che fuori dalla morale, siamo fuori dall’economia.
pardonuovo.myblog.it

Chi frena le riforme di Renzi


Galli Della Loggia riguardo a Matteo Renzi osserva che il consenso non è così universale e indiscusso come sembra. È massimamente a suo favore la folla indifferenziata dei cittadini che poco si intendono di politica, in particolare di coloro che desiderano un qualunque cambiamento perché, tanto, peggio non potrebbe andare. E sono a suo favore anche i giornali, un po’ per patriottismo, un po’ per non andare contro l’opinione dei lettori. Viceversa riguardo al giovane Primo Ministro sono perplessi e scettici soprattutto coloro che hanno qualche competenza politico-economica.
Renzi si esprime come se potesse decidere tutto e in fretta, mentre in realtà non può decidere niente; e in fretta, in Italia, si aumenta soltanto il prezzo della benzina.
Naturalmente i più preoccupati sono i membri dell’establishment. Ma questi personaggi, interessati allo statu quo, si trovano in tutte le fazioni. E infatti l’editorialista sostiene che, riguardo all’attuale Primo Ministro, il consenso e il dissenso non si situano su opposte rive politiche – destra/sinistra, per intenderci – ma su diversi piani sociali.
In tutto ciò c’è molta verità. Ma non tutta. Si può infatti essere in disaccordo con Galli Della Loggia quando, parlando di establishment, sembra accennare alle persone importanti: ai grandi dirigenti d’azienda, ai ricchi e ai titolari di alte cariche. In realtà, il blocco sociale che si oppone al cambiamento comprende i molti che dell’attuale modello sociale e statale beneficiano anche al livello più basso. Ecco perché da un lato la resistenza ai cambiamenti è efficace, dall’altro essa opera con i governi di qualunque colore.
E c’è una considerazione che fa andare oltre. Non solo frenano coloro che dallo stato attuale ricavano dei vantaggi, frenano anche coloro che non ne ricavano nulla e non contano niente. È un paradosso che va spiegato.
Se ad un comunista si fa osservare che dovunque si sia tentato di applicare il suo credo i cittadini hanno ottenuto soltanto di essere miserabili e schiavi, spesso si ottiene che neghi la realtà e si arrampichi sugli specchi. Se invece è “intelligente”, riconosce i fatti ma ne ricava una conclusione sorprendente: il comunismo ha prodotto guasti, dirà, non perché fosse sbagliato ma perché non è stato applicato integralmente. Dovunque si è tentato l’esperimento il popolo è stato infelice non perché ci fosse il comunismo, ma perché non ce n’era abbastanza. Insomma: vediamo un ubriaco sporco e lacero, riverso su un marciapiede, e qualcuno ci dice che si è ridotto così perché non ha bevuto abbastanza vino.
Lo stesso avviene in Italia. La maggioranza dei nostri mali deriva da uno Stato spendaccione, avido ed inefficiente. Il rimedio naturalmente sarebbe che esso rinunci ai mille compiti che si è dato, compiti che assolve male e a costi  altissimi, e si occupi, ma bene, dell’essenziale. Ipotesi assurda. Se si ipotizza una cosa del genere non protesta soltanto l’alto establishment, protestano anche i più poveri fra i poveri. Costoro non vogliono che lo Stato spenda meno, vogliono che spenda anche per loro, regalandogli sussidi e provvidenze. E intanto attribuiscono la loro condizione all’avidità dei ricchi. Non meno, ma più comunismo.
La grande illusione è che lo Stato fornisca tutto gratis. Se dunque Renzi proverà a toccare la sanità, le province, i bidelli, i forestali, tutte le nicchie in cui tanti trovano uno stipendio, un sussidio o una sinecura, si scontrerà non con le persone importanti, ma con l’universo mondo. Infatti tutti sperano che egli “colpisca qualcun altro”.
Non sono i governi, non sono i politici, non sono i tycoon i massimi conservatori: sono i poveri. E infatti votano per i partiti più conservatori, quelli di sinistra
Oggi Renzi fruisce dei vantaggi della demagogia e del fatto che rimane sul vago. Finché non entrerà nei particolari – dove si annida il diavolo – l’applauso è assicurato. Si pensi alla reazione di quei dipendenti il cui posto di lavoro salta sicché essi rischiano, se non il licenziamento, almeno il trasferimento
E allora, come riformare la Pubblica Amministrazione? Il principio si scrive in inglese, not in my backyard, ma si legge in italiano: toccate chiunque ma non me. 
E lo dicono in sessanta milioni.

 pardonuovo.myblog.it

mercoledì 5 marzo 2014

La "Grande Bellezza" sarebbe riconoscere l'Oscar di Silvio Berlusconi

Il film di Sorrentino ha vinto la statuetta. Tutti lo esaltano ma nessuno dice grazie a chi l'ha prodotto e distribuito


Alessandro Sallusti - Mar, 04/03/2014 

Per Renzi, l'Oscar alla Grande Bellezza è la prova che «non dobbiamo aver paura ad allargare le nostre ambizioni». Per Franceschini, ministro della Cultura, che «se l'Italia crede in se stessa, ha fiducia e investe nei propri mezzi può vincere».
Vendola ringrazia «tutti coloro che hanno reso possibile questa magnifica opera», la Boldrini afferma che «il cinema è risorsa fondamentale per la cultura».
Napolitano parla di «una grande vittoria per l'Italia», e la ministra europea alla Cultura Vassiliou esclama: «Fantastica Italia».
L'Italia della sinistra postcomunista e quella renziana (al momento teniamo una separazione in attesa di giudizio) si intestano il merito dell'Oscar di Sorrentino. Loro sì che sanno come si fa a far trionfare il made in Italy. Ma tacciono colpevolmente due cose. La prima. Il film è la presa per i fondelli del loro mondo, vuoto e ipocrita. La seconda è ancora più ridicola. Perché chi ha permesso a Sorrentino di salire sul palco, quello che - per citare i signori di cui sopra - non ha avuto paura di allargare le sue ambizioni, di investire propri soldi, quello che va ringraziato, quello che ha capito che il cinema è una risorsa e che ha contribuito a fare vincere l'Italia ha un nome e un cognome volutamente assenti dai loro commenti.
Si chiama Silvio Berlusconi, fondatore e azionista di maggioranza del gruppo Mediaset, la cui controllata Medusa ha creduto nel progetto di Sorrentino, prodotto (insieme a piccoli partner) e distribuito la pellicola.
Scusate Renzi, Franceschini, Vendola, Boldrini, Napolitano e soci: dire un grazie alla più importante e prestigiosa azienda culturale privata del Paese, Mediaset, è chiedere troppo? La risposta è scontata: troppo. Perché ammettere che Berlusconi, la sua famiglia e i suoi manager (Carlo Rossella e Giampaolo Letta a Medusa) sono il volano del migliore sapere italiano vuole dire sconfessare vent'anni di linciaggio mediatico. Significa rinnegare i fischi di giornalisti e cinefili di sinistra che alla mostra di Venezia accompagnano la vista del logo Medusa in testa di pellicola (anche per questo alla scorsa edizione del festival Medusa non presentò alcun film in concorso).
Ci sono voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è quell'associazione a delinquere immaginata dai magistrati italiani.
Oggi siamo orgogliosi di Sorrentino, ma anche di Mediaset e di quel folle di Berlusconi che continua a investire in un Paese così. E adesso, cari compagni, continuate pure a fischiare Medusa e a spiegarci che cosa è cultura e come si fa: siete come le patetiche caricature della Grande bellezza. Poca cosa.


sabato 1 marzo 2014

Governo sul filo e senza rete

L'Opinione - Pare che i 60 miliardi promessi da Matteo Renzi alle imprese con crediti verso lo Stato siano un terzo. E questo terzo sia formato in gran parte dai miliardi già versati alle imprese nel quadro delle misure varate a suo tempo dal Governo Letta.

Pare poi che i famosi tagli alla spesa pubblica previsti dal commissario Carlo Cottarelli non riusciranno a coprire il fabbisogno necessario a finanziare i dieci miliardi previsti per la riduzione del cuneo fiscale. E pare, infine, che passata l’euforia per le miracolistiche promesse pronunciate in Parlamento e in tivù dal nuovo Presidente del Consiglio, i conti incomincino a non tornare ed a far sospettare che non siamo alla vigilia di alcuna resurrezione economica.

L’edificio governativo, in sostanza, non è ancora stato ultimato ma già è oggetto di sinistri scricchiolii. Che non provengono solo dalla parte economica e finanziaria, ma anche e soprattutto dalla parte politica che dovrebbe essere il suo più solido fondamento. Non è un caso che il ritorno di Pierluigi Bersani alla Camera, con annesso abbraccio volutamente significativo all’asfaltato Enrico Letta, sia coinciso con il ritorno in campo di Massimo D’Alema, fino a ieri ufficialmente interessato solo alle grandi questioni europee e da ieri di nuovo intrigato dalle vicende interne del Pd.
E non è affatto un caso che mentre Pippo Civati ha confermato di lavorare alla preparazione di un gruppo autonomo chiamato Nuovo Centrosinistra, l’ex segretario del partito Guglielmo Epifani abbia avvertito l’esigenza di manifestare in un’intervista al Corriere della Sera tutte le perplessità sue e della maggioranza dei parlamentari del Pd per la nuova fase politica segnata dall’ascesa a Palazzo Chigi di Matteo Renzi. Nessuno pensava che la tradizionale luna di miele del Governo potesse durare troppo a lungo. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che già all’indomani del voto di fiducia la spinta propulsiva del nuovo Governo venisse frenata dalle barriere provenienti dal partito del Premier.
L’aria che tira non è delle migliori per Renzi. Che da adesso in poi deve vedersela non tanto con le resistenze dei partners della coalizione, con l’opposizione oltranzista dei grillini e quella “costruttiva” di Forza Italia, ma con le oggettive difficoltà di una situazione economica che non consentono miracoli di sorta e con l’azione di logoramento avviata dai suoi irriducibili avversari interni del Partito Democratico.
In queste condizioni appare irresponsabile e ridicola la battaglia che i “cespugli” centristi ed i malpancisti del Pd stanno facendo contro l’approvazione della legge elettorale. Il Governo può cadere da un momento all'altro lasciando come unica alternativa la necessità di andare ad elezioni anticipate. Ma non solo la nuova legge elettorale non viene approvata, ma si cerca di rinviarla il più lontano possibile legandola alla approvazione della riforma costituzionale per l’abolizione del Senato. E non per un qualche superiore interesse del Paese, ma per l’evidente interesse degli attuali parlamentari entrati alla Camera ed al Senato con il “Porcellum” di continuare a mantenere la propria poltrona ed il proprio stipendio il più a lungo possibile.
Certo, in caso di estrema necessità si potrebbe sempre andare a votare con la legge elettorale realizzata in maniera dissennata dalla Corte Costituzionale. Ma perché non mettere una rete un po’ più solida sotto un Governo che cammina sul filo e può facilmente precipitare a terrà?