Powered By Blogger

sabato 24 gennaio 2015

Berlusconi e Renzi stanno mettendo a punto il Partito Unico

Ma l'idea finale quale sarebbe? Quella di costituire una sorta di "partito unico" tra i Pd di marca renziana e i forzisti fedeli nei secoli all'anziano ex presidente del Consiglio? Perché, altrimenti, certe decisioni non si capiscono. Leggi i quotidiani e vieni a sapere che l'opposizione (?) di Forza Italia conferma l'accordo con Renzi accettando, tra l'altro, in tema di riforma elettorale, il premio di lista (e non di schieramento). E, a proposito di elezione del Capo dello Stato, Berlusconi (opposizione) incontra Alfano (ministro e quindi maggioranza) ed insieme decidono di 'bruciare' la candidatura di Antonio Martino, l'unica personalità rimasta ancora credibile per un'area moderata che (tra Fi e Ncd) i sondaggi fanno attestare intorno al 17%. I medesimi sondaggi danno al Pd una percentuale vicina al 36%.
Ma che sta succedendo? Perché Berlusconi intende regalare al Pd il premio di lista e quindi, almeno stando alle attuali intenzioni di voto, il trionfo al partito dell'ex sindaco di Firenze? Quali e quante sono le contropartite per queste scelte che tanto odorano di apparente masochismo ?  

mercoledì 21 gennaio 2015

Che cosa e' successo al franco svizzero?

La Banca Svizzera ha deciso di sganciare la sua moneta dal cambio massimo di 1,20chf per un euro, corrispondente a 0,83€ per un chf. Quel limite era stato imposto perché l'euro è stato più volte in pericolo e parecchie persone, per salvaguardare il proprio capitale, lo convertivano in franchi svizzeri. Ma se molta gente chiede una valuta, la legge della domanda e dell'offerta ne fa salire il valore. Ciò non costituisce quel motivo di soddisfazione e prestigio che tanti credono. Una quotazione molto alta rende artificialmente cari, all'estero, i beni e i servizi denominati in quella moneta, anche se in compenso rende artificialmente a buon mercato i beni e i servizi importati. L'ideale è, come sempre, l'equilibrio.
Nel caso particolare, la grande richiesta di franchi ha probabilmente avuto l'effetto di creare uno sbilancio non del tutto collegato all'economia del Paese. Infatti l'Europa e il mondo richiedevano quella moneta in sé e per sé, come bene rifugio, non come risultato delle transazioni commerciali.  La Svizzera pose un freno all'ipervalutazione del franco e disse più o meno: il franco deve valere al massimo 0,83 centesimi di euro. Se la quotazione supererà questo livello, la nostra banca centrale comprerà euro e offrirà franchi (di cui ha una disponibilità infinita, dal momento che li stampa) fino a riportare la quotazione a quella cifra. E in effetti, nel corso del tempo, per contenere la quotazione del franco, la Svizzera ha comprato un bel po' di euro.
Va detto che l'operazione è riuscita perché contraria ai desideri normali degli Stati. Di solito, se i mercati perdono fiducia in una data moneta, il governo di quel Paese cerca di sostenerne il corso. Spesso senza successo. Invece è facile imporre ad una moneta un valore massimo,  perché in fondo è come se un supermercato vendesse la merce ad un prezzo minore di quello che la gente sarebbe disposta a pagare. E tuttavia l'imposizione di un limite alla fluttuazione naturale è un errore. Infatti, se lo scarto dalla quotazione che sarebbe naturale diviene troppo grande, la correzione è inevitabile, ed è tanto più brutale, quanto più, prima, ci si è allontanati dal vero cambio.
La Banca Centrale Svizzera ha avuto una precisa ragione per fare la sua mossa proprio in questo momento. Col Quantitative Easing (QE), la Banca Centrale Europea si appresta ad acquistare notevoli quantità di titoli di Stato dei Paesi in difficoltà. Lo farà con denaro creato per l'occasione, e ciò provocherà una certa inflazione. Senza lo sganciamento dalla quotazione massima consentita, questa inflazione avrebbe reso ancora più appetibile il franco svizzero a 0,83€. Già all'annuncio di una data precisa, per il QE, per mantenere il potere d'acquisto del proprio capitale, la gente si sarebbe precipitata ad accaparrarsi i franchi: e ciò avrebbe reso assurda - per la Svizzera - l'impresa di continuare a vendere franchi a 0,83€, mentre il mercato avrebbe valutato  il franco (per  ipotesi) a 0.95 o 1,05€ (oggi 1chf=1€). Con l'aggravante di veder presto svalutate le enormi quantità di euro comprate nel frattempo. Sarebbe stata un'operazione così gravemente rovinosa e insostenibile, da essere impensabile. Zurigo all'improvviso, e mentre nessuno se l'aspettava, ha prevenuto il problema, dichiarando che non interverrà più per contenere la quotazione della sua valuta. Naturalmente la decisione ha provocato un terremoto, ma la Svizzera non avrebbe potuto fare diversamente.
Quali le conseguenze dell'attuale decisione? In primo luogo, le imprese esportatrici svizzere saranno obbligate a vendere i loro prodotti al venti per cento più cari di prima: e questo spiega il crollo della Borsa di Zurigo. Coloro che hanno denaro denominato in franchi svizzeri si ritroveranno ad avere guadagnato un gruzzoletto senza il minimo sforzo. La Svizzera vedrà svalutati gli euro che ha in portafoglio, a causa del QE, ma in compenso vedrà rivalutata la propria moneta rispetto a tutte le monete del mondo. E comunque il fenomeno ha un significato più generale. Molti aspettano il QE come qualcosa che dovrebbe salvarci, mentre in realtà è soltanto una manovra finanziaria che forse aiuterà l'economia, certamente provocherà inflazione. Gli svizzeri se ne mostrano convintissimi.
Mettere il dito nell'economia, da parte dei governi, è praticamente sempre un errore. Zurigo in passato ha voluto evitare un'eccessiva valutazione del franco rispetto all'euro - poniamo del 10% - ed ora, improvvisamente, ne deve accettare una molto più grande (siamo al 20%). Non sarebbe stato meglio lasciare che a questo aggiustamento dei cambi si arrivasse piano piano, secondo le indicazioni dei cambi liberi?
Purtroppo anche i governanti svizzeri si erano mostrati convinti di saperla più lunga del libero mercato.
Gianni Pardo

domenica 11 gennaio 2015

Il buonismo che ci acceca

Corriere della Sera - Il miserevole spettacolo che l’Italia politica e giornalistica sta dando sulla strage di Parigi e il suo seguito è figlio allo stesso tempo — salvo minoritarie e lodevoli eccezioni — di carenza culturale e di stupidità politica. Entrambe sono la retorica supplenza della nostra identità ambigua e compromissoria. Perciò, in nome della convivenza con l’Islam, auspichiamo di fondare un nuovo Illuminismo, non sapendo palesemente che ce n’è già stato uno sul quale abbiamo fondato la nostra civilisation, mentre sono loro che non lo hanno ancora fatto e che dovrebbero farlo.
Ci si è lamentati che le forze dell’ordine francesi non fossero riuscite a catturare rapidamente i due lombrosiani criminali artefici della strage parigina. Ignoriamo, o fingiamo di ignorare, che ciò era dovuto al fatto che il cosiddetto estremismo islamico naviga nel mare delle collusioni e delle complicità con l’islamismo che chiamiamo ostinatamente moderato. Che moderato non è e che si è profondamente radicato nel continente con l’immigrazione.

È stupefacente che a non capirlo sia proprio quella stessa sinistra che, da noi, aveva felicemente contribuito a isolare il terrorismo delle Brigate rosse prendendo realisticamente atto che esso navigava nel mare delle complicità antiliberali e anticapitalistiche generate dal «lessico familiare» comunista. L’ignoranza che, da noi, circonda il caso francese rivela l’incapacità culturale, non solo della sinistra, di capire che cosa è stata, in Occidente, l’uscita dal Medioevo, la separazione della politica dalla religione, la cancellazione del dominio della fede religiosa sulla politica e la nascita dello Stato moderno; incapacità di capire che si accompagna a quella di prendere atto, per converso, che l’Islamismo è ancora immerso nel Medioevo ed è soprattutto incapace di uscirne.
Le patetiche invocazioni al dialogo, alla reciproca comprensione che si elevano da ogni chiacchierata televisiva, da ogni articolo di giornale, sono figlie di un buonismo retorico, politicamente corretto, incapace di guardare alla «realtà effettuale» con onestà intellettuale. Non stiamo dando prova neppure approssimativa di essere gli eredi di Machiavelli, bensì, all’opposto, riveliamo di essere i velleitari nipotini di Brancaleone da Norcia, lo strampalato protagonista di una saga cinematografica. 
Il miserevole spettacolo che diamo è anche la conseguenza dell’insipienza culturale di una sinistra che — perduto il rapporto organico con l’Unione sovietica, spazzata via dalle «dure repliche della storia» — non sa, o non vuole, darsi una identità. La nostra insipienza politica è generata dall’incultura. 
Non abbiamo perso l’occasione, anche questa volta, di mostrare d’essere un Paese da Terzo Mondo al quale, come non bastasse, un Papa pauperista detta la linea fra l’ottuso entusiasmo di fedeli che mostrano di credere ben poco nel messaggio di Cristo e molto più di essere i sudditi di una gerarchia che assomiglia a una corporazione o a un partito. Avevo definito l’Islam, in un precedente articolo, una teocrazia, aggiungendo che qualsiasi tentativo, da parte nostra, di trovare con esso una qualche forma di conciliazione si sarebbe rivelato, a causa della contraddizione logica e storica, illusorio.
Che piaccia o no al buonismo, siamo diversi. È inutile nascondersi dietro il dito di un universalismo di facciata che non regge alla prova della logica e della storia. Siamo anche migliori, avendo noi conosciuto, e praticato da alcuni secoli — a differenza di loro che sono, e vogliono restare, una teocrazia — la separazione della religione dalla politica. Pur con tutti i nostri limiti, pratichiamo l’insegnamento dell’Illuminismo e siamo entrati da tempo nella Modernità, mentre loro ne sono ancora fuori e non danno neppure segno di volerci entrare
Viviamo in regimi che praticano la tolleranza nei confronti di chi non la pensa allo stesso nostro modo o professa una religione diversa dalla nostra
siamo società che, per dirla con Isaiah Berlin, professano e rispettano la «pluralità di valori». Chi non la pensa come noi, non è considerato e trattato come un nemico. 
Loro ci considerano «infedeli» rispetto alle loro convinzioni e alla loro prassi; un nemico da sterminare come hanno fatto nei confronti della redazione del settimanale satirico parigino il cui torto era di aver fatto dell’ironia sul loro credo
Per noi, gli islamici sono gente che la pensa in un modo diverso. Da figlio del Cristianesimo e del liberalismo mi chiedo come si possano uccidere uomini e donne in nome del proprio dio
Il criminale che torna sui suoi passi per finire un agente ferito e a terra è una bestia, con tutto il rispetto per gli animali. 
Le nostre reciproche culture sono inconciliabili ed è persino ridicolo auspicare che ci si possa incontrare almeno a metà strada. Dovremo convivere, sapendo che ci vorrebbero colonizzare e dominare attraverso quel «cavallo di Troia» che è l’immigrazione e che noi stessi incoraggiamo. 
Lo ripeto. Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro
Sempre che vogliano convivere pacificamente. Cosa di cui dubito.

sabato 3 gennaio 2015

Il ballo di Matteo non basta all'Italia



 Ven, 02/01/2015 


Ci vuole ritmo per ballare la samba più che per sollevare l'Italia. Lo dico a Matteo Renzi, protagonista assoluto dell'anno appena finito. La samba andava bene per il trenino di fine anno ma non per muovere la locomotiva Italia. 


Bilancio di Capodanno dell'one man show al governo: Renzi è stato il brillante surrogato di un premier vero, la protesi smagliante di quel che ci vorrebbe all'Italia. 


Ha mimato alla perfezione un nuovo risorgimento, ha simulato la rinascita italiana, come fanno i bambini quando giocano a imitarei grandi.

Ora ci vorrebbe qualcuno che facesse sul serio quel che Renzi dice ogni giorno, qualcuno che uscisse dallo schermo, dalle gag, dallo show e realizzasse nella realtà quel che Matteo enuncia, mima e sceneggia. 
Intendiamoci, meglio lui di chi l'ha preceduto, meglio simulare un trenino festoso che un funerale. Renzi si circonda di cloni renziloqui, punta a sollevare il morale, lancia coriandoli e stelle filanti, annuncia cannonate e spara cerbottane.
Figo, ma l'Italia avrebbe bisogno di un premier vero e di Trenta Tiranni coi fiocchi, con ampio mandato e forti poteri decisionali in ciascun settore vitale: nell'economia e nel lavoro, nella scuola e nella ricerca, nei trasporti e nell'ambiente, nella sanità e nelle opere pubbliche, e così via. 
Libertà d'opinione e di critica, ma trenta dittature a tempo determinato per mutare radicalmente lo Stato e il Paese. 
È quel che sognano in tanti e confessano in pochi. 
Matteo è un aperitivo, ha aperto l'appetito di governo vero.








 

lunedì 29 dicembre 2014

La catastrofe e' vicina?

L'attuale crisi risale al 2008, sono dunque già passati sei anni. I principali governi della zona euro sembrano in una posizione d'attesa, come se la crisi dovesse risolversi da sé. Nel 1950 la “Borsalino” fabbricava ottimi cappelli. Dal momento che tutti gli uomini avevano una testa e portavano un cappello, nessuna crisi era prevedibile. E tuttavia l'inverosimile accadde: la moda cambiò radicalmente e si passò da "tutti gli uomini col cappello" a "tutti senza cappello". Nei cinquant'anni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale, il mondo economico europeo ha creduto a un’eterna stabilità. Forti erano le convinzioni. La prima è stata quella di un’inarrestabile crescita: la ricchezza non può che aumentare, compensando, con l'incremento del gettito fiscale, le spese statali azzardate, il debito pubblico accumulato e gli errori di gestione. La realtà ha dimostrato che non è così, ma la convinzione è tanto forte che, mentre abbiamo sotto gli occhi un periodo in cui non si cresce e l'Italia va addirittura indietro, si parla di "crescita zero".  Sino a pochi anni fa si aveva la convinzione che vivessimo in un mondo eternamente stabile e che l'Europa del 1995, ad esempio, fosse la stessa di mezzo secolo prima. Invece in tutto questo tempo il mondo è talmente cambiato che il modello produttivo europeo non è più adeguato. Prima il predominio tecnologico europeo e nordamericano è stato indubbio e incontestabile, poi la concorrenza degli stati asiatici è stata tale da metterci in crisi. Prima la natalità europea era notevole, e c'erano più bambini che pensionati, poi il peso dei vecchi (per le pensioni e per l'assistenza medica) è divenuto schiacciante. Prima lo Stato ha largheggiato, in tutte le direzioni, pensando che il futuro avrebbe pagato i debiti del passato, ora siamo al momento in cui quel futuro è arrivato e ci si accorge di non avere di che pagare. Certo, il cambiamento non è né chiaro né facile. Come risolvere il problema dell'enorme debito pubblico, che potrebbe risolversi in una pioggia di fuoco? Come convincere tanti milioni di cittadini che, per sopravvivere nel mondo com'è, devono rassegnarsi a un tenore di vita modesto? Come spiegare a chi fa parte delle varie “caste” che non è scritto da nessuna parte che debbano lavorare meno degli altri e avere più vantaggi degli altri? Ecco perché questa crisi non è congiunturale: è il metodo e il sistema che è totalmente cambiato. Mentre noi fabbricavamo cappelli, il mondo cominciava ad andare a capo scoperto. Il mondo è cambiato del tutto, ma noi continuiamo a sperare che tutto si aggiusti e si rimetta l'orologio indietro. Così non si evita la catastrofe.

domenica 2 novembre 2014

Elezioni dei COMITEs: costo nove milioni di Euro!!!!

 


Lo Stato italiano si sta apprestando a “sprecare” 9milioni di euro per eleggere i nuovi COMITES che saranno votati da una percentuale veramente “esigua” degli italiani all’estero che avranno diritto ala voto. Se nei 20 anni precedenti della loro esistenza i COMITES non sono serviti a nulla, di sicuro non lo saranno anche ora. Non era meglio che il governo italiano avesse destinato questi “nove milioni di euro” per sopperire ad altre esigenze degli italiani all’estero? Nelle case di riposo (in Australia, ma immagino anche in altri paesi dove gli  italiani sono emigrati) ci sono migliaia di italiani che debbono essere urgentemente aiutati. Nessuno dei cosiddetti “organi rappresentativi degli italiani all’estero”, ossia COMITES, CGIE, Patronati, FILEF, Deputati eletti all’estero e altri mai si sono interessati di loro. Non sarebbe ora di essere riconoscenti con coloro che sono stati i veri artefici dello sviluppo economico mondiale?

Sciopero economico, sciopero politico

  

Lo sciopero è una forma di pressione con la quale i lavoratori si astengono dalle loro prestazioni impedendo all'impresa di fare profitti mentre le spese fisse continuano a correre. L'intento è quello di forzare il datore di lavoro a concedere almeno una parte di ciò che è richiesto. Lo sciopero, dunque, ha un senso se la richiesta dei lavoratori ha la possibilità di essere accolta. Se per esempio il salario è scarso e i profitti dell'impresa sono alti, lo sciopero avra’ buone possibilità di successo. Lo sciopero invece non ha senso se l'impresa è in gravi difficoltà economiche perché accelererebbe il fallimento, con conseguente perdita di tutti i posti di lavoro. Talvolta, quando si tratta di grandi imprese, l'economia si intreccia con la politica. Se un macellaio chiude e licenzia i suoi due addetti, la cosa non commuove nessuno. Anche se le famiglie dei due addetti affronteranno poi la stessa tragedia che affronterebbero centinaia di altri operai dipendenti di una media/grande impresa. La cosa fa la differenza, dal punto di vista dell'opinione pubblica. Quando i lavoratori di una grande impresa sono migliaia, e sono sostenuti da quegli stessi sindacati che non si sono “mai interessati” per gli operai del macellaio, sono in grado di occupare la fabbrica, di fare manifestazioni di piazza, di avere protettori in Parlamento, di creare problemi d'ordine pubblico e d'immagine per il governo: lo sciopero e’ esclusivamente politico. Economicamente, se un'impresa intende chiudere, è perche’ non ha più convenienza a tenere aperta la fabbrica. Lo sciopero “politico” non cerca dunque d'indurre il datore di lavoro a fare qualcosa, perché non si può minacciare nulla a chi è pronto a chiudere l'impresa: esso chiede puramente e semplicemente l'intervento dello Stato. Questo può agire “sovvenzionando” l'impresa in crisi (a spese dei contribuenti); può nazionalizzarla (sempre a spese dei contribuenti); può concedere sovvenzioni a fondo perduto (a spese dei contribuenti); può offrire lunghi e generosi sussidi con la cassa integrazione guadagni; può forzare, nella misura del possibile, l'impresa a non chiudere, magari offrendole sgravi fiscali o altri vantaggi economici (sempre a spese dei contribuenti). Certo non può cambiare la realtà economica. Questo genere di soluzioni ha condotto a costosi disastri imprenditoriali come l'Alitalia, la cui flotta aerea vola pur essendo tecnicamente fallita. Se un azienda e’ morta non si puo’ risuscitarla. Lo sciopero economico tende ad ottenere migliori condizioni di lavoro; lo sciopero politico è un'arma dei lavoratori contro lo Stato affinché, a spese dell'erario, faccia ottenere ad alcuni privilegiati dei vantaggi antieconomici. Privilegiati non perché lavorare sia un privilegio, ma perché lo Stato non interviene a favore di tutti. Nelle piccole imprese non solo i lavoratori non sono protetti dallo Stato, ma rischiano, se protestano, di essere licenziati. Nel caso della ThyssenKrupp di Terni bisogna stabilire se lo sciopero sia economico o politico. Nel primo caso ogni persona per bene dovrebbe sostenerlo; nel secondo caso, pur essendo disposti a piangere con i lavoratori licenziati, bisognerebbe ricordare che la loro tragedia è anche quella di migliaia di altri che nessuno soccorre. I disoccupati in Italia sono più di tre milioni. O lo Stato aiuta tutti oppure, secondo giustizia, e secondo l'art. 3 della Costituzione, dichiara che non può intervenire solo per alcuni. Sono ragioni di economia e di diritto. La politica non puo’ farci nulla.