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giovedì 17 settembre 2015

Leonardo da Vinci era figlio di una schiava mediorientale

di Costanzo Gatta
 All’Università di Chieti, dopo anni di ricerche su oltre 200 impronte lasciate su 52 fogli leonardeschi è stata ricostruita, con sofisticate tecniche dattiloscopiche, l’impronta di un polpastrello del genio di Vinci, forse l’indice della mano sinistra. Il dermatoglifo rivela caratteristiche arabe, la struttura risulta tipica in due terzi della popolazione, per l’esattezza il 65%.
Stile aveva pubblicato in proposito due ampi servizi nel dicembre 2004, quando le ricerche erano agli inizi. “La trama dei polpastrelli
– scrivevamo allora – avrebbe una tipologia orientale; ciò potrebbe confermare che la madre del pittore fosse una schiava venuta da lontano”.
Leonardo da Vinci, Ritratto di giovane donna
Leonardo da Vinci, Ritratto di giovane donna
Sangue arabo nelle vene di Caterina, madre di Leonardo? Da un pezzo lo si diceva, senza dar eccessivo credito alla storia. Ora c’è un motivo in più per tornare a parlare delle origini orientali di quella donna: non una contadinotta della campagna toscana ma una giovane levantina che avrebbe avuto una relazione con ser Pietro, il padre del futuro genio da Vinci.
Già molti anni fa si diceva che la mamma fosse una delle tante schiave che nel ’400 erano state portate, volenti o nolenti, a lavorare in Toscana: una poveraccia senza alcun diritto, senza un patronimico, forse appena convertita. Una serva chiamata come mille altre: Catharina.
Uno studioso toscano aveva frugato negli archivi per cercare contratti d’acquisto di schiavi. Voleva raccapezzarsi in questo mistero. Aveva ripercorso i vari flussi migratori ipotizzando che la donna fosse ebrea, circassa, araba. Negativi i risultati.
E così, ai tanti misteri della vita di Leonardo, si aggiunse anche questo della madre, la povera Caterina, con la quale il donnaiolo ser Pietro faceva bellamente all’amore, nonostante stesse per portare all’altare Albiera, figlia dell’Amadori,  .
La storia dice poco. Si sa solo che quando la serva fu mandata – secondo il costume dei paesi sulle colline toscane – a sgravarsi nel casale che ancora oggi esiste, era l’aprile del 1452. Una camera dal soffitto basso con pagliericcio, attaccata alla cucina col camino, poche nicchie nel muro per riporvi ramaiole, caldaie e il pennato: qui la giovane Catharina attese, assieme alla levatrice, che si rompessero le acque. Non era misteriosa la relazione del giovane ser Pietro, uno dei tanti borghesi di Vinci, la cui casata sfornava rampolli notabili che alternativamente venivano avviati alla carriera legale o alla vita ecclesiastica.
Per i casi della vita la nascita del genio venne messa – nero su bianco – da Antonio, il nonno. “Nachue (nacque) un mio nipote, figliuolo di ser Piero mio figliuolo, a dì 15 d’aprile (1452) in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo…”.
Il resto si può immaginare: quattro soldi di dote per mandar via Caterina contenta e poi il battesimo, senza nemmeno la mamma. Lo sappiamo ancora dal nonno, che ebbe a registrare con precisione i presenti attorno a quel fonte di pietra, tuttora intatto. “Battizzollo Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni, Meo di Torino, Pier di Malvolto, Monna Lisa di Domenico di Brettone”.
Insomma c’erano tutti: prete, testimoni e intimi. Mancava Caterina, che ritroveremo poi sposata a tale Antonio del Vacha, detto Accattabriga, soprannome che non prometteva nulla di buono. In gioventù doveva essere stato un soldataccio di ventura.

Nelle note del catasto di Vinci per l’anno 1457 si trova che nonno Antonio, di 85 anni, abitava nel popolo di Santa Croce, era marito di Lucia, di anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d’anni 30, sposato ad Albiera, ventunenne. Convivente con loro era “Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legiptimo nato di lui e della Chatarina, al presente donna d’Achattabriga di Piero del Vacca da Vinci, d’anni 5”.
Albiera non poteva avere figli e Piero aveva accolto in casa l’illegittimo. Intanto Caterina lavorava con il marito un piccolo appezzamento di proprietà e i campi delle suore del convento di San Pier Martire.
Nonno Antonio morì novantaseienne, nel 1468, e negli atti catastali di Vinci Leonardo, che ha diciassette anni, risulta suo erede insieme con nonna Lucia, il padre Piero, la matrigna e gli zii Francesco e Alessandra. L’anno dopo, la famiglia del padre, divenuto notaio della Signoria fiorentina, e quella del fratello Francesco, che era iscritto nell’Arte della seta, erano in una casa di Firenze, abbattuta già nel Cinquecento, nell’attuale via dei Gondi.
Madonna LittaDell’Accattabriga si hanno invece notizie da un verbale di citazione durante un processo alla Curia vescovile di Pistoia. La data è il
26 settembre 1470, dopo i disordini verificatisi all’inizio del mese nella pieve di Santa Maria di Massa Piscatoria, nella palude di Fucecchio. Alcune persone, armate di lancia, capeggiate da due preti (uno della diocesi di Lucca, l’altro sotto la potestà del vescovo di Firenze) avevano disturbato la celebrazione durante la festa in onore della Madonna e interrotto la Messa. Antonio fu chiamato a testimoniare ma non si presentò.

Di Caterina si sa che fu donna prolifica, e da Accattabriga ebbe sicuramente almeno quattro femmine e un maschio. Rimasta sempre lontana da Leonardo, si ricongiungerà al figlio – pare certo – nel 1493 a Milano. E in una casa di Porta Vercellina, nel territorio della parrocchia dei Santi Nabore e Felice, morirà il 26 giugno 1494, dopo lunga malattia. Per le cure prima e poi per i funerali, Leonardo annotò le spese (eccessive per una servente, non certo per una madre): “Quattro chierici, cinque sotterratori, un medico, le candele…”.
Oggi Caterina ritorna in scena. A parlarci di lei sono le impronte digitali del figlio, quei polpastrelli che hanno creato uno sfumato magico, inimitabile. Evocano la donna, quelle ditate rimaste fra il cielo e il fogliame che fa da sfondo al ritratto di Ginevra Benci o su un disegno della Battaglia di Anghiari, fra i capelli di Cecilia Gallerani o sulle pagine dei Codici voltate con mani sporche.
Gli studi sulle impronte di Leonardo sono stati illustrati da Luigi Capasso, direttore dell’Istituto di antropologia e del Museo di storia delle scienze biomediche dell’Università di Chieti e Pescara, e da Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale di Vinci.
“Sulle pagine e sui dipinti di Leonardo – ha detto Capasso – possiamo trovare tantissime tracce, non necessariamente dell’epoca, come per esempio macchie, aloni e tracce biologiche. Il nostro primo compito è stato quello di distinguere le tracce sincroniche da quelle non sincroniche e ci siamo concentrati sulle macchie d’inchiostro, dato che è stato più semplice stabilire se la macchia derivava dallo stesso inchiostro usato per vergare le frasi”.
Proprio nelle macchie d’inchiostro sono state scoperte numerose impronte digitali, anche se parziali, che hanno portato alla ricostruzione di un intero polpastrello dell’artista.

“L’impronta – ha aggiunto Capasso – ha tra l’altro una struttura a vortice con diramazioni a y, dette triradio: tale tipologia di impronte è comune a circa il 65% della popolazione araba”.
“A questo punto – ha affermato Vezzosi – si rafforza l’ipotesi che la madre del genio fosse orientale: nello specifico, secondo i miei studi, una schiava”.

Un museo del fascismo a Predappio? Perche' si

Un “museo del ventennio fascista” a Predappio, paese natale di Benito Mussolini: è l’idea del sindaco eletto nel Pd, Giorgio Frassineti, che ieri l’ha illustrata in un’intervista al direttore del Foglio. “Non voglio celebrare ma solo raccontare”, sostiene Frassineti, e lo storico e giornalista Paolo Mieli gli dà credito: “Sono a favore di quel progetto per due motivi. Il primo è che Predappio è già meta di ininterrotti pellegrinaggi di nostalgici. Non siamo di fronte a una situazione in cui il sindaco si inventa qualcosa per sfruttarlo. Cerca semmai di mettere ordine e di dare un carattere scientifico a qualcosa che già avviene, per trasformare quello che oggi è un mausoleo dei nostalgici in qualcosa di più serio, in una opportunità di conoscenza
Il secondo motivo è che questo genere di istituzioni sono più che mai utili in epoca di perdita di memoria storica.
A patto, naturalmente, che a occuparsi della loro gestione non siano i delegati dei partiti ma studiosi di provata serietà. Faccio un nome: lo storico Beppe Vacca, studioso di Gramsci e autore di un’introduzione di grande pregio al libro pubblicato da Laterza che raccoglie i due scritti principali di Togliatti sul fascismo (‘A proposito del fascismo’, del 1928, e ‘Lezioni sul fascismo’, del 1935). Morale: realizzato a Predappio, un museo che potrebbe perfino chiamarsi ‘del fascismo e dell’antifascismo’, tanto per dissipare ogni possibile dubbio, avrebbe la funzione di offrire, là dove oggi c’è una raccolta di cimeli, un serio itinerario di conoscenza e di approfondimento storico. A questo proposito – continua Mieli – nella mia esperienza di autore di programmi televisivi dedicati alla storia ho constatato che nulla riscuote interesse quanto quelli che si occupano del ventennio. Abbiamo provato a capire come mai, e sappiamo che non c’è nessun retroterra nostalgico. C’è invece la voglia di capire meglio qualcosa che ha così fortemente segnato la storia italiana e che non smette di provocare contrapposizioni aspre (basti ricordare, a metà anni Novanta, la contestata decisione dell’allora sindaco romano Francesco Rutelli di dedicare una via al gerarca Giuseppe Bottai, che non poté realizzarsi a causa delle polemiche)”.
L’idea di ospitare un museo del fascismo nel luogo di nascita di Mussolini e non altrove, secondo Mieli è utile “a emancipare quel luogo dalla funzione di meta nostalgica. 
La conoscenza non deve far mai paura e, attuato con criteri di serietà, un museo del fascismo a Predappio non sarebbe qualcosa di ambiguo o negativo. 
Sui modi di realizzarlo, penso per esempio a una saletta dove venga proiettato in continuazione un programma che nel 1972 segnò uno dei punti più alti di sempre nella divulgazione storica televisiva. Mi riferisco a ‘Nascita di una dittatura’ di Sergio Zavoli, che si avvalse anche della consulenza di Renzo De Felice, e che diede la parola, senza mai uscire dai binari del rigore, a decine di protagonisti degli anni che videro l’affermazione del fascismo. Quanto al comitato scientifico, vedrei con favore la presenza di due storici come Emilio Gentile e Giovanni Sabbatucci”.
Proprio quest’ultimo spiega però al Foglio di non condividere l’idea del sindaco di Predappio, “e non perché in teoria non sarebbe desiderabile un luogo dedicato alla memoria del ventennio, e in particolare un museo, visto come strumento tra gli altri di approfondimento e conoscenza. Ma solo in teoria – puntualizza Sabbatucci – perché nella realtà e nella stragrande maggioranza dei casi, i musei sono spazi che per forza di cose diventano celebrativi. Non vale l’esempio del museo berlinese della Shoah, che ha la funzione di perpetuare la memoria di qualcosa che non smette di essere oggetto di negazionismi. Mentre già immagino il museo del fascismo di Predappio diventare oggetto di contese e lamentele senza fine, che di scientifico avrebbero ben poco. Non credo che la cosa cambierebbe nemmeno se, invece di Predappio, si scegliesse una sede nazionale più importante, come Roma o Milano. Sarebbe perfino peggio, perché almeno a Predappio il museo conserverebbe un carattere più defilato”.
La sfiducia in un progetto di museo del fascismo, spiega ancora Sabbatucci “non va naturalmente confusa con l’idea di rinunciare all’approfondimento su quel ventennio così importante. 
Ben vengano le esposizioni temporanee (come quella romana sull’Eur, per esempio, dove abbiamo visto anche una testa in bronzo di Mussolini). Ma diffido, considerato il tema, della forma museale permanente, per il rischio di cristallizzazione di negatività e ambiguità che necessariamente comporterebbe”.

Chi si e' venduto i maro'?

Iniziato con anni di ritardo davanti al “Tribunale Internazionale del Mare” l’arbitrato sulla vicenda della Enrica Lexie, dei pescatori indiani uccisi sul peschereccio Saint Antony e dei Marò Italiani tenuti in ostaggio in India, sono subito cominciate ad emergere prove tutt’altro che segrete, di molte delle quali avevamo dato conto con i nostri scritti, di un’incredibile “combine”, nella quale i nostri Marò, anziché il ruolo degli “assassini” (come disinvoltamente sono stati definiti in parecchi documenti indiani) sembra abbiano quello delle “vittime sacrificali”, gentilmente offerte proprio da mani e cattive coscienze italiane a copertura di chi sa quale altro delitto da altri commesso.
Un tradimento di fronte al quale aver parlato di “mercato dei Marò” è cosa che sembra doverci rendere responsabili di eccessivo riguardo per chi li ha “forniti” quali, capri espiatori, in cambio di chi sa quali affari.
Anche se l’Arbitrato internazionale non dovrà risolvere direttamente problemi di responsabilità ma di giurisdizione, dalle carte esibite proprio dagli Indiani risulta che i due poveri marinai non furono uccisi dalle armi in dotazione ai Marò
Lo avevamo già scritto. 
Ma chi aveva il dovere di esserne informato assai meglio di noi andava parlando di “non provata innocenza” dei due militari italiani (queste le espressioni di Emma Bonino, una volta militante del garantismo ed ora sostenitrice della necessità di “svuotare le carceri”) mentre qualcun altro parlava di accordi con l’India per una condanna “clemente” a “non più di sette anni di carcere”.
Ma l’interrogativo vero ed angoscioso è questo: perché tanto servilismo da parte delle Autorità militari (Ministro delle Difesa, Ammiraglio Di Paola) e diplomatiche (Ministri e vice ministri degli Esteri Bonino, Pistelli) e dei presidenti del Consiglio (Monti, Letta, Renzi) con un ritardo nella richiesta dell’Arbitrato internazionale ripetutamente e bugiardamente dato come per richiesto
Un ritardo che ha danneggiato per più versi i nostri Marò dando al mondo l’impressione che fossimo noi a doverne temere la decisione, e rendendo ancor più gravi le sofferenze dei due nostri Militari
Per non parlare della clamorosa baggianata della revoca della decisione, già annunziata, di non consentire la “restituzione” all’India di La Torre e Girone. 
Quale “affare” si temeva potesse danneggiare un atteggiamento di piena difesa dei diritti dei Nostri? 
E quali patti oscuri erano stati combinati con i più corrotti potentati indiani che non consentissero di difendere adeguatamente i nostri Militari
Sono interrogativi angosciosi che tuttavia non possiamo non porci.