- Paolo Guzzanti
- Giovedì, 29 Agosto 2013
Portavo come prova l'incauta e a suo modo eroica confessione di Franco
Evangelisti, che spiegò per filo e per segno nel 1980 quel che succedeva, ma che
nessuno voleva vedere.
Poi ci fu il take over, la presa del potere reale da parte di un segmento di
magistratura, che però non agì da solo perché creò una sintonia operativa con un
simmetrico segmento del giornalismo. Un nuovo giornalismo che si sparse come la
gramigna soffocando e sostituendo il nostro vecchio e onesto giornalismo
d'inchiesta. Il nuovo giornalismo aveva altre caratteristiche. La prima è che
non fa mai scoop propri, ma li fa sempre e soltanto sulle carte giudiziarie
passate sottobanco. Il bravo giornalista diventa un esportatore di verbali, è un
cane da riporto delle intercettazioni specialmente quando sono illegali (so di
che parlo perché sono stato illegalmente intercettato e subito diffuso dal nuovo
giornalismo).
Fu così portata a maturazione un'operazione di genere nuovo in politica,
equivalente per molti versi alla presa del potere attraverso forme di violenza,
cioè al colpo di Stato. Curzio Malaparte in Tecnica del colpo di Stato
spiegava nel 1931 come le rivoluzioni di per sé siano incapaci di prendere
il potere, se manca il meccanismo del colpo di Stato. Lenin porta le masse nelle
strade, ma non prende il Palazzo d'Inverno. Il Palazzo d'Inverno lo prende
Trotsky con una ventina di armati con cui entra, taglia le gole, blocca i
telefoni, distrugge le comunicazioni, liquida le guardie.
Da noi non c'è stato un colpo di Stato in senso classico, ma una forma
sofisticatissima di presa del potere attraverso il combinato disposto formato
dalla sintonia fra alcuni giornali e giornalisti e alcuni magistrati.
Io appartengo alla generazione di vecchi giornalisti che quando cercavano e
trovavano lo scoop – l'intervista che fa cadere un ministro, spiegare un mistero
irrisolto – si sforzavano di dare una descrizione di una realtà che attendeva di
essere raccontata. Quando Giampaolo Pansa affondava gli stivali nel fango del
Vajont e descriveva la catastrofe dall'altezza della melma, faceva quel genere
di giornalismo. Così erano (eravamo) allora i cronisti, questo chiedevano i
direttori, di questo si compiacevano gli editori vedendo il loro prodotto
venduto per la qualità. Le divisioni politiche e le faziosità ci sono sempre
state, ma quel che accadde a partire dall'inizio degli anni Novanta costituisce
una mutazione progressiva e una deformazione caricaturale del giornalismo, già
agonizzante per la nascita della cronaca in streaming e del telefonino.
Ha ancora ragione Ostellino quando parla di quei direttori di giornale che
diventano commissari e trasmigrano da una testata all'altra sorvegliando
l'attuazione della linea politica. Ed è fuori di dubbio che Berlusconi, fin da
subito, anzi da un bel po' prima che si desse alla politica, era l'obiettivo: il
cinghialone numero due, da abbattere in continuità con l'abbattimento di Craxi.
Ecco dunque che la natura stessa del giornalista che conta subisce una
mutazione. Il suo talento è misurato non dall'intraprendenza e dalla sua
autonomia, ma dalle fotocopie giudiziarie che crescono nelle sue tasche.
Alcuni magistrati si trasformano in feudatari circondati da giornalisti
affamati amici che li lusingano, pronti a disporre su loro istruzione alcune
bombe a orologeria. Il lettore non avrà difficoltà a immaginare qualche nome che
io però non faccio, perché si tratta di gente che usa la querela come nel West
si usava la Colt e vince tutte le cause dissanguando chiunque osi illuminarlo
con un raggio non conformista.
Un grande editore mi ha raccontato davanti al registratore che la star di una
famosa Procura si era ficcata in testa che una star del giornalismo (che
lavorava per il grande editore che me lo raccontava) possedesse delle foto
compromettenti di Berlusconi durante le cene ad Arcore. La star della procura
era furiosa perché convinta che la star del giornalismo con cui era in rapporti
strettissimi, le avesse negato l'ambito trofeo che considerava dovuto. La foto
non esisteva, la star del giornalismo non le aveva nascosto nulla, ma
l'intreccio, la commistione erano talmente inestricabili e patologici e isterici
da impressionare persino quel grande editore.
Dietro il nuovo giornalismo fatto d'archivi – di cui è certamente campione
Marco Travaglio e questo è anche un suo merito – viaggia l'intendenza del
giornalismo moralista, d'invettiva, quello che con autorevolezza autoreferente
manda al confino i matti liberi liberali e anarchici dopo averli marchiati con
il «cono d'ombra» (un'invenzione sinistra e felice del fondatore di Repubblica)
e crea di fatto un'antropologia, una fattoria degli animali in cui – di nuovo,
sulle orme di Orwell – i maiali sono sì uguali, ma molto più uguali degli
altri.
Quel giornalismo, come genere e come tecnica, come abilità e come potenza
politica e propagandistica, è totalmente sconosciuto al campo opposto, quello
che per comodità possiamo anche chiamare «berlusconiano», che si è sempre
lasciato massacrare e mettere al bando, senza trovare mai una linea di contrasto
capace di difendersi e contrattaccare ad armi pari.
In questo modo, più di mezza Italia è stata delegittimata come canagliesca e
cafona, rozza e torbida, secondo il comandamento che la vuole dominata dalla
«pancia»; mentre dall'altra parte, nel mondo dei buoni, omologati dai magistrati
e dai giornalisti che esercitano il potere di fatto, si muovono folle virtuose
che sembrano i nuovi Hare Krishna coi loro mantra.
Il giornalismo moralista è un'altra novità: fino a vent'anni fa noi
giornalisti raccontavamo i fatti, poi sono arrivati i predicatori con i loro
carri, le pozioni, le trasmigrazioni televisive sulle reti omologhe e analoghe
più che analogiche e questa seconda novità ha chiuso la tenaglia: magistrati che
nutrono giornalisti assicurandone la fama e ricevendone fama (doppio rapporto
referenziale) accompagnando ed esaltando inquisizioni, creando eroi e mostri
anche al di là di quanto il mondo reale suggerirebbe e allevando letteralmente
con il loro biberon una, e forse ormai due generazioni di italiani immemori,
esentati dal contatto diretto con la realtà perché il sistema appena descritto
sostituisce perfettamente la realtà, o la corregge come un barbiere: sfumature
basse, satira omologata, invettiva del calibro d'ordinanza e il gioco è fatto.
Tutto ciò, e molto di più, è accaduto negli ultimi vent'anni, quelli della
lobotomia, una psicochirurgia che con un bisturi sottilissimo disabilita una
parte del cervello.
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