Venerdì, 13 Settembre 2013
Il signor Torresi era un uomo fortunato: buon lavoro, moglie affettuosa,
figli beneducati e di successo. Aveva soltanto un piccolo cruccio, non grave ma
irritante come una puntura di zanzara. Nella sua cittadina c’erano molti Torrisi
e per questo, quando un conoscente l’incontrava, capitava spesso che lo
salutasse sorridendo: “Buongiorno, signor Torrisi!”. “Buongiorno a lei. Ma mi
chiamo Torresi”. “Mi scusi, signor Torrisi”. “Torresi”. “Torresi, Torresi,
giusto”. Ma dopo qualche metro, ecco un altro conoscente: “Buongiorno signor
Torrisi”. “Torresi”. “Come ha detto?”
Il poveretto si rassegnò. Si fece fare una targhetta come quella che portano
i medici in ospedale, ci fece scrivere sopra ben chiaro “Torresi” e se l’appuntò
sul petto. Poi uscì di casa. “Buongiorno, signor Torrisi”. “Buongiorno: ma
guardi qui”. “Che c’è?” “C’è scritto Torresi. Mi chiamo Torresi”. E il poveretto
cominciò a sognare di cambiare cognomen.
Lo stesso quando si parla del nostro Paese. Una persona ragionevole si
accorge di dire spesso le stesse cose e si chiede se non siano le prime tracce
di Alzheimer. Poi però si accorge che sono gli altri che continuano a sostenere
instancabilmente le stesse cose sbagliate. E allora che fare, cercare di
cambiare cognome, andarsene dall’Italia?
Una delle manie più correnti è quella di confondere le categorie: cioè di non
distinguere politica, morale, economia, religione, diritto. Si vogliono imporre
all’economia le norme della morale, alla politica le norme del diritto, al
diritto le norme della religione, alla religion i pregiudizi della pubblica
opinione, in un groviglio inestricabile. La gente non vuole capire. Ad esempio,
che governare la nazione è compito della politica, non del diritto. La gente non
vuole capire che l’economia è totalmente sorda alle regole dell’etica: nessuno
va a comprare le cose dove costano di più solo perché il venditore lo merita
moralmente. Nessun giudice può imporre ad un’impresa di operare in perdita,
perché chi opera in perdita fallisce. E non parliamo della distinzione fra
morale e politica. Ovvietà? Ma sono ovvietà che si ha un bel ripetere. Il
prossimo che incontreremo ci dirà con perfetta buona coscienza: “Buongiorno,
signor Torrisi!”
L’ultimo caso è quello della famiglia Riva che, in seguito all’ulteriore
sequestro di quasi un miliardo, ha chiuso tutte le sue imprese mettendo sul
lastrico 1.400 o più lavoratori. E al riguardo ecco i pregiudizi in
conflitto.
1) Se l’impresa è inquinante va chiusa e se ha inquinato deve pagare i danni.
Per garantirlo sequestreremo tutto ai proprietari. I magistrati devono
proteggere l’ambiente, devono applicare la legge e non guardare in faccia a
nessuno. Peccato siano gli stessi magistrati che per decenni, prima di Mani
Pulite, hanno lasciato che la concussione dei partiti fosse pratica
indiscutibile, universale e alla luce del sole. Ma forse anche il diritto ha le
sue stagioni. E peccato che chi dice “fiat iustitia et pereat mundus” (si faccia
giustizia e perisca il mondo) poi non faccia parte di coloro che periscono. E
qui si tratta di 1.400 dipendenti, per non parlare delle loro famiglie e
dell’indotto.
2) Altro pregiudizio. L’impresa ha responsabilità morali, dunque non può
chiudere e non può licenziare. Peccato che l’economia non si lasci impressionare
da questi presunti obblighi morali. Chi crea un’attività produttiva, dal
negozietto alla società per azioni, non lo fa per creare posti di lavoro ma per
ricavarne profitti. E se la parola “profitti” sembra sconcia, si ricordi che
l’imprenditore è libero di chiudere qui e portare la propria “immoralità”
altrove (Marchionne ci pensa da mesi). Se infine un magistrato spoglia di tutto
i proprietari, non per questo un’industria diventerà sana. E se essa fallisce
non c’è toga di giudice che possa resuscitarla. L’economia non è né morale né
politica né diritto e, come una pianta, prospera solo dove il clima la
favorisce.
3) Lo Stato non deve permettere né l’inquinamento né la chiusura di
un’industria che dà da vivere a tante migliaia di persone. Perfetto. Basta che
lo Stato stipendi i dipendenti, in un modo o nell’altro, ripianando i deficit
dell’impresa. E infatti in passato lo Stato l’ha fatto, magari creando il nostro
famoso debito pubblico. Ma oggi è impossibile. Ed anche se fosse possibile
sarebbe da dementi: infatti è perché in passato l’erario si è caricato di questi
pesi che si è arrivati all’attuale assurda e soffocante pressione fiscale.
Come se ne esce? Non se ne esce. La recessione è inguaribile perché
continuiamo ad applicare idee che conducono alla recessione: ad esempio la
guerra all’imprenditore, che stiamo vincendo. Ma non possiamo pretendere di
ammazzare l’impresa e poi di ritrovarcela viva e attiva come il vampiro dei film
dell’orrore. Nella realtà chi muore è morto e chi perde il lavoro rimane
disoccupato.
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