lunedì 1 aprile 2013

Bersani ha fatto "harakiri".

Il 28 febbraio scrissi che  il Pd aveva vinto ma non avrebbe potuto governare. Il 28 marzo ho scritto che se Bersani falliva nel suo tentativo di formare un governo molto probabilmente sarebbe “scomparso dalla scena politica”. Rinunciare all’incarico per “manifesta impossibilità” a raccogliere i voti necessari a creare al suo governo, oppure andare alle elezioni anticipate costituisce per Bersani “la fine della sua leadership”, a cui seguirebbe un rapido tramonto “fino alla scomparsa definitiva”. Bersani era morto in partenza come avevano capito tutti tranne lui, che ha commesso lo stesso errore di Monti: per “vanagloria personale” ha perso due volte. Non ha ottenuto l’incarico e ora, come Monti, “non conta più niente”. Essendo Bersani un leader bruciato deve accettare gli appelli al senso di responsabilità del presidente della Repubblica. Anche il Pd dovrà accettare, sapendo che comunque alle prossime elezioni Bersani non sarà leader e dunque il nuovo capo (Renzi?) potrà presentarsi agli elettori “pulito”. Pierluigi Bersani non ha solo perso tempo: ha “avvelenato i pozzi”. Era evidente già la sera del 25 febbraio che il Pd e il Pdl, i due protagonisti della seconda Repubblica, avevano entrambe perso elettori ed elezioni, ma un governo all’Italia poteva darsi solo con un loro accordo. Forme e definizioni da trovarsi, ma quello era quello che si doveva fare. Bersani, circondato da un gruppetto metà “fanatico” e metà “traumatizzato” per la “non vittoria”, ha adottato una condotta “dissennata” corteggiando i “grillini” e “tentando” anche la Lega, ma la sua “strategia” non ha avuto successo.  Bersani ha voluto “negare la sconfitta” elettorale e mantenere unito il partito, riuscendo a trasformarla in “disfatta” e a spaccare il Pd. Infatti, non solo Bersani ha escluso l’unico governo possibile, che egli stesso avrebbe potuto guidare, ma l’ha fatto in modo tale da renderlo impossibile dopo il suo tentativo. Chi potrebbe presiederlo? Non certo un altro esponente del Pd. Ipotizziamo che Napolitano riesca per la seconda volta fare il ”suo governo”. A questo punto, però, il Pd non è più in grado neanche di votare un governo del presidente, perché ciò provocherebbe una rottura dei suoi “storditi seguaci”.  E allora? Allora per formare un governo che in un paio d’anni faccia le riforme necessaria occorre che il Pd si liberi di Bersani e dei “comunisti” oltranzisti che lo circonda, altrimenti le elezioni sono dietro l’angolo. Dopo le quali si farà il governo di “grande coalizione” con una sinistra che avrà avuto bisogno della confermata sconfitta elettorale per poterlo accettare.

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