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giovedì 26 settembre 2013

"Vado all'estero per la mia start-up", il boom di imprese oltre confine

 



di Maurizio Di Lucchio
26 settembre 2013

Andare all’estero non per trovare lavoro ma per crearlo. Ecco l’ultima direzione che ha preso la fuga dei cervelli made in Italy. Con un po’ di fantasia si potrebbe definirla “delocalizzazione prenatale”: prima ancora di aprire un’impresa in Italia, molti giovani con idee imprenditoriali fanno la valigia e vanno a fondare startup oltre confine.
I motivi principali che spingono a cercare gloria fuori Italia sono la facilità nell’ottenere finanziamenti, gli sgravi fiscali e, soprattutto, una cultura di impresa più preparata ad accogliere aziende attive in ambito digitale e ad alto potenziale di crescita. Le destinazioni più frequenti? I più noti paradisi per startup, come la Silicon Valley negli Usa e Israele, creano agli europei qualche grattacapo dal punto di vista burocratico e giuridico. Così, le mete preferite dagli startupper tricolori sono Londra, Berlino e le altre capitali del Nord Europa.
Nella capitale britannica è sbarcata per esempio la veronese Sarah Raniero, ingegnere gestionale di 26 anni, per fondare insieme alla madre e alla sorella WhereInFair, un sito di servizio per le imprese che partecipano alle fiere.
«Abbiamo scelto questa città – racconta la giovane imprenditrice – perché la tassazione sulle imprese è bassa e l’ambiente è un concentrato di innovazione: East London, l’area in cui ha sede l’incubatore che ci ospita, Google Campus, è pieno di imprenditori da tutto il mondo, coworking ed eventi in cui far nascere idee e collaborazioni».
Creare la compagnia è stato semplice. «A noi, con il metodo tradizionale, sono bastate due settimane», continua la fondatrice e ceo di WhereInFair. «Ma si può fare anche tutto online: il costo va da 17 a 200 sterline. E non c’è nessun notaio da pagare».
Londra però non è il capolinea: la società è stata selezionata per un programma di accelerazione di impresa in Cile. «Ci trasferiamo lì per almeno sette mesi e poi si vedrà», dice. Dall’Europa al Sudamerica, quindi. Ma tornare in patria per ora non è in programma. «Mi spiace portare ricchezza in un altro paese che non sia il mio. Però l’opzione di restare in Italia non l’ho proprio considerata quando mi sono imbarcata in quest’avventura».
Nicola Farronato, esperto di marketing, si è trasferito a Dublino nel 2010, in piena crisi irlandese. Con il suo socio Paolo Panizza, ingegnere, aveva un obiettivo: avviare una società per sviluppare MySmark, una piattaforma che consentisse agli utenti di fare commenti emozionali interattivi ai contenuti di un sito, a un evento, a un brand e così via.
Il progetto, utile per il marketing online, è diventato la startup B-Smark, che ha ricevuto già nel 2011 il primo finanziamento. «Non sono i benefici fiscali ad averci portato qui », spiega Farronato.
«Abbiamo scommesso sull’Irlanda perché è all’avanguardia nell’ambito del web semantico: gli investitori non faticano a capire ciò di cui parli. In Italia il supporto all’imprenditoria innovativa è ancora limitato: basti pensare che a Bassano del Grappa, da dove provengo, è difficile persino trovare professionisti in grado di orientarti alla creazione di una srl semplificata».
La storia di Francesco Baschieri, ingegnere informatico fondatore della piattaforma per le radio web Spreaker, attraversa più paesi. Il progetto è nato a Bologna, dove lo startupper ha costituito una prima società nel 2010. Poi si è allargato nella Silicon Valley, dove è stata fondata un’azienda gemella per muoversi sul mercato principale, quello Usa.
Nel 2013, infine, la sede operativa in Europa è diventata Berlino. È qui che si sono trasferiti gli sviluppatori che lavoravano in Italia. «Cercavamo una nuova sede ma alcune persone dello staff non erano disposte a trasferirsi in nessuna città italiana», racconta il ceo di Spreaker. «L’idea di andare a Berlino è piaciuta a tutti: è economica, “cool” e offre molte opportunità in ambito informatico».
E non è vero – aggiunge – che avviare un’impresa in Germania è più semplice: «Dal punto di vista burocratico in Italia è più facile: per aprire una srl a Berlino siamo impazziti. Il vero problema del nostro Paese, e io l’ho verificato con i nostri partner negli Stati Uniti, è la difficoltà di far valere i contratti a livello giuridico: gli investitori non si sentono garantiti e non investono».
La migrazione coinvolge anche l’imprenditoria che punta sulla manifattura. È il caso di Alive Shoes, un portale di e-commerce in cui gli utenti possono crearsi le proprie scarpe e venderle. «La startup ha una sede ad Amsterdam, nell’acceleratore Startupbootcamp, e una in Italia, nelle Marche, dove si concentrano produzione e logistica», spiega uno dei co-fondatori, Luca Botticelli. In Olanda, dopo il terzo mese di accelerazione, gli startupper hanno potuto presentare la loro idea davanti a un parterre composto da banche, 400 investitori, la commissaria europea Neelie Kroes e persino la Regina Beatrice.
« In Olanda – osserva – abbiamo ottenuto finanziamenti in poco tempo, sgravi fiscali e continue dimostrazioni di interesse. Nel nostro paese invece c’è un contesto che ancora non capisce il web: io ho provato parecchi progetti di innovazione digitale, soprattutto nel settore delle scarpe, ma non c’è stato niente da fare. Adesso stiamo pensando di spostare una parte del team a Berlino o di aprire un’altra società. Di Italia, però, non si parla nemmeno».

twitter@maudilucchio

L'Italia e' ufficialmente in vendita

 



 
Il Ministro Saccomanni, da Mosca dove partecipa al G-20, con un’intervista a Bloomberg TV, fa sapere al mondo che siamo pronti a vendere tutto quello che ci è rimasto: Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Fincantieri e reti di tubi, cavi, fili ottici, ecc. (Telekom, Saipem, Terna,ecc. ecc.).
Il tutto per ridurre d’un tratto una quota consistente di debito pubblico. La pressione del debito sull’Italia arriva al suo obiettivo principe, denudare il paese del controllo delle sue imprese strategiche ancora in parte in mano pubbliche e regalarle al mercato globale, alla ricerca insaziabile di commodities tariffarie permanenti con cui spennare i cittadini nei prossimi decenni e, dall’altra parte, per cancellare gli ultimi residui di sovranità reale e politica del paese.
La colonizzazione dell’Italia sta concludendosi con il più classico degli esiti delle procedure da indebitamento previste dai manuali neoliberisti di area anglosassone, già sperimentati in ripetute occasioni nel corso degli ultimi 30 anni a discapito dei paesi dell’est Europa e del sud del mondo.
Il bel boccone sta per essere ingoiato grazie alla collaborazione attiva e fattiva della fraziona nazionale della grande borghesia globale (economico-politica), di cui il governo di larghe intese con a capo il giovane pupillo di Bilderberg e Trilaterale Enrico Letta  (che succede al professore –tecnico- di Bilderberg e Trilaterale Mario Monti), è l’espressione mondana e volgarizzata ad uso delle masse.
D’altra parte, se andate a rileggervi le intenzioni del giovane Letta in tempi non sospetti, vedrete che il progetto è in campo da tempo e che non è affatto casuale che proprio lui sia stato nominato premier.
La nuova colonia del sud Europa, con le spalle al muro per non aver saputo reagire alle pressioni in atto da anni e per non aver avuto la forza di far pagare il debito a chi lo ha prodotto e a coloro che ci si sono arricchiti, devolve ora il suo residuo patrimonio agli stessi soggetti: usurai internazionali e nazionali e coloro che vi orbitano attorno come satelliti locali acquisiranno i beni; con i loro introiti pagheremo gli interessi sul debito agli stessi soggetti centrali e periferici che “compreranno” le quote in vendita. Una partita di giro colossale e definitiva che cancella un patrimonio costruito con il lavoro di 4 e passa generazioni di italiani.
Parallelamente, come conseguenza di queste scelte e a seguito delle enormi ristrutturazioni che avverranno sul corpo dei beni pubblici, sarà ulteriormente attaccato il patrimonio privato delle famiglie: case e compagnia bella, già per altro abbondantemente a rischio.
C’è pochissimo tempo per tentare di opporsi a questo disegno che altrimenti conformerà il futuro delle prossime generazioni.

Dopo Merkel comincia l'Asta Italia: via Telecom

 

telecom Il simplicissimus
 
 
 
Alberto Capece
24 settembre 2013
 
Con straordinario tempismo, non appena la Merkel è stata incoronata, la classe dirigente italiana ha cominciato l’opera di svendita del Paese e delle sue residue strutture industriali. Sarà anche una coincidenza, ma il passaggio di Telecom al passaporto spagnolo, sembra proprio pensato da uno sceneggiatore fin troppo schematico nella scelta dei tempi. Naturalmente non appena si è diffusa la notizia che Telefonica aveva acquisito la maggioranza dell’azienda italiana il titolo è cresciuto forse nella speranza che il nuovo padrone procederà ai licenziamenti di rito. Naturalmente esclusi in via ufficiale (da Letta) per chi crede in Babbo Natale.
Eh sì perché in realtà l’acquirente spagnola ha ancora più debiti di Telecom, 50 miliardi contro 40,  quindi non entra certo per fare investimenti, quelli in banda larga per esempio, ma per gestire il lucroso affare dello scorporo della rete. Però questo interessa poco ai capitan coniglio del capitalismo italiano che intanto hanno fatto cassa con 324 milioni. E tanti saluti al fatto che ormai il Paese è totalmente fuori dal settore strategico della telefonia ad eccezione di qualche società minore.
Ma naturalmente non ci si ferma qui: anche Finmeccanica si appresta a cedere l’Ansaldo Energia ai coreani e Sts e Breda agli americani, mentre Air France metterà a breve le mani su Alitalia per trasformarla in una piccola compagnia regionale, per non parlare dei cinesi che hanno avviato trattative su autostrade e altre opere pubbliche mentre anche la vecchia e gloriosa Eni  (Enrico Mattei si sta rivltando nella tomba) è in odore di asta: far cassa, far cassa prima del disastro. E nel mezzo di tutto questo un sistema politico ormai patetico nella sua inadeguatezza vaneggia di crescita e di ripresa mentre si appresta a vendere tutto pur di non affogare nel deficit.  E’ come quella scena del Giro del mondo in 80 giorni, quando Phileas Fogg cannibalizza il vascello che lo riporta in patria per avere qualcosa da bruciare nelle caldaie dei motori.
Il fatto è che la dottrina dell’austerità sposata fino al suicidio da un Parlamento in preda al delirio, non ci sono più risorse se non per l’ordinaria amministrazione e la Cassa depositi e prestiti non può fare altro che rompere il salvadanaio per i debiti correnti, senza alcuna possibilità strategica. Industria pubblica e anche privata addio e per quattro soldi, con tutte le conseguenze del caso: licenziamenti, delocalizzazioni, scomparsa di competenze, di sistemi, di indotto. Poi rimarranno solo i monumenti e peccato che non ci sia più il profetico Totò con la sua fontana di Trevi. Almeno era un napoletano di genio, mica un rimbambito.

mercoledì 25 settembre 2013

Letta: un inesperto al governo del Paese

 

 

Martedì, 24 Settembre 2013
Ma quando ho letto la motivazione con la quale Letta giustificava quella provocatoria dichiarazione, che offendeva milioni di elettori dell’indiscutibile perseguitato qual è Silvio Berlusconi, son balzato sulla sedia incredulo che si potesse affermare che “sarebbe paradossale se nel momento in cui presentiamo un piano per l’attrazione (sic!!!) degli investimenti esteri passasse il messaggio contrario”, e cioè che in Italia non c’è certezza del diritto, e senza questa certezza qualunque investitore straniero scapperebbe a gambe levate.
Il signor Letta, di sicuro, ha dimenticato lo stupro della credibilità del Paese quando è stato rescisso il contratto con la cordata di imprese italiane e straniere (spagnole, danesi, giapponesi) che avevano vinto la gara d’appalto per la costruzione del Ponte sullo Stretto e stavano già lavorando per finire le opere propedeutiche e passare alla costruzione vera e propria del manufatto? Ha dimenticato che quella rescissione del contratto d’appalto per la realizzazione di un progetto redatto da prestigiose società di progettazione che operano a livello mondiale, costerà al Paese oltre che fior di quattrini per le penali che si dovranno sborsare, la cancellazione dell’Italia dall’elenco dei Paesi dove investire?
Ci vuole una gran bella faccia tosta a far finta che quella cancellazione non provocherà alcun danno mentre i danni ci sarebbero se passasse l’idea che Berlusconi è un perseguitato da una Magistratura impegnata a distruggerlo politicamente, fisicamente ed economicamente. Si, ci vuole coraggio a comportarsi per anni contro gli interessi del Paese salvo spararla grossa per accattivarsi le ali estreme interne ed esterne al suo partito, facendosi guidare dai ghigliottinatori dei media barricadieri.
Ma questo atteggiamento dimostra quanto ridotto sia lo spessore di un Presidente del Consiglio che pensa di più a produrre dichiarazioni stando attento ai risvolti della lotta interna al proprio partito dimostrando, per dirla con Giuliano Ferrara, che tutto è fuorché animale politico capace di ripristinare la fiducia, verso il nostro Paese, fortemente incrinata dalla vicenda del Ponte sullo Stretto e tutto proteso veramente a riaprire un discorso per sanare la ferita inferta dal governo del bocconiano.
Non si tratta solo di liquidare una vergogna che psicologicamente ci ha massacrati, ma soprattutto di riuscire ad attrarre gli investitori soprattutto cinesi che, come tutti sanno, erano e sono pronti ad investire in quel progetto e a creare da noi una grande base logistica per la distribuzione in Europa delle loro merci, e anche di battere sul tempo quanti stanno lavorando per tagliare fuori l’Italia dai percorsi ferroviari ad alta velocità per il trasporto dei container da e per il Nord Europa. Di sicuro il nostro Presidente del Consiglio non ha mai sentito parlare di FerrMed e, di conseguenza, di percorsi alternativi a quelli italiani. Ha mai sentito parlare di porti spagnoli e francesi? Ha sentito parlare di dorsale slava. O pensa che c’è solo la nostra penisola? In Italia si gioca, negli altri paesi si opera.
Letta sarà gongolante per la prodezza fatta nel difendere l’indifendibile, ed avrà anche ricevuto attestazioni di sostegno dai pigmei del PD, ma ha dimostrato la propria incapacità per cui prima passa la mano è meglio è per il Paese e per il Mezzogiorno. L’Italia ha bisogno di statisti e non di portaborse.

Il 476 d.C. nel futuro dell'Europa

 

 

Domenica, 22 Settembre 2013
Le cose invece piano piano peggioravano. La conclusione non poteva che essere la catastrofe e tuttavia, dal momento che il tempo passava e la catastrofe non si verificava, si sopravviveva in attesa degli sviluppi. Finché, nel 410, Alarico mise a sacco la città. Fu un avvertimento che non poteva essere ignorato, ma non si vedeva quale risposta si potesse dare: sarebbe stato necessario resuscitare quei romani guerrieri e patrioti che si erano ripresi persino dopo la sconfitta di Canne. La vita riprese a scorrere, forse si sperò che il destino decidesse autonomamente di salvare Roma, e invece arrivò Odoacre.
Quando il male progredisce, il passare del tempo non deve rassicurare. Una malattia asintomatica non è per questo meno grave: bisogna curarsi come se si stesse soffrendo molto e solo uno sciocco non lo farebbe, con la scusa che sta benissimo. A tutto questo si pensa mentre in Europa siamo in una situazione non dissimile da quella di Roma durante la decadenza. Da un lustro abbondante vediamo la crisi aggravarsi e da un lustro abbondante ci limitiamo ai palliativi. Ognuno spera che la tegola cada sul prossimo governo.
Il nostro tumore (maligno?) si chiama euro e i suoi guasti sono evidenti. Purtroppo ogni rimedio sembra peggiore del male. Se lo si annulla, può darsi che alcuni Stati molto indebitati falliscano. E mentre loro precipiterebbero in tragiche crisi economiche, cesserebbero di rimborsare i titoli detenuti dagli altri Stati, fino a provocare la crisi anche da loro. Si pensi che la Germania ha in portafoglio titoli dei Paesi che ha aiutato per circa 530 miliardi di dollari (Stratfor, 918). Ammesso che non si abolisca l’euro, ammesso che alcuni stati ne escano, ammesso che si creino un euro debole e un euro forte, può sempre avvenire che alcuni Stati vadano in default e si riproduca lo schema di prima. Basta che le Borse si spaventino. Allora si può ipotizzare che si permetta l’immissione di molta moneta nel sistema, per rilanciare l’economia: ma se il debito pubblico di un Paese come l’Italia continua ad aumentare nel momento in cui si tirano i freni al massimo e si tassa a morte il popolo, in quel caso il debito si metterebbe a galoppare, i risparmiatori potrebbero non comprare più i titoli, le Borse potrebbero spaventarsi e saremmo così nel caso precedente.
I motivi per non toccare il sistema sono impressionanti ma questo non impedisce che siano sbagliati. Se il male non guarisce e tende a peggiorare, per quanto catastrofiche possano apparire le cure, bisogna avere il coraggio di sceglierne una. A chi facesse mille obiezioni bisognerebbe chiedere: “Bene, questa terapia ti pare sbagliata. Ora facciamo che la crisi, invece di doversi dichiarare domani, si sia dichiarata ieri: che fai?”
Il nostro caso è esemplare ma il problema non è solo italiano. La stessa Germania si trova di fronte a dilemmi ineludibili e insuperabili. Se non aiuta i Paesi in difficoltà, questi falliscono e viene giù tutto il sistema. Se li aiuta diviene ancor più loro creditrice e in caso di loro fallimento la pagherebbe carissima. Inoltre, se la crisi continua, i Paesi dell’eurozona hanno sempre meno denaro per comprare i suoi prodotti e ciò ha notevoli effetti negativi sul suo export, che oggi è loro destinato per più della metà: con gravi riflessi sulla sua economia. La cosa ha già cominciato a verificarsi. Ma d’altra parte, come fare uscire questi Paesi dalla crisi, se la pressione fiscale, resa obbligatoria dall’euro, li tiene in catene?
Il quadro è ben noto. Ciò che qui interessa sottolineare è che l’attuale politica tedesca, italiana e in generale comunitaria tende a preservare il modello attuale. Ma il modello attuale tende a sua volta al peggioramento della situazione: con buona pace di tutti i nictalopi che vedono luci in fondo al tunnel. La prospettiva, nel medio termine, è lo scoppio finale. Non sarebbe meglio pensare ad una soluzione oggi che Alarico non è ancora arrivato? È da stolti pensare che tutto s’aggiusterà. Se noi non reagiamo, la storia non avrà certo la gentilezza di cambiare direzione per non farci soffrire.
pardonuovo.myblog.it

domenica 22 settembre 2013

Senatori a vita. Cio' che si prevedeva e' accaduto

Bartolomeo Di Monaco

21 settembre 2013

L’assenteismo è un male comune tra i nostri parlamentari. In mancanza di tornate di voto significative (quali ad esempio quelle sulla fiducia al governo), essi preferiscono badare ai fatti loro.
I senatori a vita (ovviamente salvo eccezioni) sono tra gli assenteisti più tradizionali. Spesso è l’età a tenerli lontani dai banchi del senato, se non le frequenti malattie.
Non è ancora svanito il ricordo della senatrice Montalcini portata in barella in aula per poter dare il suo voto di fiducia al governo Prodi, che minacciava di essere impallinato dall’opposizione.
I senatori a vita nominati recentemente da Napolitano sono abbastanza giovani e soprattutto (importante per i più anziani di loro) in ottima salute.
Niente quindi avrebbe dovuto impedire che costoro, gratificati generosamente da Napolitano che ne ha messo il salatissimo costo sulle spalle dei già tribolati cittadini, si facessero vedere in parlamento con una tolleranza di assenteismo non superiore a quella dei senatori eletti dal popolo.
Una persona normale avrebbe considerato che insieme con l’accettazione del laticlavio fosse implicita anche l’assunzione dei doveri che accompagnano la vita parlamentare di un senatore.
Altrimenti sarebbe stato assai più corretto reclinare la nomina e motivare il rifiuto con l’impossibilità di assicurare – per le più varie ragioni, compresa la propria professione –  una presenza compatibile con l’incarico.
Ciò non è accaduto, come dimostra l’articolo di Paolo Bracalini e Francesco Cramer apparso stamani sul Giornale, in cui si documenta che tre dei quattro prescelti e nominati da Napolitano non si sono mai fatti vedere, e la quarta, la Cattaneo (quella più giovane, di 52 anni), è stata in aula due volte, accreditandosi con una percentuale sbalorditiva di presenza, pari all’1,45%.
Nella seduta di ieri il leghista Stefano Candiani, proprio perché si stava parlando di cultura, li ha cercati guardandosi intorno e chiedendosi dove si fossero nascosti, non volendo pensare che fossero assenti ad una seduta in cui si affrontavano temi culturali, di cui essi apparivano i migliori conoscitori e dunque i più competenti a orientare il parlamento verso le soluzioni più appropriate.
Ma niente. Si è capito perciò che per essi vale il vecchio adagio: è bene suggere dalla puppora dello Stato i maledetti quattrini, ma guai a scomodarsi per esso.
Salvo… Salvo quando si dovesse arrivare (e l’aria che tira è propria questa) al voto di fiducia sul governo pericolante di Enrico Letta. Allora i quattro moschettieri si presenteranno in aula armati della loro spada e al servizio del Re.
Candiani ci ha promesso di lavorare ad un disegno di legge che tolga di mezzo, finalmente, questa anacronistica carica, ormai utilizzata solo a fini politici.
Faccia presto, però.

Dritto e diritto

 

 
 
Davide Giacalone
Sabato, 21 Settembre 2013
 
Hanno appena eletto il nuovo presidente della corte Costituzionale, ancora una volta violando il quinto comma dell’articolo 135 della Costituzione. Il più alto organo garante della costituzionalità compie atti incostituzionali (al fine di avere il più alto numero di presidenti possibile, mandandone in pensione lestamente il più alto numero d’emeriti). Siamo il Paese più condannato alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, per denegata giustizia. I diritti umani (mica quello d’usucapione d’un fabbricato rurale) sono da noi violati, prevalentemente, perché non si riesce ad amministrare giustizia in tempi accettabili. Pur non essendo più litigiosi di altri, non ammazzando o derubando più di altri, e pur avendo un numero di magistrati per abitante superiore alla media europea. Spendiamo anche più di quella media. Non ci dovrebbe mancare nulla, invece ci manca la giustizia.
La Banca Mondiale e l’Ocse (da ultimo con uno studio del giugno scorso) ci ricordano che investire da noi è sconsigliabile, e in effetti lo si fa assai meno che in altri paesi paragonabili, perché non c’è da fidarsi della giustizia. Posto tutto ciò, condivido le parole di Enrico Letta: siamo uno stato di diritto. Lo siamo, ma non funziona.
Letta ha pure detto che da noi non ci sono perseguitati.  Anche qui condivido, ma si deve intendersi. In nessun sistema di diritto è possibile cancellare l’errore. E’ amaro, ma è così. Da noi se ne commettono. Avrà anche lui letto di ergastolani riconosciuti innocenti dopo dieci, quindici o venti anni di galera. Se si dicono perseguitati, vogliamo dare loro torto? Saprà, suppongo, che circa la metà della popolazione carceraria è composta da persone che non scontano una pena, ma attendono una sentenza. Molti di loro neanche la sentenza: aspettano che la procura finisca le indagini (che il codice prevede ragionevolmente brevi, ma che le procure rinnovano ed estendono sempre). Ha presente, il presidente Letta, il trauma di un arresto che spezza una vita? Se poi si è assolti, come capita a moltissimi, è irragionevole dirsi perseguitati? In questo caso non dalla giustizia, ma dai funzionari dell’accusa e da quei giudici, per niente terzi, che presiedono alle indagini.
Ma Letta si riferiva alla politica, voleva dire, suppongo: da noi non ci sono perseguitati politici. Condivido. E’ così. Da noi non c’è qualcuno che sconta per le proprie idee, c’è che la politica è sotto scacco, balbetta e soccombe sotto al maglio di una giustizia uscita dai binari. Semmai qualcuno se ne fosse dimenticato, rammento che il governo di Romano Prodi cadde per delle inchieste, mentre arrestavano i familiari del ministro che a quel settore era stato da lui (e dalla maggioranza) preposto. Silvio Berlusconi è “solo” il leader più singolarmente forte di questa lunga (e persa) stagione, denominata “seconda Repubblica”. E’ quello dotato di maggiore consenso personale. Quanti sentono la magistratura come un potere, quanti vogliono affermarne la supremazia sugli altri poteri, non potevano che provare a masticarlo. E’ stata lunga e dura, mentre altri venivano triturati e sputati. Hanno prevalso. A questo punto Berlusconi ha un problema personale, il suo elettorato ha un problema di rappresentanza (questione delicatissima, in democrazia), ma tutti gli altri, Letta compreso, devono decidere: si fa la riforma della giustizia, come anche il presidente della Repubblica reclama, immagino ben sapendo che siamo uno stato di diritto, oppure la politica accetta la resa e festeggia il potere che la conquista. Potere non democratico, perché forse a qualcuno sfugge, ma “stato di diritto” e “democrazia” non sono sinonimi (per questo “magistratura democratica” è inquietante, ma anche gli “indipendenti” et similia non scherzano).
Che si fa, presidente Letta, ci complimentiamo con la corte Costituzionale che riduce in coriandoli la Costituzione e accettiamo che un ordine diventi potere, restando irresponsabile? Sono certo che non lo pensa. Capisco che si sia nella fase in cui ogni provocazione è buona, pur di fare cadere il governo che si presiede e pur di non fare i conti con l’avere sbagliato di conto. Ma qui c’è un’occasione straordinaria di longevità e stabilità governativa: preserviamo la democrazia e lo stato di diritto, affermiamo il necessario equilibrio e l’indispensabile coessenza dell’una e dell’altro, quindi prendiamo la riforma della giustizia e mettiamola al centro delle riforme condivise. A cominciare da tempi certi, responsabilità per gli errori commessi, separazione delle carriere e garanzia d’indipendenza. Sarebbe un trionfo, un modo per tirare dritto e diritto. Sarà un tonfo, invece, se ci si ostinerà ad avere un governo che ignora la più evidente realtà, afferma il falso e svillaneggia il capo dello Stato, lasciando intendere che va benissimo così quel che dal Colle si sollecita a cambiare, costringendo Giorgio Napolitano a correggere un tiro governativo decisamente fuori bersaglio.