Powered By Blogger

giovedì 12 giugno 2014

Piaccia o no, sulla Libia Berlusconi aveva ragione

E se qualcuno s’azzarda a dire che Berlusconi, almeno in certe occasioni, vedeva più lontano dei suoi successori e degli stessi colleghi del suo partito, che succede? Dipende. Non accade alcunché qualora l’opinione venga comunicata privatamente agli amici. Se invece si ha la pretesa di scriverlo e di pubblicare un pezzo al riguardo su qualche blog, apriti cielo. Nel migliore dei casi l’articolo viene ignorato o accolto con sorrisi di commiserazione. Più probabile, tuttavia, essere coperti da reazioni sdegnate o veri e propri insulti.
Comunque io ci provo, e il tema prescelto è quello della politica estera. L’ineffabile Hillary Clinton, ex Segretario di Stato USA, ci racconta ora che, prima della nefasta e non dichiarata guerra occidentale contro la Libia, l’uomo di Arcore si oppose con tutte le forze all’idea di Sarkozy il quale, in un summit a Parigi, aveva manifestato l’intenzione di bombardare unilateralmente il Paese nordafricano, con il proposito manifesto di abbattere Gheddafi e il suo regime.
Come tutti sanno Cameron e gli inglesi si accodarono subito con entusiasmo facendo seguire i loro caccia (e le loro bombe) a quelli francesi. Gli americani abbozzarono senza bloccare l’iniziativa anglo-francese, e limitandosi a fornire droni in quantità e supporto logistico.
Per quest’ultimo erano assai utili le basi aeree e navali italiane, e in particolare quelle in Sicilia. La Clinton ci racconta dunque di un Berlusconi “furibondo”, che arrivò al punto di minacciare l’uscita dalla coalizione che stava formandosi e la proibizione di utilizzare le basi suddette.
Ma non ci fu nulla da fare, poiché alcuni esponenti del suo governo erano più realisti del re e non vedevano l’ora di far partecipare i nostri aerei all’azione. Ricordo in particolare l’ex ministro Frattini, che spingeva come una locomotiva per assicurare all’Italia il cosiddetto “posto al sole”.
I maligni attribuirono la reazione rabbiosa del premier alla sua nota amicizia con Gheddafi. E invece, a tre anni di distanza, adesso si capisce fin troppo bene che il vero obiettivo era tutelare gli interessi nazionali. A dispetto delle sue smargiassate, infatti, il defunto colonnello aveva sempre mantenuto un rapporto privilegiato con noi, suscitando le ire dei cugini d’oltralpe e dei sudditi della regina Elisabetta.
Il caos immane che si è poi scatenato in Libia ha dimostrato che le due ex grandi potenze coloniali si sbagliavano di grosso. In effetti nessuno ha tratto vantaggi dall’attacco, e gli avvertimenti di Gheddafi circa i pericoli di un rafforzamento di al-Qaeda dopo la sua morte hanno trovato puntuale conferma. Attualmente la Libia è terra di nessuno. Molte rappresentanze diplomatiche occidentali hanno chiuso i battenti; il flusso dei migranti verso le nostre coste è ormai diventato insostenibile, e ci ritroviamo un pericolosissimo focolaio di fondamentalismo islamico sull’uscio di casa.
Berlusconi aveva dunque visto giusto, anche se dargli ragione dopo che il guaio è stato combinato non consola più di tanto. Né si dimentichi che Hillary Clinton ha sulla coscienza il barbaro assassinio dell’ambasciatore americano a Bengasi, fatto circa il quale ha sempre rifiutato di fornire spiegazioni decenti trincerandosi dietro il segreto di stato.
Ma questa – si dirà – è acqua passata, anche se le conseguenze continuano a colpirci. Mette però conto rammentare che, più recentemente, l’ex premier ha lanciato segnali d’allarme anche a proposito del caso ucraino, invitando il nostro governo ad assumere posizioni moderate. Si dirà, come già è accaduto nel caso di Gheddafi, che la sua prudenza è dettata dall’amicizia con Putin?
Voglio sperare di no, perché sbagliare è umano, ma perseverare nell’errore è diabolico. Pure in questa occasione, infatti, sono in gioco i nostri interessi nazionali, dei quali a Unione Europea, NATO e Stati Uniti importa poco o nulla (e forse giustamente: spetta a noi tutelarli).
Non occorre insomma essere berlusconiani per dare ragione a chi ce l’ha e l’aveva anche in passato sul caso libico. Riconoscerlo è, a mio avviso, una mera questione di onestà personale.
Michele Marsonet

domenica 1 giugno 2014

I miei dubbi su Renzi

Corriere della Sera - Il dato strutturale che emerge dall’esito delle elezioni europee è che il trasformismo rimane una costante della politica italiana. Oltre il 40% di elettori ha premiato le promesse e gli annunci riformistici di Matteo Renzi, producendo un miracolo: la trasformazione del Pd e del governo in una sorta di berlusconismo di sinistra. Il «ciclone» Grillo è stato scongiurato anche con l’aiuto di media che hanno promosso il Pd a qualcosa di diverso da ciò che è stato ed è: l’erede culturale del Pci, un partito ideologico, novecentesco, antiriformista, per la sua componente marxista; antimodernista e totalitario, per la sua parte rousseauiana, quella della «volontà generale». Il Partito democratico è diventato, con queste elezioni, la «diga», a contrasto dell’estremismo palingenetico, ma senza il disincantato pragmatismo della vecchia Dc, ma il modo con il quale ciò è avvenuto non è incoraggiante per il futuro del Paese.
Renzi è un ragazzotto che se la cava bene a chiacchiere. Non ha altro da esibire; perciò fa dell’ottimismo della volontà la propria bandiera, spacciandola per programma politico. Ma non pare avere né la preparazione, né la forza e la volontà politiche per riformare davvero il Paese e liberarlo dal dispotismo burocratico. Insomma, secondo copione dopo ogni elezione, qualcosa è cambiato affinché nulla cambi. Renzi, sulla scia di Monti, ha aumentato le tasse; il Paese, caduto in una recessione economica devastante, attraversa una crisi culturale dalla quale non si vede come possa uscire. Ora, gli italiani - lo erano stati per anni quando ancora credevano nelle capacità riformistiche di Berlusconi - attendono, in privato, senza grandi speranze; in pubblico, animati da ottimismo di maniera - che annunci e promesse di Renzi si traducano in fatti. Scriveva Piero Gobetti agli albori del fascismo: «La lamentata incultura dei deputati rappresenta l’incultura e la confusione del Paese. Le corruzioni demagogiche, le indulgenze verso il parassitismo... corrispondono alle nostre condizioni storiche e indicano appunto l’incapacità e l’impossibilità di porre il problema nostro che determinerebbe ogni chiarezza, il problema dell’antitesi fra Nord e Sud (...) In sostanza, l’Italia, patria di tutte le ideologie e di tutte le ribellioni, si riduce a un Paese di conservatori». È cambiato qualcosa da allora e dopo vent’anni di fascismo e quasi settanta di democrazia ? A me pare di no.
Siamo il solo Paese al mondo che festeggia una sconfitta bellica e, con essa, la caduta di una dittatura alla quale aveva dato il suo consenso. I tedeschi non celebrano la sconfitta bellica che non nascondono di dovere agli Usa e all’Urss. Non festeggiano la caduta del nazismo, perché l’hanno elaborata e rimossa, con Ragione luterana, dal proprio immaginario e cancellato, con essa, il relativo senso di colpa. Noi continuiamo a celebrare la caduta del fascismo, agostinianamente il nostro peccato originale del quale non ci siamo ancora liberati, peraltro senza aver riflettuto su ciò che esso è stato e quanto di esso ancora rimanga nelle istituzioni e nel modo di pensare. Il 25 aprile è diventato, così, una sorta di confessione collettiva e liberatoria perché celebrata in perfetta sintonia con l’altro totalitarismo novecentesco, il comunismo.
Il mestiere che faccio è un ottimo osservatorio per capire gli umori dei miei concittadini. Molti di quelli che si credono la forza motrice del progresso ripetono, spesso parola per parola, ogni versione ufficiale dei fatti correnti, diligentemente divulgata dai media. Abbiamo il sistema informativo, nel mondo, più antinomico che ci sia della democrazia. Siamo individualmente e collettivamente incapaci di esercitare lo spirito critico e, come diceva Gobetti degli italiani della sua epoca, non sappiamo fare opposizione, facciamo (solo) la fronda e (poi) votiamo Mussolini. Il mito dell’«Uomo della Provvidenza» ha accompagnato gli ultimi tre governi, Monti, Letta, Renzi, nati non attraverso libere elezioni, ma per partenogenesi del presidente della Repubblica, diventato un monarca costituzionale un po’ per ambizione personale, molto per dilatazione «materiale» della Costituzione formale parecchio pasticciata di suo.
In conclusione. Non saranno il successo di Renzi e la sconfitta di Grillo a salvarci. Ci vuole altro. Dalla scuola secondaria all’università, dall’Ordinamento giuridico al sistema politico alla cultura dominante, «gli è tutto da rifare», come diceva la buonanima di Bartali. Ma non si vede chi e come lo possa fare. Uno che assomigli a Bartali non c’è; di certo, Renzi non è, diciamo, Coppi; neppure Magni...
Piero Ostellino

sabato 17 maggio 2014

Napolitano nella tagliola

Da anni Silvio Berlusconi parla del fatto che le banche germaniche, nell’estate del 2011, fecero sì che lo spread fra i titoli italiani e quelli tedeschi balzasse alle stelle, per far credere che l’Italia stesse per affondare. “Il mese prossimo non si potranno più pagare gli stipendi”. Lo scopo era quello di convincere tutti che l’unico modo di salvare l’Italia era quello di  eliminare l’odiato Cavaliere. Recentemente Alan Friedman ha scritto un libro in cui ha rivelato che in alto loco da mesi ci si organizzava per mandarlo a casa e sostituirlo con Mario Monti. E non si è trattato della tesi azzardata di un giornalista: i fatti sono stati corroborati da testimonianze importanti, a cominciare da quella dello stesso Monti. Infine è arrivata la testimonianza dell’ex ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Timothy Geithner, e si è costretti a ricordare una vecchia battuta: “Se uno ti chiama asino, protesta; se un altro ti chiama asino, protesta; se un terzo ti chiama asino, raglia”. E infatti ora ci si scandalizza per il disprezzo dimostrato da molti per le istituzioni democratiche e per l’offesa alla sovranità italiana perpetrata da alti funzionari stranieri. Tanto da chiederne conto a quel supremo garante di tutte queste cose che è il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Purtroppo questi, dopo un lunghissimo silenzio, ha dichiarato che “le dimissioni di Berlusconi furono libere e responsabili”, e che lui personalmente non ha mai saputo di pressioni per farlo dimettere.
Quando le dichiarazioni sono secche e significative si possono definire laconiche. Quando non dicono gran che, l’aggettivo diviene invece “elusive”. Un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi, tre sono una prova. E nel mondo politico, dove basta anche un sospetto, c’è da essere estremamente preoccupati. Il Presidente, quand’anche fosse innocente, rischia di entrare nello scandalo fino ai capelli. Né gli basterebbe una qualche scusante “giuridica”. Del resto, la fiducia nei giudici è talmente calata che neanche un’assoluzione in giudizio farebbe stato, agli occhi dell’opinione pubblica. E non può neppure dire: “Non ci sto”, come fece Oscar Luigi Scalfaro. A quel Presidente la fecero passare, oggi il vento è cambiato e se Napolitano dicesse la stessa cosa sarebbe sommerso dai fischi.
Fra l’altro, dire che le dimissioni di Berlusconi furono libere richiederebbe una spiegazione. Egli aveva dunque tanta voglia di lasciare il posto ad altri? L’altro aggettivo, “responsabili”, è addirittura provocatorio. Sembra voler indicare un’ammissione di colpa da parte di Berlusconi: cosciente di essere d’inciampo, per il bene della Patria ha avuto il grande senso di responsabilità di farsi da parte. Ebbene, che qualcuno ci dica in che senso Berlusconi pensava di star danneggiando l’Italia. Questa era la tesi di Monti, non certo la sua. Per non dire che, se il Presidente tentasse questa probatio diabolica, sarebbe accusato di non essere e di non essere stato super partes.
Né prova nulla il successivo voto di fiducia del Pdl a Monti. Se, a parere di Napolitano, Berlusconi aveva un tale amor di Patria da dimettersi, poi avrebbe dovuto impedire che l’Italia avesse un governo? O avesse un governo dichiaratamente di sinistra?
Napolitano afferma di non avere avuto notizia di pressioni per far dimettere Berlusconi. Ma ha avuto notizia dei suoi propri incontri con Mario Monti? E che cosa risponde alle altre testimonianze raccolte da Alan Friedman?
La sua posizione non è problematica, è impossibile. Se nega i fatti, rischia di essere sbugiardato. Se si dimette, le sue dimissioni suonerebbero come un’ammissione di responsabilità. Forse gli rimane la risorsa di fare il morto: “Non c’ero e se c’ero dormivo”. E vedere se la coalizione degli interessi dei partiti e dei poteri forti riuscirà a far sì che i giornali continuino a sottovalutare la vicenda finché non sia dimenticata.
Purtroppo per lui, anche questa mossa avrebbe il suo prezzo. Gianfranco Fini, cucendosi la bocca e aggrappandosi con tutte e due le mani alla poltrona, ha mantenuto la carica fino alla scadenza della legislatura: ma appena possibile il popolo italiano ne ha decretato la morte civile e anche la damnatio memoriae. Pessimo finale.
Probabilmente tutto ha avuto inizio con la diffusa convinzione che attaccare Berlusconi fosse lecito con qualunque mezzo. Inclusa la calunnia, incluso l’uso strumentale della giustizia, inclusa l’alleanza con lo straniero. Ma alla fine, a forza di credere di disporre di un’inconcussa impunità, si è arrivati al passo falso: un complotto che squalifica tutti quelli che vi hanno partecipato, italiani e stranieri. Questi ultimi in particolare hanno gravemente offeso la nostra sovranità e la nostra dignità. Purtroppo non è neanche detto che ci abbiano mal valutati: forse meritiamo il loro giudizio, visto che, come facevamo già nel Rinascimento, siamo disposti a complottare con lo straniero contro i nostri connazionali. Ma oggi gli stranieri pagano il fio di un’imperdonabile gaffe. 
Nel mondo diplomatico è lecito ritenere la moglie del tale Premier straniero una puttana. Ma non è lecito dirlo. Almeno, non ad alta voce.
Gianni Pardo
pardonuovo.myblog.it

lunedì 12 maggio 2014

Berlusconi sa bene cos'e' la cultura, la sinistra non sa cos'e' la liberta'

Fabrizio Rondolino, di formazione filosofo e di professione giornalista, è stato netto e impietoso; qualche giorno fa, in un articolo pubblicato su Europa, il quotidiano dei renziani d’attacco, ha scritto che “Berlusconi non sa cosa sia la cultura”.

La ragione di un giudizio così inappellabile è stata la conferenza stampa con cui il Cavaliere ha presentato il nuovo Dipartimento Cultura di Forza Italia, con a capo Edoardo Sylos Labini, artista ed intellettuale non conformista. La colpa di Berlusconi è di aver dichiarato quello che sembrerebbe normale a qualsiasi persona dotata di buon senso; e cioè che lui è il più grande imprenditore culturale italiano.

In effetti, se non si frequentano troppo i cimiteri dei premi letterari, i salottini degli intellettuali impegnati e le sedute psicanalitiche dei critici d’essai, non si avrebbe difficoltà ad ammettere che, dalla televisione al cinema, dall’editoria al teatro, Berlusconi ha aiutato quel passaggio alla cultura di massa che molti intellettuali del ‘900 (da Hanna Arendt a Pasolini) non hanno mai accettato, ma che i media visivi e ora il web, hanno imposto come forza storica dirompente.
È difficile non riconoscere che è stata Mediaset a cambiare l’immaginario del paese; che è grazie a Medusa che sono tornati da noi gli Oscar che mancavano dai tempi d’oro del cinema italiano; che è Mondadori a tenere in piedi il nostro mercato dell’editoria.
Nel 1978, quando Rondolino frequentava le sezioni del Pci, e Berlinguer e i suoi intellettuali si scagliavano contro la tv a colori con lo slancio mummificante tipico di ogni ideologia, la famiglia Berlusconi acquistava l’antico teatro Manzoni di Milano salvandolo dalla trasformazione in centro commerciale; ed è qui che sono state realizzate alcune delle più straordinarie produzioni teatrali degli ultimi anni: dalla “Maria Stuarda” di Zeffirelli, al “Macbeth” di Gassman, al “Fiore di cactus” di Albertazzi.
Secondo Rondolino tutto questo non dimostra nulla, perché “la vera cultura, per Berlusconi, è un fatturato”. Se Rondolino avesse letto Ayn Rand non sarebbe così perentorio; per la filosofa capitalista e libertaria, l’imprenditore che genera ricchezza e occupazione, che costruisce con le sue intuizioni e il suo lavoro possibilità nuove, è di fatto un individuo creatore; quindi (aggiungiamo noi) un artista. Il fatturato di un’impresa può essere un’opera d’arte molto più di alcune schifezze esposte alle Biennali. Lo sanno bene tanti intellettuali e artisti così attenti al loro “fatturato personale”.
La realtà è che l’orfanotrofio culturale della sinistra italiana ha trasformato molti intellettuali in orfanelli in perenne conflitto con i genitori adottivi; e così quando Rondolino (che spesso sa essere intelligenza libera e non conformista) arriva a scrivere che Mondadori “è un editore-supermercato che pubblica ogni cosa” e Mediaset “una tv generalista che per statuto appiattisce e omologa”, si è portati a pensare: ma è lo stesso Rondolino che pubblica libri per Mondadori e realizza format per l’altra tv generalista, la Rai? Ovviamente sì. Quindi qualcosa non funziona nel solito ragionamento sulla bellezza della cultura di nicchia e l’opacità della cultura di massa.
Con buona pace degli snob, Berlusconi non è solo un “imprenditore culturale”, ma è anche un imprenditore liberale; e affermare che “il centrodestra non ha cultura perché Mondadori e Mediaset non la fanno”, tradisce la solita deformazione ideologica, secondo la quale la cultura non serve allo spirito o al portafoglio (cose entrambi nobili) ma al partito. Un imprenditore non fa cultura, la produce; all’artista e all’intellettuale spetta il compito di realizzare “l’oggetto culturale”. Questo spiega perché intellettuali e artisti anti-berlusconiani lavorano nelle tv di Berlusconi, scrivono sul giornale di Berlusconi, girano film con i soldi di Berlusconi, pubblicano libri con l’editore Berlusconi; e questo spiega anche perché a quelli filo-berlusconiani è vietato scrivere su Repubblica, editare libri con Feltrinelli o lavorare per qualche produttore di sinistra.
La verità è un'altra: Berlusconi sa bene cos’è la cultura, mentre la sinistra non sa ancora cos’è la libertà.

Le baby prostitute piacciono

Le baby prostitute piacciono. L’idea che ragazzine di 15-16 anni si vendano intriga. Non sto parlando dei loro clienti, che, in quanto tali, sono la dimostrazione che quel genere di offerta può contare su una significativa domanda. Sto parlando del mondo dell’informazione. E parlo anche delle baby in questione. Articoli e servizi televisivi escono in continuazione, con la scusa della denuncia e dello scandalo, ma, in realtà, usando gli argomenti dell’istigazione e del compiacimento.

Per affrontare il tema dobbiamo accantonare ogni moralismo. Il mercato della prostituzione è sempre esistito e sempre esisterà. Regolarlo e regolarizzarlo sarebbe saggio, non solo perché potrebbe derivarne un gettito fiscale, offrendo in contropartita protezioni sociali (non quelle dei papponi), ma perché si tratta di un mercato nel quale può ben esistere, ed esiste, la libera scelta. Da una parte e dall’altra. Scelta che non danneggia terzi. Come in tutti i mercati in cui si regola la libertà se ne proibisce la coartazione, quindi si punisce comunque la riduzione in schiavitù. Resa più facile dalla clandestinità. Ma, appunto, per ragionare, si devono accantonare i moralismi: l’idea che ci si rovini al casinò è disdicevole, ma non per questo vanno chiusi.

Torniamo alle baby che si prostituiscono. Sotto la maggiore età resta un reato. Ma quel reato piace. Per rendersene conto basterà osservare il modo in cui viene illustrato: fanciulle distese sul letto, con gonnellini essenziali; gambe scoperte e accavallate, inguantate in calze a rete; spacchi vertiginosi; alcove sfatte; scarpe che cadono, dopo aver ciondolato ai bordi di un sofà, e così via. Tutte immagini che, naturalmente, non si riferiscono ai fatti specifici che si commentano. Tutte foto realizzate con modelle e in posa. A leggere gli articoli e a seguire l’audio si colgono le parole della condanna, ma il messaggio d’insieme è di propaganda. Più che a mettere in guardia i genitori serve a sollecitare il desiderio dei clienti. Cui si fornisce anche un alibi “culturale”, continuando a chiamare “Lolita” la giovane prostituta.
Quel modo di raccontare le cose è accattivante anche sul lato dell’offerta, fra le giovani potenzialmente candidate: si intervistano le protagoniste e quelle ti raccontano che durante le sessioni bastava pensare ad altro, mentre con i proventi si possono comprare vestiti firmati, gadget alla moda, permettersi lussi e sfizi. Ecco cosa hanno detto due minorenni liguri, una volta intervenute le forze dell’ordine, avvertite dalla denuncia di un cliente, che giunto sul luogo dell’appuntamento ha capito di avere a che fare con due post-bambine: “Abbiamo letto sui giornali di quelle ragazzine di Roma che si prostituivano. E che guadagnavano 5-600 euro al giorno. Mitico, ci siamo dette. E’ così è cominciato tutto”. Non è necessario aggiungere altro.
A questo punto scatta la molla autoassolutoria: per forza che capitano queste cose, perché quello è l’esempio che viene dall’alto e dalla televisione, ove tutti sono disposti a tutto pur di diventare idoli. C’è del vero, ma è troppo comodo. Giriamo la frittata: quello è lo spettacolo che va per la maggiore perché quelli sono i gusti e gli istinti del pubblico. Un lato non esclude l’altro. Anzi, vanno assieme. Il fatto è che si è imboccata la strada della deresponsabilizzazione individuale, con la scusa che tutte le colpe e tutti i vizi sono collettivi, della società, del sistema. Così procedendo abbiamo posposto il valore delle scelte personali e anteposto quello del riconoscimento da parte del pubblico. Abbiamo ammazzato il mito di Superman: l’eroe che agisce per il bene, ma resta anonimo. L’importante è non essere anonimi, e chi se ne frega del bene. Anche se la fuga dall’anonimato corre verso la più anonima delle pozze, quella in cui ci sono i vestiti firmati e i marchi che fanno status.
Quelle ragazze sono figlie di madri che pretendono di non essere madri, ma eterne giovini in costante attività esibizionistica. Di madri che non si vestono da madri, ma da militi del rimorchio. E sono figlie di padri che non sono padri, la cui assenza fisica è il coronamento dell’assenza educativa: non proibiscono, non s’impongono, non prendono il peso di avere magari torto, ma pur sempre con autorità. Di padri che si vestono da giulivi fancazzisti: colori, foulard vaporosi, magari un po’ di cremina attorno agli occhi. Sono figlie nostre. Non sono solo loro a essere baby, è che vivono in un ambiente di minorenni invecchiati senza mai essere diventati grandi. Di ipocriti che fingono di scandalizzarsi e intanto guardano la coscia o contano gli incassi. “A mia madre avevo detto che spacciavo droga”, e quella aveva suggerito: sta attenta. Non si preoccupi, signora, lo spaccio è ormai depenalizzato.
Nessun moralismo. Non serve. Dico solo che se non si è neanche capaci di riconoscere il modo in cui diciamo e descriviamo le cose, individuandone il senso, è segno che la deresponsabilizzazione è sfociata nell’irresponsabilità.
Davide Giacalone

giovedì 8 maggio 2014

L'offensiva esaurita di Matteo Renzi

L'Opinione - Se è vero, come insegnano i testi di strategia militare, che le offensive non possono andare avanti all’infinito ma tendono inevitabilmente ad esaurirsi, bisogna prendere atto che l’offensiva di Matteo Renzi sulle riforme e sulle iniziative concrete contro la crisi ha subito una frenata fin troppo brusca nel momento meno propizio. Cioè a sole tre settimane dalla conclusione di una campagna elettorale che nelle intenzioni del Presidente del Consiglio avrebbe dovuto frenare l’ascesa di Beppe Grillo, certificare il tramonto di Silvio Berlusconi e celebrare un plebiscito nei confronti della sua azione di Governo.
Può essere che l’offensiva renziana riesca a riprendersi nelle ultime due settimane di campagna elettorale. Ma al momento non si può non registrare come gli obiettivi che Renzi si proponeva di conseguire con la velocità della propria azione riformatrice sono ben lontani dall’essere raggiunti.

Gli ottanta euro nella busta paga di dieci milioni di lavoratori dalla fine di maggio, che dovevano essere il volano per il plebiscito in favore del Premier e del suo partito, sono stati bollati dagli avversari come una “mancia elettorale”. E, soprattutto, risultano di fatto vanificati da una raffica di aumenti di tasse e tariffe che azzereranno i benefici per la fascia privilegiata e si scaricheranno sulla maggioranza dei cittadini esclusa dagli aumenti. L’unica operazione concreta (il promesso taglio dell’Irap è stato ridicolo) per rilanciare consumi e crescita si è, dunque, rivelata un boomerang. E lo stesso è successo con il percorso delle riforme. Quanto avvenuto al Senato ha confermato in maniera addirittura clamorosa come le fratture all’interno della maggioranza rendano indispensabile il sostegno di Forza Italia per la realizzazione di qualsiasi progetto di cambiamento.
È difficile prevedere se e quanto questa frenata dell’offensiva riformatrice di Renzi potrà incidere sul risultato elettorale. Ma già da adesso il Premier è costretto a prendere atto che la speranza del plebiscito a suo favore ha subito un colpo pesante. E che i suoi principali concorrenti, Grillo da un lato e Berlusconi dall’altro, non solo non sembrano subire arretramenti o tramonti di sorta, ma appaiono in grado di sovvertire tutte le previsioni negative che erano state fatte nei loro confronti. Grillo è in grado di continuare a monopolizzare l’area della protesta diffusa nel Paese. E Berlusconi ancora una volta risulta artefice di una campagna elettorale capace di recuperare consensi in un popolo di moderati che non vede altri punti di riferimento al di fuori della sua persona.
Certo, per Renzi non è questo il momento di stabilire colpe e responsabilità nella frenata dell’offensiva riformatrice. La campagna elettorale è ancora in corso. Ma una prima riflessione sulla scarsa tenuta della propria maggioranza e del proprio partito, oltre che sull’inconsistenza dei propri alleati, è bene che il Presidente del Consiglio incominci a farla. Perché non sarà il voto del 25 maggio a risolvere le fratture e le resistenze che vengono dall’interno della sua coalizione e dello storico blocco sociale del suo partito. Ma, di sicuro, il voto potrà solo accentuare le tensioni e creare le condizioni per una fase sempre più turbolenta e precaria della legislatura. Non a caso nel Partito Democratico si incomincia a parlare sempre più insistentemente della necessità che Renzi punti alle elezioni anticipate. E Berlusconi, visto il fallimento del Nuovo Centrodestra e dei centristi, rilancia l’ipotesi di larghe intese per le riforme.
Escluso il plebiscito, infatti, gli effetti del voto europeo possono essere o le elezioni anticipate o una nuova versione delle larghe intese!

domenica 27 aprile 2014

25 aprile, la storia immobile

Passano gli anni, ma le commemorazioni del 25 Aprile si ripetono sempre uguali a se stesse. Bandiere, gagliardetti partigiani, canti e rievocazioni radiofoniche in cui le voci dei protagonisti si fanno di anno in anno sempre più fievoli, in un copione che mostra però una struttura immutabile, e la sostanziale parzialità delle ricostruzioni che si ripetono, sempre uguali a se stesse al di là dei lavori degli storici, nella vulgata avvalorata ciclicamente dai mezzi di comunicazione di massa. 
Così uno snodo importantissimo nel processo di affrancamento dell'Italia da un regime totalitario e dalla guerra civile diventa una specie di scoglio inamovibile e insuperabile per la costruzione di una più autentica e condivisa coscienza nazionale: la quale ha visto un contributo importante nell'azione spesso eroica dei non numerosi partecipanti alla Resistenza, ma ha finito per «costringerci» a dimenticare la realtà delle cose: il ruolo determinante degli Alleati, la realtà di un regime liberticida e odioso, certo, colpevole anche di aver voluto una guerra suicida, ma che era stato sostenuto da un'ampia base sociale; e la presenza di una sinistra altrettanto totalitaria, nella quale confluirono in poche settimane moltissimi esponenti della "destra sociale" fascista e repubblichina. Tutte verità dure da contestare, che si è preferito, nelle cerimonie ufficiali, mimetizzare dietro il velario della mitologia resistenziale. Ma così si è in qualche modo impedita una persuasiva elaborazione collettiva di uno dei passaggi più tragici e complessi della nostra storia recente
Il monopolio della verità è sempre nocivo e illiberale. Questo monopolio, che si vuole mantenere in piedi a costo di forzature, di voli retorici e di censure, è in fondo alla base della incapacità della sinistra postcomunista italiana di diventare moderna. Servirà forse per mantenere una sorta di «maggioranza ideologico-culturale» nel Paese, per rivendicare una discutibile «primogenitura» nella costruzione dell'Italia «liberata», per alimentare una sorta di «mito dei migliori». In fondo, la stessa proclamata differenza «antropologica» millantata dalla Sinistra per il suo modo peculiare di concepire la lotta politica trae spunto proprio dal mantenimento di questa tradizione. Ma a che prezzo? Una delle grandi sfide di Renzi – che come è noto appartiene ad una generazione ormai lontana da quelle vicende – sarà proprio quella di offrire l'occasione agli Italiani per elaborare una visione meno imbalsamata della Resistenza e della storia di quegli anni. È una sfida che dovrebbe interessare tutti gli Italiani, ma prima di tutto il suo partito, che proprio per voler mantenere questa sorta di «narrazione selettiva» della verità resta profondamente arretrato.
Marco F. Cavallotti