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sabato 4 maggio 2013

La favola del patrimonio degli Italiani.

 


    La Banca d’Italia conferma i dati di un recente studio della Bce, ripreso polemicamente dalla stampa tedesca come “Der Spiegel” e “Frankfurter Allgemeine Zeitung”: gli Italiani sono patrimonialmente più ricchi dei tedeschi e sopra la media europa. Deduzione tedesca: “i soldi ce li avete, pagate i debiti”. Ma dallo stesso studio si ricava che gli Italiani hanno un ben più basso reddito rispetto alla media europea. Aggiunge la Banca d’Italia: “la facilità di smobilitazione (liquidità) è molto bassa”. Perché questo è il punto.
    Vediamo qualche dato. La ricchezza complessiva degli Italiani è stimata pari a 8600 miliardi di euro, di cui il 63% è costituita da possedimenti reali (case in larghissima misura) e il 37% è costituita da attività finanziarie così ripartite:  31% è risparmio in depositi bancari e postali, 5% in titoli di stato, 11% in obbligazioni italiane, 4% in obbligazioni estere, 19% in assicurazioni, 7% in fondi comuni di investimento, il 20% in azioni e  partecipazioni.
La liquidità immediatamente disponibile è quindi intorno ai 900 miliardi di euro, un po’ meno della metà del debito pubblico, ma ovviamente è distribuita in modo ineguale. Un eventuale “taglio orizzontale”, come quello che fece Giuliano Amato nel 1992 (in una misura oggettivamente molto ridotta), se fosse riproposto in una percentuale più consistente, sarebbe devastante per i piccoli risparmi: se si profilasse l’ombra di una tale manovra (ma non sembra probabile con il governo Letta), ci sarebbe una consistente fuga di capitali. Che indubbiamente c’è già stata in questo ultimo anno di incertezza poiché i dati di Bankitalia si fermano alla fine del 2011.
È da rilevare che questa liquidità sostiene la pur debole domanda poiché i redditi, con cui si vive giorno per giorno, collocano l’Italia al di sotto della media europea. I disoccupati, i precari, i cassintegrati, i pensionati con pensioni al di sotto di 500 euro, se hanno qualche risparmio in banca o alla posta, lo limano mese dopo mese, quando non (s)vendono i cosiddetti beni di famiglia: preziosi, quadri, mobili, argenteria, vestiti, come testimonia il proliferare dei mercatini, dei “compro oro” e il baratto a perdere.
L’effetto della crisi è sempre lo stesso: i poveri diventano sempre più poveri (svendono i residui beni patrimoniali mobili) mentre chi ha disponibilità monetaria (liquidità) ne approfitta per acquistare a prezzo di saldo oggetti di valore. Per le case è, in parte, la stessa cosa: chi non può pagare il mutuo, chi pensa di tenere in piedi la propria attività imprenditoriale o professionale vendendo un immobile (poiché le banche non fanno credito), è costretto a buttare sul mercato i suoi beni patrimoniali rifiutando di cadere nella spirale del debito.
Se questo è un buon momento per fare acquisti, ma di immobili di valore, eventualmente da restaurare, è anche il momento di un ampio, e quindi sociale, trasferimento di ricchezze. Ma anche questo ha i suoi limiti che riguardano sia la disponibilità di liquidità sia, soprattutto, il fisco. Chi ha liquidità, avrebbe l’opportunità di acquistare un immobile di pregio, ed eventualmente restaurarlo, ma è trattenuto dalla prospettiva delle tasse che dovrà pagarci, specie se si tratta di una seconda casa.
Poiché il settore immobiliare è quello trainante, avendo abbandonato quasi del tutto il settore della grande industria, è su questo che bisognerebbe fare chiarezza (fiscale) e bisognerebbe agevolarlo, ma non n maniera indiscriminata, bensì puntando alla rivalorizzazione del patrimonio anche a fini ambientali, di risparmio energetico, di accoglienza turistica. Sarebbe un’operazione diffusa su tutto il territorio nazionale e quindi a vantaggio delle piccole e media imprese. Invece si sente dire di rilancio di grandi opere infrastrutturali, che interessano poche grandi aziende e i loro padrini politici, che mobilitano grossi capitali ma poca occupazione. I sindacati tacciono poiché a loro interessa confrontarsi con le (poche) grandi aziende mentre, se fossero sul serio attenti all’occupazione, dovrebbero favorire la ripresa sul territorio, quella garantita dalle piccole e medie imprese dove però i sindacati hanno poca presa.