di Maurizio Di Lucchio
26 settembre 2013
Andare all’estero non per trovare lavoro ma per crearlo. Ecco l’ultima direzione che ha preso la fuga dei cervelli made in Italy. Con un po’ di fantasia si potrebbe definirla “delocalizzazione prenatale”: prima ancora di aprire un’impresa in Italia, molti giovani con idee imprenditoriali fanno la valigia e vanno a fondare startup oltre confine.
I motivi principali che spingono a cercare gloria fuori Italia sono la facilità nell’ottenere finanziamenti, gli sgravi fiscali e, soprattutto, una cultura di impresa più preparata ad accogliere aziende attive in ambito digitale e ad alto potenziale di crescita. Le destinazioni più frequenti? I più noti paradisi per startup, come la Silicon Valley negli Usa e Israele, creano agli europei qualche grattacapo dal punto di vista burocratico e giuridico. Così, le mete preferite dagli startupper tricolori sono Londra, Berlino e le altre capitali del Nord Europa.
Nella capitale britannica è sbarcata per esempio la veronese Sarah Raniero, ingegnere gestionale di 26 anni, per fondare insieme alla madre e alla sorella WhereInFair, un sito di servizio per le imprese che partecipano alle fiere.
«Abbiamo scelto questa città – racconta la giovane imprenditrice – perché la tassazione sulle imprese è bassa e l’ambiente è un concentrato di innovazione: East London, l’area in cui ha sede l’incubatore che ci ospita, Google Campus, è pieno di imprenditori da tutto il mondo, coworking ed eventi in cui far nascere idee e collaborazioni».Creare la compagnia è stato semplice. «A noi, con il metodo tradizionale, sono bastate due settimane», continua la fondatrice e ceo di WhereInFair. «Ma si può fare anche tutto online: il costo va da 17 a 200 sterline. E non c’è nessun notaio da pagare».
Londra però non è il capolinea: la società è stata selezionata per un programma di accelerazione di impresa in Cile. «Ci trasferiamo lì per almeno sette mesi e poi si vedrà», dice. Dall’Europa al Sudamerica, quindi. Ma tornare in patria per ora non è in programma. «Mi spiace portare ricchezza in un altro paese che non sia il mio. Però l’opzione di restare in Italia non l’ho proprio considerata quando mi sono imbarcata in quest’avventura».
Nicola Farronato, esperto di marketing, si è trasferito a Dublino nel 2010, in piena crisi irlandese. Con il suo socio Paolo Panizza, ingegnere, aveva un obiettivo: avviare una società per sviluppare MySmark, una piattaforma che consentisse agli utenti di fare commenti emozionali interattivi ai contenuti di un sito, a un evento, a un brand e così via.
Il progetto, utile per il marketing online, è diventato la startup B-Smark, che ha ricevuto già nel 2011 il primo finanziamento. «Non sono i benefici fiscali ad averci portato qui », spiega Farronato.
«Abbiamo scommesso sull’Irlanda perché è all’avanguardia nell’ambito del web semantico: gli investitori non faticano a capire ciò di cui parli. In Italia il supporto all’imprenditoria innovativa è ancora limitato: basti pensare che a Bassano del Grappa, da dove provengo, è difficile persino trovare professionisti in grado di orientarti alla creazione di una srl semplificata».La storia di Francesco Baschieri, ingegnere informatico fondatore della piattaforma per le radio web Spreaker, attraversa più paesi. Il progetto è nato a Bologna, dove lo startupper ha costituito una prima società nel 2010. Poi si è allargato nella Silicon Valley, dove è stata fondata un’azienda gemella per muoversi sul mercato principale, quello Usa.
Nel 2013, infine, la sede operativa in Europa è diventata Berlino. È qui che si sono trasferiti gli sviluppatori che lavoravano in Italia. «Cercavamo una nuova sede ma alcune persone dello staff non erano disposte a trasferirsi in nessuna città italiana», racconta il ceo di Spreaker. «L’idea di andare a Berlino è piaciuta a tutti: è economica, “cool” e offre molte opportunità in ambito informatico».
E non è vero – aggiunge – che avviare un’impresa in Germania è più semplice: «Dal punto di vista burocratico in Italia è più facile: per aprire una srl a Berlino siamo impazziti. Il vero problema del nostro Paese, e io l’ho verificato con i nostri partner negli Stati Uniti, è la difficoltà di far valere i contratti a livello giuridico: gli investitori non si sentono garantiti e non investono».
La migrazione coinvolge anche l’imprenditoria che punta sulla manifattura. È il caso di Alive Shoes, un portale di e-commerce in cui gli utenti possono crearsi le proprie scarpe e venderle. «La startup ha una sede ad Amsterdam, nell’acceleratore Startupbootcamp, e una in Italia, nelle Marche, dove si concentrano produzione e logistica», spiega uno dei co-fondatori, Luca Botticelli. In Olanda, dopo il terzo mese di accelerazione, gli startupper hanno potuto presentare la loro idea davanti a un parterre composto da banche, 400 investitori, la commissaria europea Neelie Kroes e persino la Regina Beatrice.
« In Olanda – osserva – abbiamo ottenuto finanziamenti in poco tempo, sgravi fiscali e continue dimostrazioni di interesse. Nel nostro paese invece c’è un contesto che ancora non capisce il web: io ho provato parecchi progetti di innovazione digitale, soprattutto nel settore delle scarpe, ma non c’è stato niente da fare. Adesso stiamo pensando di spostare una parte del team a Berlino o di aprire un’altra società. Di Italia, però, non si parla nemmeno».
twitter@maudilucchio
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