Powered By Blogger

venerdì 6 settembre 2013

All'Italia non saranno sufficienti vent'anni di "buon e lungimirante" governo per imboccare la strada giusta per risolvere "probabilmente" l'attuale crisi economica e morale



Da meta’ aprile a quasi tutto maggio di quest’anno sono stato in Italia e ho trascorso il mio tempo viaggiando nelle regioni del centro-nord. Erano due milioni e novecentomila di disoccupati tra i 15 e i 29 anni (ora sono oltre 3milioni).. Venticinque milioni di italiani in situazione di disagio economico, dei quali nove milioni in grave difficoltà. Il potere d’acquisto dell’Euro in Italia e’ sceso del 5%. Imprenditori e operai che si suicidano per disperazione. Gesti di follia criminale nelle periferie e rapine nel triangolo dello shopping di lusso. Prendiamo ad esempio il dramma della disoccupazione giovanile italiana. E’ risaputo che il lavoro non lo crea il “governo” ma “esclusivamente” le imprese artigiane e le industrie che producono beni da vendere sui mercati mondiali. Negli ultimi dieci/quindici anni l’Italia “è stata abbandonata” da migliaia di grandi industrie, medie ed anche piccole, imprese che si sono “delocalizzate” nei Paesi limitrofi come Svizzera, Austria e Slovenia ma, soprattutto, nei Paesi dell’Est Europeo, in Africa, in Cina, in India, in Asia, attratte dai “costi della manodopera inferiori” a quelli italiani del 70%-80% e da “condizioni fiscali” disegnate per favorire il loro insediamento. Dove si sono “delocalizzati” gli investitori possono conseguire forti margini di profitto e producono, scarpe, tessili, capi di abbigliamento, componenti meccanici, auto, motori, componenti in gomma, plastica, resine, fibre, avvolgimenti elettrici, interruttori, trasformatori, computers, componenti elettronici, stampanti, elettrodomestici, freni, frizioni, carburatori, pompe idrauliche, tutti gli accessori dell’indotto auto, veicoli industriali, telefonia, elettrodomestici ecc. ecc. Le regioni industriali della “pianura meccanica/elettronica” tra Torino e Ivrea, tra Torino e Biella, la valle del Po da Torino a Venezia, il Nord Est veneto, la Toscana, l’Emilia Romagna e le Marche e tutta la costa adriatica sono oggi un “deserto di capannoni abbandonati”. Piazzali vuoti invasi dalle erbacce e dai rifiuti, vetrate spaccate dai vandali. Un patrimonio in rovina. Uno scenario simile al dopoguerra con le case bombardate: ora sembrano i capannoni industriali. La tecnologia, il design, la capacità tecnica operativa, la “genialità imprenditoriale e creativa italiana”, il “Made in Italy” danno oggi lavoro a milioni di operai nell’Est Europeo, Africa, India e Asia. Gli imprenditori “delocalizzati” si arricchiscono e investono i loro margini “detassati” fuori dall’Italia. L’Italia perde lavoro, competenze, know how, tecnologie produttive, in un processo di “decadenza” e “impoverimento irreversibile”. I sindacati italiani continuano a scioperare e protestano, gridano che bisogna portare il lavoro al centro dell’agenda governativa, quando per anni hanno protestato e scioperato e “provocato il trasferimento del lavoro” e delle imprese verso l’Est Europeo, la Cina, l’Africa, l’India e l’Asia. La politica condanna il malcostume della delocalizzazione selvaggia dopo aver massacrato per decenni le imprese con il “soffocante peso burocratico e fiscale”, senza tutelarle contro la “grassazione” armata di mafia, camorra, ndrangheta, sacra corona unita e usurai che, con “perversa sinergia”, hanno innescato la “desertificazione industriale” che e’ la causa principale della attuale disoccupazione giovanile e non. Una situazione di questo genere richiede una “visione e strategia” vigorosa del tutto innovativa. Anzi, non si tratta di visione e strategia, si tratta di un “radicale sovvertimento” dei criteri che regolano il rapporto tra Stato, Lavoratori e Imprese. Non sono in grado di descrivere quali siano le caratteristiche, i dettagli normativi, le fasi di questa “rivoluzione” se non in termini molto generali: non è il mio mestiere. In sintesi. E’ necessario che l’investimento di un’impresa industriale in Italia diventi di nuovo vantaggioso. Chi investe per produrre deve poter vedere un margine di guadagno che compensi rischio, impegno, professionalità e capitale. È necessario che l’azione sindacale tuteli il lavoratore”, ma sia coerente con le esigenze di competitività dell’impresa sui mercati. È necessario che il peso fiscale e burocratico “non uccida l’impresa” prima ancora della nascita. È necessario che i “servizi infrastrutturali” sul territorio e le “reti” siano all’avanguardia della funzionalità e della tecnologia. Tutto il contrario nell’attuale sistema. E’ necessario disegnare e definire il profilo di un capitalismo e di un sindacalismo “diverso” da quello che ha provocato l’attuale “fallimento”. L’attuale governo ha una grande responsabilità e opportunità politica. Occorre una svolta “epocale”. Invece i sindacati invocano misure repressive per bloccare il fiume travolgente della delocalizzazione, e gli industriali stanno richiedendo di mantenere privilegi che gli permettano l’evasione fiscale. Due logiche che sono le premesse di un “sicuro fallimento totale e definitivo”. È il compito della “politica” quello di individuare strategie “diverse”, complesse, rivoluzionarie e nuove. E’ compito della politica ricostruire una dinamica dove “lavoratori tutelati” possano lavorare in aziende capaci di operare “con profitti e margini d’impresa competitivi” con quelli possibili nei regimi di privilegio fiscale e di basso costo della manodopera. Per molti aspetti non si tratta di un problema esclusivamente italiano: è l’Europa intera, con i suoi organismi centrali, politici e finanziari, che deve intervenire per tutelare il suo mercato da 400 milioni di persone. Proprio lo stesso mercato che acquista prodotti delle loro industrie che si sono “delocalizzate”. Una strategia che richiede azione coordinata con un sindacato capace di vedere oltre la rivendicazione corporativa, con un’impresa capace di uscire dalla roccaforte del privilegio immediato, un governo capace di vedere la sua responsabilità d’iniziativa invece di “galleggiare” nella continua negoziazione fra le varie “clientele”. C’e’ bisogno di una nuova generazione di sindacalisti, di una nuova generazione d’impresari, di una nuova classe politica che non sia composta da “nominati” capaci solo di strillare a comando e, intanto, “saccheggiano” l’Italia. Certamente in futuro non può continuare la sistematica “stupidità reazionaria” dell’intransigenza dei sindacati, della “conservazione suicida” di privilegi e dei diritti negati ai cittadini. Purtroppo l’Italia e’ piena di faziosi, ottusi, cialtroni della peggiore specie, basta  leggere i vari commenti lasciati sui media e sul web. Viene la nausea per lo squallore e la poca intelligenza che da essi emanano. Confesso che certe volte mi auspico che questa Italia prenda in fretta le legnate che si merita. So che pagheranno anche le persone perbene, ma questa è la realtà e il prezzo da pagare collettivamente perché dopo si possa effettivamente sapere quello che gli italiani vogliono veramente essere. Questo è il destino dell’Italia per non avere saputo esprimere “una classe politica decente”. La sfida e’ di “creare speranza” agli “esodati” e alla generazione dei ventenni/trentenni/quarantenni che oggi sta entrando nel mondo reale, mentre muoiono “disperati e soli” gli ultimi novantenni che hanno combattuto, “perso e vinto”, una guerra civile che non meritava questo “risultato fallimentare”.


 

 

 

 
 
 
 
 

 

Napolitano: Non sia aperta una rischiosa crisi di governo

La mia previsione personale e' che Berlusconi, qualsiasi cosa possa capitargli (la decadenza da parlamentare e persino essere imprigionato), non fara' mai cadere il governo Letta che deve portare a termine "tutte" le riforme che l'Italia attende da tempo altrimenti fallira' "miseramente" economicamente e politicamente.

Berlusconi e' pronto a sacrificare la sua persona per il bene dell'Italia e quando si andra' a nuove elezioni "Forza Italia" otterra' piu' del 50% dei voti perche' sara' chiaro a tutti che e' stato condannato essendo innocente.


"Berlusconi ha ripetutamente dichiarato sostegno a Letta". Bondi: Pdl confida da tempo in un provvedimento del Colle

06 settembre 2013 08:39 fonte ilVelino/AGV NEWS Roma
Il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano “confida che non si apra una rischiosa crisi di governo”. Ma non è né una dichiarazione, né una nota ufficiale. Ambiente del Colle hanno fatto trapelare la posizione di Napolitano, il quale ricorda che il leader del Pdl, Silvio Berlusconi, ha ripetutamente dichiarato il suo sostegno all'esecutivo di Enrico Letta. Un messaggio che vuole essere pacificatore dopo una giornata, quella di ieri, di turbolenza tra i due maggiori partiti della maggioranza. Per tutta la giornata i segnali, per il governo Letta, erano stati duri. Le parole più pesanti sono arrivate dal capogruppo del Pdl al Senato Renato Schifani, che nel corso di diverse interviste, in merito all'eventuale decadenza di Berlusconi, ha sottolineato come a suo avviso sia “meglio ritornare alle urne”, perché il partito “è pronto all'opposizione”, ricordando le parole di pacificazione pronunciate ad agosto dal Presidente della Repubblica, ma anche sottolineato come “la convivenza politica diventi impossibile” quando un alleato vota contro un altro alleato. E ieri sera, ha detto la sua anche il coordinatore del Pdl, Sandro Bondi, sottolineando che “Il Pdl confida da tempo che il Capo dello stato non ignori la drammaticità della situazione e prenda seriamente in esame un provvedimento esaustivo che le sue prerogative gli consentono di assumere nell' interesse dell'Italia, un provvedimento che scongiuri gli effetti di una sentenza allucinante e il tentativo della sinistra di approfittare di questa sentenza per portare a compimento il disegno perseguito da 20 anni di eliminare il leader dello schieramento dei moderati dalla vita politica. Quello stesso leader politico  - ha sottolineato Bondi - che in questi anni ha garantito responsabilmente la stabilità e la nascita dei governi Monti e Letta nonché l'elezione del presidente della Repubblica”.

mercoledì 4 settembre 2013

Il perenne stato di marasma del Pd

  PDF Stampa E-mail
! di Redazione
@ragionpolitica.it
  

venerdì 09 agosto 2013
epifani1.jpg
 
 
 
 
E' inevitabile quanto la legge di gravità universale o la manifestazione di un attacco di malaria: ogni volta che un qualunque segretario del PD richiede un «passo indietro» al leader del centrodestra il primo risultato che ottiene consiste sempre, puntualmente, nel coagularsi di una folla vociante di colleghi più o meno assortita che ritengono loro buon diritto (Deus lo vult...) il fare uno o più passi in avanti. Come in una sorta di tragicomico contrappasso basta che Epifani chieda il famigerato «passo indietro» a Berlusconi per vedere, nel volgere di pochi quarti d'ora, il proliferare di comizi, conferenze stampa, esternazioni dei «malpancisti», interviste a quelli che «siamo con Letta in tutto e per tutto ma...» (e quindi non sono con Letta in nulla di nulla), «giovani turchi» che affilano le scimitarre, pippi e Civati che assumono connotati messianici e proludono la loro personale versione del Discorso della Montagna (solitamente inascoltati).
Tutti pronti, insomma, dalle parti del PD a fare un bel passo avanti! Nel solo ed esclusivo «interesse del paese», sia chiaro: a quelle latitudini non esistono bassezze quali l'interesse personale, la smania di potere, le operazioni di infima bottega per consolidare o aumentare un poco di residuale consenso. L'algida e adamantina torre d'acciaio che era il PCI, insomma, caratterizzata dalla vigenza di una disciplina da samurai si è trasformata nel corso degli anni e mai come ora in un colossale Suq a fine Ramadan, nel quale terminata la «quaresima» i mercanti gridano a gran voce pregi e qualità delle rispettive merci, ciascuno cercando ad ogni costo di sovrastare le urla dei concorrenti. Sembra paradossale, ma è esattamente così: un momento di difficoltà critica vissuto dal grande avversario diviene in automatico legittimo movente per scatenare una vera e propria guerra civile (tutt'altro che «fredda») nel campo dei «vincitori» ex autoritate iudicis (e non «populi», sia chiaro), per accendere focolai di rivolta in tutto lo Stivale, per legittimare rese dei conti a più livelli maturate e macerate nel corso degli anni.
Il balletto delle neonate convergenze parallele ne é ulteriore dimostrazione: acerrimi nemici cercano abboccamenti e si stringono la mano destra, facendo con tutta probabilità gesti apotropaici qui irriferibili con la sinistra. Piccoli signori della guerra quasi disgregati dall'inconsistenza percentuale dei loro partiti personali così come da grane pesantissime in suolo patrio, vedi Nichi Vendola, aprono ai «douloplokoi» dal multiforme ingegno come Matteo Renzi, una volta odiato e temuto e oggi...pure! Con la sostanziale differenza che il carro del personaggio collodiano, del Pinocchio vanesio primo cittadino di Firenze, pare già olezzare di vittorioso alloro e allora...perché no? Solo gli stupidi non cambiano mai idea, recitava un vecchio (e veritiero) adagio popolare. Renzi che, per altro, sta scalciando e scalpitando per evitare di essere consegnato anzitempo all'oblio dal suo stesso partito, oltre che per patente (e legittima, per carità...) ambizione personale: il suo ultimo tour emiliano ha mostrato un cambiamento significativo nella strategia comunicativa da lui adottata, mascherando abilmente l'abituale piglio da discolo spaccavetri sotto una eccellente patina retorica densa di accenti lirici, infarcita di riferimenti alla vittoria, al «cambiamento di fase» (avrà riletto Berlinguer di recente...), oltre che di messaggi assai poco trasversali e molto diretti a Enrico Letta, suo futuro concorrente alle primarie.
Già: le primarie, croce e delizia del popolo progressista che «ben pensa». Parolina magica che negli intenti di Walter Veltroni, suo ideatore e propugnatore, doveva risvegliare nel popolo «dde sinistra» chimere kennedyane: un nuovo senso di appartenenza, una nuova, popolar-mondialista, concezione di militanza, un marcare in maniera ancor più profonda la differenza politica, civile, antropologica tra «noi» e «loro». Ad essere proprio gentili, possiamo tranquillamente dire che non solo l'obiettivo non è stato raggiunto, ma addirittura le conseguenze sono state opposte rispetto agli intenti iniziali. Riprova ne é il fatto che dopo circa un anno dalla «consacrazione» di Bersani, nuovo Pirro del 21esimo secolo, la situazione oggi non è mutata di una virgola: Renzi chiede regole altrimenti non si candida, l'establishment è ben felice di non adempiere a tale richiesta perché non vuole che egli si candidi, e, al limite, ha già pronto il «piano B», ovvero abrogare la «unione personale di corona», cioè separare la figura di Segretario Nazionale, eletto attraverso il giocattolino kennedyano delle primarie, dal candidato Premier, individuato in maniera «diversa» (consultando un oracolo, forse?).
Ad aumentare il già plasmatico stato di marasma, ad allungare questa tumultuosa brodaglia primordiale di sapore incerto provvede poi il direttivo del PD, che prima individua nel 21 novembre la data di convocazione dell'Assemblea Nazionale, poi nel 22, quindi nel 24 direttamente la data delle primarie per bocca di Marina Sereni subito sconfessata dalla segreteria che ha sottolineato come solo l'Assemblea possa individuare legittimamente la date delle consultazioni. Una infinita danza delle ore (delle date, meglio) che provoca amareggiato scoramento in Pippo Civati, il quale afferma «se la situazione precipita, forse le primarie nemmeno si fanno...». Un'ipotesi che, non dubitiamo, sconvolgerà di dolore una buona metà di cittadini italiani. Almeno quei cittadini italiani che non si curano di quisquilie quali la vessazione da IMU, il decremento spasmodico del mercato interno, l'impossibilità di accesso al credito bancario e altre bagatelle di tal fatta.
In conclusione, la sinistra commette per l'ennesima volta il medesimo errore di sempre: considera il Cavaliere morto e sepolto. Dà per scontato che la sentenza della Cassazione sul caso Mediaset abbia rimosso per sempre il loro principale avversario e che l'accaduto sia ormai consegnato alle pagine della storia. Un trauma già superato sul nascere del quale non ci si deve più occupare. Un errore madornale per due diverse ragioni: in primo luogo, anche alla luce dell'inquietante caso Esposito, la questione può dirsi, in fatto e in diritto, tutt'altro che conclusa. E un PDL che sfiora nuovamente il 30% nei sondaggi sta lì a dimostrarlo. In secondo luogo l'avere anzitempo archiviato il Cavaliere come politicamente defunto ha fatto crollare l'unico argine che teneva assieme le innumerevoli correnti interne al PD, partito che ormai non ha più, nei fatti, un'organizzazione verticale ma assolutamente orizzontale (vuoi anche per la presenza di un Segretario pro-tempore, di transizione, la cui autorità e la cui autorevolezza sono quotidianamente, e parecchio in malafede, messe in discussione), ovvero nell'ambito della quale chiunque, in qualunque momento può avanzare qualunque pretesa. Un partito magmatico, attualmente acefalo, quindi, ma, al contempo privo anche di coda, all'interno del quale la dialettica che si sviluppa è una e una sola, di matrice Khmer: guerriglia permanente.

Dalla parte di Silvio

 
di Alessandro Gianmoena
gianmoena@ragionpolitica.it
PDF Stampa E-mail
  

sabato 03 agosto 2013
434-2.jpg
Amarezza e sconcerto è ciò che molti italiani provano in questi giorni. Silvio è stato condannato dopo un accanimento giudiziario che dura da vent'anni, sono riusciti nel loro intento. L'odiato nemico che si è permesso di scombinare i piani di coloro che a sinistra volevano occupare lo spazio politico che si era venuto a creare con la caduta dei partiti democratici della Prima Repubblica, ben presto vedrà limitata sia la sua libertà personale che i suoi diritti politici. Certo, si dirà, dopo tre gradi di giudizio la colpevolezza è certa, ma non è un fatto trascurabile che l'impianto accusatorio sul caso diritti Mediaset si basasse sul «non poteva non sapere»: quante volte tale teorema è stato adoperato contro esponenti delle classi dirigenti nella storia del nostro Paese.
La magistratura, o meglio, una parte di essa, ancora una volta è la protagonista del cambiamento del corso politico del nostro Paese. Da Mani pulite in poi essa è spesso entrata a gamba tesa nell'agone politico, condizionando la vita pubblica dell'Italia. Ciò che accadrà da ora in poi nella politica italiana è francamente imprevedibile, poiché ogni qual volta che il potere giudiziario si sovrappone a quello politico si determina il caos. Silvio Berlusconi, infatti, non è un politico qualunque, oggi è il capo della seconda formazione politica in termini elettorali (prima secondo i sondaggi attuali) che sostiene il governo e da vent'anni costituisce il punto di riferimento del nuovo ordine politico della Seconda Repubblica, incarnando quello spirito liberale che è molto radicato in gran parte del popolo italiano.
Che lo si ami o lo si odi Silvio è l'elemento di stabilità che ha reso matura e compiuta, attraverso il bipolarismo, la democrazia italiana: Berlusconi, da solo, è riuscito a scardinare i vecchi schemi della politica politicante attraverso una leadership che ha consentito al popolo di sentirsi sovrano non solo nel momento del voto, come accadeva durante il regime partitocratico della Prima Repubblica, ma anche dopo, sentendosi partecipe di un progetto politico chiaro e condiviso, fondato su impegni concreti già stabiliti.
Le aule giudiziarie, ieri come oggi, sembrano voler segnare la fine di un'ordine non solo politico, ma anche sociale: sì, perché mettere fuori dai giochi Silvio significa anche colpire quel blocco sociale che in lui si è sempre riconosciuto e che con lui ha condiviso le medesime istanze di cambiamento: ecco perché dobbiamo chiederci se nel nostro Paese, oltre alle sorti di Silvio, non vi sia in gioco anche la democrazia stessa. Non si può decontestualizzare questa sentenza dall'accanimento giudiziario di ben 50 processi a suo carico in vent'anni, guarda caso avvenuti dopo la sua discesa in campo: chi lo fa e pensa di poter oggi avere la strada spianata verso la conquista del potere sappia che la fuoriuscita dalla politica di Silvio attraverso la via giudiziaria non farà che soggiogare ulteriormente la politica alla scure di una parte della magistratura.
Esiste un problema di equilibrio tra giustizia e politica, tutti ne sono consapevoli, anche i giustizialisti, ma nessuno osa porlo, ad eccezione del centrodestra di Silvio, all'ordine del giorno. La sinistra che, trincerandosi dietro il giustizialismo ed il becero moralismo etico, non solo non si straccia le vesti di fronte alla condanna dell'odiato nemico, ma in molti casi gioisce, rischia di commettere un grave errore di prospettiva, poiché essa in vent'anni ha mietuto il suo consenso solo sulla politica dell'antiberlusconismo; chi è contro e non è stato mai in grado di proporsi con idee alternative e innovative, ma si è fatto promotore di una politica conservatrice non riuscirà di certo ad ergersi come punto di riferimento di un nuovo ordine politico: la cosidetta maggioranza silenziosa degli italiani a cui Silvio ha dato voce, oggi, non è disposta ad accettare di non sentirsi più rappresentata, anzi, la ferita che ha subìto con la condanna di Silvio non farà altro che ricompattarla, motivandola nella battaglia di libertà che Berlusconi ha portato avanti in questi anni. Se non vi sarà, quindi, una risposta adeguata da parte della politica, che dovrà essere capace di difendere l'assetto democratico del nostro Paese con la garanzia che Silvio Berlusconi possa continuare ad essere la voce di milioni di persone che lo hanno votato e che lo voterebbero ancora, il caos ridefinirà il nuovo panorama politico e la congiuntura economica rischierà di far colare l'Italia a picco. Il sostegno al governo Letta, infatti, da adesso in poi, incontrerà molti ostacoli che sorgeranno dal Pd, un partito spaccato, con troppi galli nel pollaio e pressato da una base elettorale giustizialista. Se la questione giustizia verrà derubricata nel dimenticatioio come potrà il Popolo della Libertà, che si sempre dimostrato forza responsabile per il bene del Paese, sopportare un tale accanimento giudiziario senza battere ciglio?
Costringere Silvio al disimpegno politico attraverso una sentenza e far finta che nulla sia accaduto comprometterebbe la coesione sociale del nostro Paese, già messa a dura prova da una «guerra» civile strisciante che affonda le radici nel dopo guerra. Napolitano ha dichiarato che bisogna mettere mano alla rifoma della giustizia. Speriamo che dalle parole si passi ai fatti, perchè se la politica non sarà in grado di sanare questa emergenza democratica sorta dal conflitto tra il potere giudiziario e quello legislativo, c'è solo un unico soggetto a cui spetta la decisione: il popolo sovrano attraverso le urne.
E' proprio in momenti difficili come quelli che stiamo vivendo che è importante rinnovare la vicinanza e la stima nei confronti di Silvio, di colui che rappresenta le istanze politiche di milioni di italiani. Coloro che come me lo hanno votato, oggi, non intendono ritornare maggioranza silenziosa, lasciando il timone dello Stato nelle mani di una sinistra statalista e giustizialista che sarebbe osteggiata solo dagli strali distruttivi e senza costrutto del comico Beppe Grillo. Cari italiani che non vi riconoscete nella sinistra, è questa l'Italia che vogliamo?

La cecita' politica e l'autodistruzione del Pd

  PDF Stampa E-mail
di Francesco Natale
natale@ragionpolitica.it
  

giovedì 22 agosto 2013
epifani1.jpg
L’odio pregiudiziale e il livore ideologico, soprattutto se mascherati da quell’evanescente e nebuloso concetto del cosiddetto «interesse superiore», portano, inesorabilmente, alla colpevole cecità prima, all’autodistruzione poi. La cecità che sta manifestando il PD in questi giorni, con poche lodevoli eccezioni ad oggi inascoltate, è peggio che colpevole: rasenta il criminale.
Oggetto della contesa, ovviamente, è la sentenza della Corte di Cassazione pronunciata dal giudice Antonio Esposito. Una sentenza che possiamo tranquillamente definire aberrante dal punto di vista sostanziale, se non formale. Questo per una semplice ed evidente ragione: l’atteggiamento pregiudiziale del giudice nei confronti di Silvio Berlusconi è un fatto inequivocabile. E’, purtroppo, realtà. Sulla quale è perfettamente inutile abbandonarsi a interpretazioni più o meno apologetiche. A quanto riportato dal «Mattino» , con tanto di registrazione annessa, e da Stefano Lorenzetto sul «Giornale» qualche settimana fa si aggiungono le testimonianze di Massimo Castello e Franco Nero, il noto attore certamente poco simpatizzante, per usare un eufemismo, del Cavaliere. Dichiarazioni agghiaccianti pronunciate con la massima tranquillità da Esposito durante una cena a casa di Castello nel 2011. Quelle che fino a ieri erano solo ombre, piuttosto dense in verità, su quella famigerata Camera di Consiglio durata più di sette ore, acquisiscono ineluttabile concretezza.
Il pregiudizio nei confronti del presunto reo (perché a questo punto è doveroso parlare di presunzione di colpevolezza) non dovrebbe essere messo in in discussione. Ma, e qui sta il nucleo della farsa in cui il Partito Democratico sta recitando il ruolo di protagonista, «le sentenze si rispettano», specialmente quelle passate in giudicato. Un comodo sofisma che, negli intenti degli esponenti democratici, fornisce un inattaccabile scudo ed esime da ogni possibile responsabilità politica. Vero è, questo sì, che in apparenza non esistono strumenti efficaci di difesa sul piano giudiziario per sindacare una sentenza della Suprema Corte se pur indiscutibilmente viziata fin dall’origine. E questo dovrebbe indurci a comprendere, oggi come non mai, quanto sia necessaria una radicale riforma della giustizia.
Ma, e qui sta il punto critico reale, la politica ha la possibilità e il dovere di agire responsabilmente al fine di temperare quello che a tutti gli effetti è un orrore giudiziario: che senso avrebbe, infatti, l’esistenza stessa della Giunta per le Autorizzazioni se quest’ultima avesse il solo scopo di accogliere supinamente le sentenze della magistratura? Se tale procedura di «deliberazione», diciamo impropriamente, fosse un semplice automatismo che scopo avrebbe, in realtà, suddetta Giunta? Gli elementi che rendono doveroso il rigetto totale della richiesta di decadenza del Senatore Berlusconi ci sono tutti, a cominciare dalla patente non retroattività della Legge Severino per arrivare alle dichiarazioni del Giudice Esposito. Dichiarazioni, per altro, che dovrebbero indurre tutti ad una seria riflessione: poiché non si tratta di semplici esternazioni improvvidamente sfuggite di bocca e colte casualmente da qualche «paparazzo» malandrino, bensì di parole pronunciate in piena coscienza che implicano un senso di «outrance» assoluto. La piena cognizione di essere, in quanto giudice di Cassazione, impunibile, intoccabile, insindacabile. Casta allo stato puro. Un atteggiamento intollerabile che desta allarmante preoccupazione per tutti i cittadini, i quali, come è comprensibile, non nutrono più alcuna fiducia nei confronti di una magistratura che fa dell’anticipo di motivazioni a mezzo stampa, delle «fughe di notizie» pilotate, di sentenze già scritte e tenute nel cassetto, del mercato dei cosiddetti «collaboratori di giustizia» la propria cifra distintiva. Il tutto senza che gli organi preposti alla giurisdizione domestica censurino, perseguano, puniscano. Un potere assolutamente fuori controllo il quale, per sommare beffa al danno, pure si vanta della propria totale immunità, al punto da esternare dichiarazioni palesemente sprezzanti.
Eppure la classe politica democratica, anziché prendere atto della realtà e, perlomeno, sospendere giudizio in attesa di sviluppi come elementare prudenza imporrebbe, finge di non vedere: si trincera dietro al «rispetto delle sentenze» mettendosi così la coscienza in pace. Anche di fronte a «sentenze» che, palesemente, tutto meriterebbero tranne il rispetto. Un atteggiamento assolutamente irresponsabile che, dietro alla patina (già parecchio ossidata…) del formalismo, non riesce a celare l’entusiasmo autolesionista nel vedere il Cavaliere disarcionato.
Con quali mezzi e quali modalità non importa: l’importante è dare il nemico storico in pasto alla base che da decenni ne chiede la testa. Dopo si vedrà. Già: il «dopo». Un «dopo» che si preannuncia già ora disastroso: in mancanza di una assunzione di responsabilità seria e doverosa da parte dell’esecutivo Letta è poco probabile che il governo duri. Ipotesi drammatica per il paese ma, purtroppo, accarezzata da molti esponenti del PD che vedrebbero nel prepensionamento di Letta la situazione ideale per dare libero sfogo alle rispettive (e brutalmente confliggenti) ambizioni personali. Senza contare che la caduta intempestiva dell’attuale esecutivo metterebbe alle corde pure Giorgio Napolitano, le cui dimissioni sarebbero a quel punto quasi automatiche.
Un dilaceramento istituzionale su più livelli indubbiamente auspicato da coloro che non vedono l’ora di mettere Prodi o Rodotà al Quirinale. Con le conseguenze che tutti possiamo immaginare. Un colossale errore politico, in definitiva, del quale la prima vittima sarebbe il soggetto che ha effettivamente il proverbiale «cerino in mano», ovvero il Partito Democratico: un pollaio con troppi, innumerevoli galli, tutti pronti a far fuori i concorrenti «nell’interesse del Paese». Una guerra aperta nella quale, pur di conseguire il «trionfo» personale, non esistono alleanze impossibili, pericolose o impraticabili, non esiste prezzo politico (che pagheremmo noi, ovviamente) troppo alto o troppo inaudito. Una guerra aperta interna al massimo partito della sinistra che ridurrà l’Italia in macerie. C’è purtroppo chi si accontenterebbe di regnare, incontrastato, su queste ultime…

Silvio e' l'unico politico credibile in grado di tutelere le impreese italiane


di Boris Marchi
marchi@ragionpolitica.it
giovedì 22 agosto 2013
pmi_imprese.jpg
Nell’ultimo hanno chiuso i battenti 360 mila imprese e abbiamo assistito a centinaia di suicidi da parte di imprenditori. Questa crisi per certi versi, per le modalità sta provocando conseguenze più atroci rispetto a quella che fu la cosiddetta «Crisi del ’29». Nonostante i media nascondano il più possibile tutto ciò, per paura che si possano scatenare e incentivare delle rivolte sociali, la disperazione e la rabbia della gente ed, in particolar modo degli imprenditori, è veramente tanta, forse troppa e non accenna minimamente a placarsi perché quotidianamente le loro speranze si assottigliano sempre di più.
Chi potrebbe veramente capire la disperazione di questi imprenditori, le cause reali che hanno condotto molti di loro al suicidio? Senz’altro solamente chi ha testato e provato con mano le difficoltà che si possono incontrare durante il percorso imprenditoriale. In politica l’unica persona che più di tutte riesce ad immedesimarsi e a capire i reali problemi che affliggono gli imprenditori e, di conseguenza, la gente, può essere soltanto colui che questi problemi li ha vissuti in prima persona, magari non in maniera così tragica, ma che pur sempre li ha incontrati.
Silvio Berlusconi è l’unica figura politica che ha cercato da sempre di risolvere quei problemi che attanagliano e rendono difficile il percorso di un imprenditore, contrapponendosi da 20 anni contro quella sinistra che odia il ceto medio e coloro che, attraverso il rischio d’impresa, sono stati capaci di crearsi una piattaforma economica. Non è on caso che tutte le riforme avanzate dalla sinistra siano sempre state delle proposte mirate a danneggiare il ceto medio.
Il Governo di sinistra è sempre stato il governo delle tasse, delle pesanti imposizioni fiscali, della brutale burocrazia. Si è rivelato come un Governo avverso al benessere del Paese. Un elettore tipo di sinistra crede e si convince che il colpevole principale di questo disastro sia l’imprenditore «evasore», che ha rubato e che si è arricchito. Viene odiato, allo stesso modo, il politico che ne incarna la figura e che si è posto a favore di essi, ovvero Berlusconi e l’intera compagine del centrodestra. Forse a «sinistra», si è ignari del fatto che l’Italia basa la propria economia sull’imprenditoria, sull’artigianato.
Siamo un Paese costituito prevalentemente da piccole e medie imprese ed è attorno ad esse che ruota la nostra «macchina economica», sia perché offrono lavoro a milioni di italiani, sia perché versano non poco denaro nelle casse dello Stato. Per anni la sinistra non ha fatto altro che incentrare le proprie campagne elettorali sul falso in bilancio, sull’evasione. L’evasione va sì combattuta ma con metodi liberali e non con il terrore mediatico e le proposte finalizzate ad aumentare la tassazione. Va fermata con l’apporto della «ricetta di crescita» liberale proposta dallo stesso Berlusconi, ovvero «MENO Tasse, MENO Imposizione Fiscale = PIU' Lavoro, PIU' Crescita».
L’evasione fiscale non si combatte aumentando le tasse perché, al contrario, si finisce per incrementarla. La situazione delle imprese italiane di oggi non è grave, ma tragica. Urgono riforme per abbassare la pesantissima pressione fiscale e delle agevolazioni per le nuove assunzioni. L’impresa è il cuore dell’economia, è il motore dell’Italia. Se sopravvivono le imprese, sopravvive l’Italia.