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venerdì 6 settembre 2013

All'Italia non saranno sufficienti vent'anni di "buon e lungimirante" governo per imboccare la strada giusta per risolvere "probabilmente" l'attuale crisi economica e morale



Da meta’ aprile a quasi tutto maggio di quest’anno sono stato in Italia e ho trascorso il mio tempo viaggiando nelle regioni del centro-nord. Erano due milioni e novecentomila di disoccupati tra i 15 e i 29 anni (ora sono oltre 3milioni).. Venticinque milioni di italiani in situazione di disagio economico, dei quali nove milioni in grave difficoltà. Il potere d’acquisto dell’Euro in Italia e’ sceso del 5%. Imprenditori e operai che si suicidano per disperazione. Gesti di follia criminale nelle periferie e rapine nel triangolo dello shopping di lusso. Prendiamo ad esempio il dramma della disoccupazione giovanile italiana. E’ risaputo che il lavoro non lo crea il “governo” ma “esclusivamente” le imprese artigiane e le industrie che producono beni da vendere sui mercati mondiali. Negli ultimi dieci/quindici anni l’Italia “è stata abbandonata” da migliaia di grandi industrie, medie ed anche piccole, imprese che si sono “delocalizzate” nei Paesi limitrofi come Svizzera, Austria e Slovenia ma, soprattutto, nei Paesi dell’Est Europeo, in Africa, in Cina, in India, in Asia, attratte dai “costi della manodopera inferiori” a quelli italiani del 70%-80% e da “condizioni fiscali” disegnate per favorire il loro insediamento. Dove si sono “delocalizzati” gli investitori possono conseguire forti margini di profitto e producono, scarpe, tessili, capi di abbigliamento, componenti meccanici, auto, motori, componenti in gomma, plastica, resine, fibre, avvolgimenti elettrici, interruttori, trasformatori, computers, componenti elettronici, stampanti, elettrodomestici, freni, frizioni, carburatori, pompe idrauliche, tutti gli accessori dell’indotto auto, veicoli industriali, telefonia, elettrodomestici ecc. ecc. Le regioni industriali della “pianura meccanica/elettronica” tra Torino e Ivrea, tra Torino e Biella, la valle del Po da Torino a Venezia, il Nord Est veneto, la Toscana, l’Emilia Romagna e le Marche e tutta la costa adriatica sono oggi un “deserto di capannoni abbandonati”. Piazzali vuoti invasi dalle erbacce e dai rifiuti, vetrate spaccate dai vandali. Un patrimonio in rovina. Uno scenario simile al dopoguerra con le case bombardate: ora sembrano i capannoni industriali. La tecnologia, il design, la capacità tecnica operativa, la “genialità imprenditoriale e creativa italiana”, il “Made in Italy” danno oggi lavoro a milioni di operai nell’Est Europeo, Africa, India e Asia. Gli imprenditori “delocalizzati” si arricchiscono e investono i loro margini “detassati” fuori dall’Italia. L’Italia perde lavoro, competenze, know how, tecnologie produttive, in un processo di “decadenza” e “impoverimento irreversibile”. I sindacati italiani continuano a scioperare e protestano, gridano che bisogna portare il lavoro al centro dell’agenda governativa, quando per anni hanno protestato e scioperato e “provocato il trasferimento del lavoro” e delle imprese verso l’Est Europeo, la Cina, l’Africa, l’India e l’Asia. La politica condanna il malcostume della delocalizzazione selvaggia dopo aver massacrato per decenni le imprese con il “soffocante peso burocratico e fiscale”, senza tutelarle contro la “grassazione” armata di mafia, camorra, ndrangheta, sacra corona unita e usurai che, con “perversa sinergia”, hanno innescato la “desertificazione industriale” che e’ la causa principale della attuale disoccupazione giovanile e non. Una situazione di questo genere richiede una “visione e strategia” vigorosa del tutto innovativa. Anzi, non si tratta di visione e strategia, si tratta di un “radicale sovvertimento” dei criteri che regolano il rapporto tra Stato, Lavoratori e Imprese. Non sono in grado di descrivere quali siano le caratteristiche, i dettagli normativi, le fasi di questa “rivoluzione” se non in termini molto generali: non è il mio mestiere. In sintesi. E’ necessario che l’investimento di un’impresa industriale in Italia diventi di nuovo vantaggioso. Chi investe per produrre deve poter vedere un margine di guadagno che compensi rischio, impegno, professionalità e capitale. È necessario che l’azione sindacale tuteli il lavoratore”, ma sia coerente con le esigenze di competitività dell’impresa sui mercati. È necessario che il peso fiscale e burocratico “non uccida l’impresa” prima ancora della nascita. È necessario che i “servizi infrastrutturali” sul territorio e le “reti” siano all’avanguardia della funzionalità e della tecnologia. Tutto il contrario nell’attuale sistema. E’ necessario disegnare e definire il profilo di un capitalismo e di un sindacalismo “diverso” da quello che ha provocato l’attuale “fallimento”. L’attuale governo ha una grande responsabilità e opportunità politica. Occorre una svolta “epocale”. Invece i sindacati invocano misure repressive per bloccare il fiume travolgente della delocalizzazione, e gli industriali stanno richiedendo di mantenere privilegi che gli permettano l’evasione fiscale. Due logiche che sono le premesse di un “sicuro fallimento totale e definitivo”. È il compito della “politica” quello di individuare strategie “diverse”, complesse, rivoluzionarie e nuove. E’ compito della politica ricostruire una dinamica dove “lavoratori tutelati” possano lavorare in aziende capaci di operare “con profitti e margini d’impresa competitivi” con quelli possibili nei regimi di privilegio fiscale e di basso costo della manodopera. Per molti aspetti non si tratta di un problema esclusivamente italiano: è l’Europa intera, con i suoi organismi centrali, politici e finanziari, che deve intervenire per tutelare il suo mercato da 400 milioni di persone. Proprio lo stesso mercato che acquista prodotti delle loro industrie che si sono “delocalizzate”. Una strategia che richiede azione coordinata con un sindacato capace di vedere oltre la rivendicazione corporativa, con un’impresa capace di uscire dalla roccaforte del privilegio immediato, un governo capace di vedere la sua responsabilità d’iniziativa invece di “galleggiare” nella continua negoziazione fra le varie “clientele”. C’e’ bisogno di una nuova generazione di sindacalisti, di una nuova generazione d’impresari, di una nuova classe politica che non sia composta da “nominati” capaci solo di strillare a comando e, intanto, “saccheggiano” l’Italia. Certamente in futuro non può continuare la sistematica “stupidità reazionaria” dell’intransigenza dei sindacati, della “conservazione suicida” di privilegi e dei diritti negati ai cittadini. Purtroppo l’Italia e’ piena di faziosi, ottusi, cialtroni della peggiore specie, basta  leggere i vari commenti lasciati sui media e sul web. Viene la nausea per lo squallore e la poca intelligenza che da essi emanano. Confesso che certe volte mi auspico che questa Italia prenda in fretta le legnate che si merita. So che pagheranno anche le persone perbene, ma questa è la realtà e il prezzo da pagare collettivamente perché dopo si possa effettivamente sapere quello che gli italiani vogliono veramente essere. Questo è il destino dell’Italia per non avere saputo esprimere “una classe politica decente”. La sfida e’ di “creare speranza” agli “esodati” e alla generazione dei ventenni/trentenni/quarantenni che oggi sta entrando nel mondo reale, mentre muoiono “disperati e soli” gli ultimi novantenni che hanno combattuto, “perso e vinto”, una guerra civile che non meritava questo “risultato fallimentare”.


 

 

 

 
 
 
 
 

 

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