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venerdì 4 ottobre 2013

La pelle di Berlusconi


Giovedì, 03 Ottobre 2013
Alcuni si chiedono se non si sia venduta la pelle dell’orso prima di averlo ammazzato. Se cioè non si sia dato troppo presto per spacciato Silvio Berlusconi, forse con ciò tradendo un segreto desiderio. In realtà il pessimismo potrebbe non avere nulla a che vedere con l’ostilità a quell’uomo.

Una persona mentalmente sana non gioisce mai degli infortuni altrui. Romano Prodi Primo Ministro non era una persona simpatica a molti. Quel suo modo di sorridere e di farfugliare con fare vagamente parrocchiale ispirava un incompressibile moto di fastidio. Ma come non sentire un’umana simpatia per il modo in cui, dopo i mille sforzi da lui fatti per tenere insieme una maggioranza scombiccherata, fu cacciato da Palazzo Chigi dopo meno di due anni?
Bersani poteva stufare con i suoi paragoni caserecci, ma come non simpatizzare con lui quando, dopo che non riuscì a combinare un governo con i “grillini”, gli si fece pagare, solo a lui, un errore che era stato di tutto il partito? Figurarsi dunque se si può gioire del tramonto di Berlusconi. Soprattutto pensando che è stato annichilito più da una persecuzione giudiziaria che da una lotta politica vincente.
L’ipotesi che la parabola di Berlusconi sia finita solo per una magra figura in Parlamento non nasce dal piacere di infierire sull’idolo caduto: nasce dalla qualità stessa di quel personaggio. Il grande leader è tale perché vede la soluzione giusta mentre tutti gli altri non la vedono. E cessa di essere tale quando sbaglia clamorosamente. Perché l’incanto si rompe. Per giunta intorno a Berlusconi si è consolidata la leggenda secondo cui lui non è il leader, e neppure il capo del suo partito: ne è il padrone. Del Pdl si è sempre parlato come di un “partito proprietario” e degli aderenti ad esso come di yes men. Ed ecco che ora i suoi non gli obbediscono più: questo è l’incanto che si rompe. Mentre il Pd è sempre stato visto come un partito plurale, e perfino caotico, il Pdl è sembrato come un nickname di Berlusconi. La gente parlava di votare per lui o contro di lui. Non solo quest’uomo è stato mitizzato da chi lo votava, è stato mitizzato soprattutto da chi lo odiava. Fino a farne un colosso, un gigante che poteva stare a gambe larghe con un piede in Sicilia e uno in Lombardia. Se per la sinistra era la “causa di ogni male”, era per ciò stesso il primo motore del Paese.
Un tale personaggio non può permettersi una figuraccia squalificante. In passato a sinistra lo crocifissero per uno sciocco lapsus (“Romolo e Remolo”), figurarsi se non lo si considererà l’ombra di sé stesso dopo che il partito gli ha disobbedito. Dopo che ai contestatori è riuscito il tentativo che a Fini è costato la vita politica. Ora che si può contestarlo e sopravvivere.
Naturalmente non si può essere sicuri di ciò che avverrà. Per Napoleone ci fu un futuro anche dopo l’Elba. Ma le previsioni ragionevoli rimangono negative. Presto sarà agli arresti domiciliari o affidato ai servizi sociali (nientemeno!), decadrà da senatore e rischierà che un qualche pm di provincia in cerca di visibilità lo faccia mettere in galera: perché potrebbe fuggire, potrebbe reiterare il reato, potrebbe indurre le sue figlie alla prostituzione. È veramente possibile continuare ad essere leader di un grande partito, in queste condizioni?
Berlusconi ha commesso l’errore di non riconoscere in tempo i segnali. Finché la Cassazione lo ha assolto dalle mille accuse che gli sono state rovesciate addosso, ha contato sul fatto che, dopo tutto, a Berlino ci sarebbe sempre stato un giudice. Dopo che è stato condannato per azioni altrui di cui sarebbe stato “informato”, senza neppure dire da chi (l’ha chiesto l’avv. Coppi, dopo l’intervista del Presidente Esposito), il buon senso avrebbe dovuto comandargli di prendere un aereo per le Bahamas e restarci. Invece ha voluto resistere ad ogni costo. Come non sapesse che non si può vincere se anche l’arbitro tira nella nostra porta. E qui l’arbitro non rischia nulla: né una sanzione disciplinare, né la disapprovazione del pubblico, artatamente indottrinato a credere che “le decisioni dell’arbitro non si discutono, si rispettano e si applicano”.
Proprio Berlusconi, che è stato considerato l’arcinemico della magistratura, ha avuto in essa una fiducia che Piero Calamandrei non si sarebbe mai sognato d’avere. Se l’avessero accusato di avere rubato la Madonnina del Duomo di Milano, disse, si sarebbe dato alla latitanza. E dire che, in materia di magistratura, erano altri tempi.
 
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giovedì 3 ottobre 2013

Il dopo Berlusconi

 


Mercoledì, 02 Ottobre 2013
In realtà, i veri motivi per i quali si sono avuti gli avvenimenti degli ultimi giorni saranno chiari quando saranno svelati tutti i fatti, non i soliti retroscena un po’ fantastici di cui sono riempiti i giornali. E ciò avviene con molto ritardo. Dunque può essere ragionevole lasciare le speculazioni ai giornalisti e la verità alla storia. Vivendo nel presente ci si può soltanto chiedere qual è l’effetto possibile del diminuito peso politico di un Berlusconi declassato a capo inascoltato di un partito gregario di Enrico Letta. Ed anzi, ci si può chiedere che cosa ciò significhi nella realtà italiana l’essere entrati nel dopo-Berlusconi.
Il campione è colui che segna un’epoca col proprio nome. Mike Tyson, per quanto grezzo e selvaggio, è stato un grande campione di pugilato, e la sua fama ha illuminato sia l’avversario che ha battuto per divenire campione, sia chi in seguito ha battuto lui, sia infine chi l’ha battuto senza che potesse rialzarsi. Ma tutti costoro, anche grandi, sono i deuteragonisti della storia: il protagonista è rimasto lui, come a suo tempo lo fu Cassius Clay. Vale per i grandi nomi dello sport, della storia, della scienza e naturalmente della politica.
Dall’autunno del 1993 l’Italia ha vissuto sotto il segno di Berlusconi ma in politica le cose non vanno come vanno nello sport, in cui si rende onore anche al concorrente sconfitto. In politica la lotta è molto più rude, molto meno leale e diviene facilmente scontro e persino odio personale. Ciò è stato particolarmente vero e particolarmente giustificato in questo caso perché la sinistra ha sempre saputo che chi batte un normale segretario di partito ottiene soltanto il cambio di un politico incolore con un altro politico incolore; mentre chi fosse riuscito a battere Berlusconi forse avrebbe eliminato definitivamente il centrodestra. Con lui una vittoria del suo partito era sempre possibile. Il centrosinistra comunque non è mai riuscito a batterlo veramente e alla fine, se ne ha ottenuto la testa, è stato perché gliel’ha consegnata la magistratura. Ma poco importa. Interessa soltanto – se si guarda al futuro – che la politica prevedibile sarà multipolare. In questo gioco della carambola mancherà il pallino.
Per parecchi versi sarà un vantaggio. Ci si libererà, per cominciare, del brutto vezzo di parlare troppo di Berlusconi. Per quest’uomo hanno votato milioni di italiani i quali però, il giorno dopo, pensavano ad altro; mentre ci sono stati altri milioni di italiani – e fra loro moltissimi giornalistiche a lui hanno pensato continuamente, giorno e notte, per dargli la colpa del fatti più inverosimili: pioveva perché era ladro Berlusconi. Andò al potere nel marzo del 1994, cadde nel dicembre e – cosa indimenticabile – si parlò subito di un governo che nel corso di anni “mettesse rimedio ai guasti del governo Berlusconi”. Un governo durato circa otto mesi, vacanze incluse. Neanche il tempo di scaldare le sedie. E così sempre in seguito. Berlusconi è stato un immenso fastidio per chi vedeva in lui un nemico e un immenso fastidio anche per chi lo votava. Fra l’altro perché era vietato dirne bene: si era subito accusati di essere sul suo libro paga.
Il berlusconismo, più che un partito politico, è stato una tendenza elettorale;  l’antiberlusconismo, invece, una religione e una monomania. I suoi aderenti più appassionati sono stati fastidiosi e vagamente disgustosi come certi ditteri chiamati scientificamente Scatophagae Stercorarie e in francese, brutalmente, mouches à merde. La fine dell’antiberlusconismo, o la sua riduzione ad insignificanza, ci libererà da questa mitologia. Da domani la politica sarà uno scontro fra comprimari e mancherà un comodo bersaglio cui far risalire ogni colpa e ogni guaio.
Berlusconi sarebbe potuto uscire di scena con ben diverso stile, magari non cambiando vorticosamente posizione nel giro di pochi giorni. Ma la fine della sua parabola non può che essere accolta con un sospiro di sollievo. Suvvia, signori antiberlusconiani, suvvia signori diversamente berlusconiani, fateci vedere di che cosa siete capaci, ora che non avete più la testa di turco.
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mercoledì 2 ottobre 2013

Velenoso trasformismo

 


Martedì, 01 Ottobre 2013
Affondiamo nell’ipocrisia. Ci prendiamo in giro da soli e facciamo anche finta di crederci. Ora è il turno della legge elettorale, che nessun partito ha voluto cambiare, ma tutti s’affannano a dire che andrebbe cambiata. Mandino una lettera alla Befana, che s’avvicina. Gli unici chiaramente conservatori dell’esistente sono gli ortotteri, che s’accorsero di quanto le false vittorie siano utili a distruggere i presunti vincitori. Ineluttabile sorte dei nostrani sfasciacarrozze, presto assisi dentro al cocchio.
Per capire la miseria del nostro dibattito interno volgiamo lo sguardo a quel che avviene, proprio in queste ore, in Germania: a. Angela Merkel ha vinto le elezioni con il 41,5% dei voti, roba che da noi nessuno se lo sogna; b. non avendo preso la maggioranza assoluta le mancano 5 voti per la fiducia al governo; c. al contrario del Prodi che pendeva dai senatori a vita e del Berlusconi che s’abbandonò allo scilipotismo (qui criticati fin da subito, non post tombolo), Merkel non va a caccia di traditori altrui, ma di accordi politici; d. per decidere se starci o meno i socialdemocratici non tramano fra supposti maggiorenti, ma convocano un congresso e, a maggioranza, avviano le trattative; e. Peer Steinbrueck, il loro leader sconfitto, annuncia il ritiro. Credete che tutto questo si debba al sistema elettorale o a quello istituzionale? No, si deve alla serietà. Che qui scarseggia.
Enrico Letta ha detto, naturalmente parlando in un contenitore televisivo, ospite del conduttore fraterno, perché da noi anche la forma istituzionale è andata a farsi benedire, ha detto che se la maggioranza non c’è si deve andare a votare, ma certamente dopo avere riformato la legge elettorale. Giusto, ma allora perché, quando il governo nacque, sostenne che quella riforma l’avremmo fatta in coda alle riforme costituzionali? Noi scrivemmo che solo gli illusi potevano crederci, come s’è ovviamente dimostrato, ma dal governo fecero i furbi per allungarsi la vita. Come quella pubblicità della compagnia telefonica, sicché continuando a parlare a vanvera si ritardava l’operato del plotone d’esecuzione (al capo del governo piacciono i riferimenti culturali, e non sia mai noi lo si deluda). Inoltre: se la maggioranza non c’è, con cosa pensa di riformarla, la legge elettorale? Pensa a un decreto post sentenza costituzionale? In altri tempi i suoi compagni lo avrebbero definito “colpo si Stato”.
Dice Letta: la legge in vigore non va bene, perché non consente la scelta dei parlamentari e non garantisce la maggioranza al Senato. Quella in vigore fa schifo, cosa che sostenemmo nel mentre la discutevano. Ma fa schifo perché è una legge proporzionale con premio di maggioranza, quindi perpetua la necessità di unire i diversi per vincere, salvo poi impedire di governare. Posto ciò, la storia dei parlamentari da scegliere è ipocrisia allo stato puro: o si torna al proporzionale con le preferenze (abbandonato a furor di popolo), oppure i parlamentari li scelgono le segreterie dei partiti (il guaio è che da noi non sono partiti). Cosa che a loro piace da morire. In quanto al Senato, questa è grottesca: la legge originaria rimediava eccome al problema che oggi angustia Letta, prevedendo il premio di maggioranza nazionale anche per il Senato. La maggioranza ci sarebbe stata per legge, come alla Camera. Ma lo si tolse per l’opposizione del partito di Letta (in uno dei suoi formidabili travestimenti e cambi di nome, come lo Stanislao Moulinsky di Nick Carter, sempre per dimostrare che passammo la gioventù nella biblioteca di Recanati) e per l’intervento del presidente della Repubblica, Carlo Azelio Ciampi. Naturalmente salutato come salvatore della Patria. A me avrebbe fatto schifo in entrambe le versioni, ma a Letta dispiace che manchi quel che anche lui volle togliere.
C’è una cosa, però, insuperabile: in una situazione in cui metà degli elettori non sanno che pesci prendere (anche perché olezzano) e l’altra metà si divide in un terzo a destra, un terzo a sinistra e un terzo fra tutti gli altri, con prevalenza di chi predica il vaffa, esiste un sistema elettorale capace di garantire una maggioranza? La risposta è: no. Meno che mai se si passa dal premio di maggioranza al proporzionale variamente coniugato. Tanto è vero che la scorsa legislatura si chiuse con larga coalizione, l’attuale barcolla con la medesima e la prossima si candida all’eguale. E allora? Allora è pur vero che si devono riformare sia la Costituzione che il sistema elettorale, ma prima di tutto si deve trovare della gente seria, che abbia una condotta seria, pur nutrendo idee diverse. Gente che non pensi l’incoerenza e il trasformismo siano manifestazioni di vivace intelletto. Sono degli inutili il finale diletto.
 

martedì 1 ottobre 2013

Quello che Epifani non ha capito sulla deindustrializzazione italiana

 


Primo Gonzaga
Martedì, 01 Ottobre 2013
In particolare, Piller ha chiesto al segretario del PD "come pensa di attirare investitori esteri se Fiat sta lasciando l’Italia" e ancora "come pensate di attrarre la Volkswagen se anche Marchionne scappa?". Epifani ha ribaltato il concetto spiegando che la Fiat non è l’Italia e che in Italia ci sono tante altre imprese che esportano e che vanno bene. Una classica frase da politico senza il supporto dei dati.
In economia, più delle parole contano i numeri e i numeri sono impietosi: l'Italia nel 2000 produceva 1 milione e 422 mila autovetture. L'anno scorso siamo arrivati a poco più di 390.000.(- 72.5%!). La produzione è diminuita di 1/4 rispetto a 12 anni fa, lo dice la Organisation Internationale des Constructeurs d’Automobiles OICA.
Confrontando la produzione di autovetture in Italia con quella in Gran Bretagna c'è un'altra brutta sorpresa. Nel 2000 la produzione inglese era di 1 milione e 640 mila auto. E’ scesa a 990.000 al culmine della crisi del 2009 ma poi si è ripresa e nel 2012 la produzione è ritornata a 1.460.000 veicoli (fonte OICA). In Gran Bretagna la stragrande parte dell’industria automobilistica appartiene a multinazionali estere in gran parte americane o giapponesi.
Le statistiche dei produttori sono fuorvianti e il consumatore italiano quando acquista una FIAT pensa di acquistare un’auto prodotta in Italia mentre in realtà la maggior parte delle vetture sono costruite in Polonia o negli Stati Uniti. Invece molte auto vendute in Europa da giganti come Ford o Toyota pur non avendo un marchio inglese sono prodotte in Gran Bretagna.
Ecco il primo paradosso: un paese pressoché privo di marchi propri sta riprendendo alla grande a costruire auto con gli immensi benefici per l’occupazione diretta e quella dell’indotto, mentre l’Italia ha il proprio campione nazionale (FIAT) che fa di tutto per andarsene a produrre all’estero. Piuttosto che nascondersi dietro alle parole Epifani dovrebbe spiegare i veri motivi di questa debacle.
Sono principalmente 2 le motivazioni della deindustrializzazione del nostro paese: la politica monetaria europea e l’avversione all’impresa e all’economia di mercato di una parte della classe politica italiana. La politica monetaria UE non permette ai diversi paesi di sviluppare politiche economiche anticicliche. L’esempio inglese è lampante. Di fronte alla crisi del 2009 la Gran Bretagna ha stampato moneta favorendo gli investimenti (Quantitative Easing) ed ha svalutato la Sterlina nei confronti dell’Euro permettendo in pochi mesi alle sue aziende di tornare competitive.
Epifani questi concetti sembra ignorarli. Il suo partito è stato per anni il sostenitore dell’austerità e anche ieri sera non ha perso occasione per incensare la neo eletta Cancelliera Merkel. Ma Epifani è stato anche il vero paladino del sindacato politico, poco o nulla interessato a trattare con le imprese su come migliorarne la produttività per poi suddividere tali miglioramenti con i lavoratori.
Cosa dovrebbe fare allora l'Italia? La ricetta è una sola. Il governo deve rinegoziare con la UE la politica economica e costruire un clima positivo per chi vuole investire in Italia. Altrimenti sara' la fame: quella vera.

lunedì 30 settembre 2013

Non tutto il male....

 


Domenica, 29 Settembre 2013
 
Forse conviene calmarsi. Il governo Letta delle larghe intese, assurde e mai verificate, era bloccato da mesi. Incapace di prendere decisioni significative e tantomeno quelle drastiche necessarie a fare uscire l’Italia da una crisi molto artificiale e voluta dai signori del denaro. Un governo senza idee, e senza progetto, senza visione di lungo termine e senza consistenti strategie. Incapace di decidere nulla se non tasse e balzelli, ma incapace anche di fallire, condannando l’Italia a pagare per sempre il duo debito soffocante senza crescere, senza schizzare fuori dalla palude. Il Governo Letta non aveva nemmeno la forza di morire, prigioniero di un fantasma di stabilità che era solo la maschera del rigore mortale.
Berlusconi, con una visione di grande coraggio e strategia, oppure spinto dalla disperazione e dal terrore per la sua tragica situazione personale (lo sapremo mai?) ha dato la botta mortale a un governo di fatto già morto politicamente. In ogni caso la giustificazione dell’IVA non è all’altezza etica del momento: ancora una volta è stata persa l’opportunità di una posizione più dignitosa politicamente ed eticamente e, sul piano umano, più apprezzabile. Anche la pedestre osservanza dei suoi deputati e ministri potrebbe essere valutata con la stessa ambiguità: il coraggio di morire e di far morire un governo oramai dannoso per il Paese, oppure la servile obbedienza al “padrone” del Partito. Sono probabilmente vere le due ipotesi o comunque equamente distribuite nell’animo diviso del “capo” e fra le truppe dei fedeli. Non lo sapremo mai.
Dall’altra parte se il PD ci teneva molto alla stabilità finta non doveva coltivare lo scontro muro contro muro con la tenacia con la quale lo ha coltivato: anche in quel campo i sotto-partiti sono molti e non sapremo mai quali sono state le vere decisioni politiche e quelle dettate dal rancore e dalla rabbia ammantata di algido rigore giuridico. Ironia in un partito che di compromessi per i suoi sponsor e referenti politici o di denaro ne ha macinati sempre e senza problemi dall’Ungheria all’MPS. Chi aveva problema veniva messo alla porta: Cucchi e Magnani, il gruppo del Manifesto per citare due esempi emblematici. Certo la cosa meno intelligente da fare adesso è il lamento corale che leggiamo sui giornali che strillano denunciando la decisione criminale, l’irresponsabilità, il pericolo di sciagure sui mercati, lo sputtanamento del Paese agli occhi del mondo etc.
Il Paese viene svergognato di più dalle vicende Finmeccanica, ILVA, MPS, Telecom che dalle vicende berlusconiane e l’amplificazione di queste ultime è molto utile per nascondere le prime. Il gesto di Berlusconi va preso in positivo, il coraggio della rottura, indipendentemente dai suoi motivi più o meno laidi, ha di fatto tolto una puzzolente patata bollente dalle mani del Governo Letta e dalle mani del Presidente Napolitano. Smettendola di strillare bisogna utilizzare in avanti la “tabula rasa” che è stata messa a disposizione con suicida generosità dal PdL, avendo ben presente la ferrea legge di Northcote Parkinson: “L’azione occupa lo spazio lasciato liberi dall’inadempienza,” e i suoi pericolosi, ma potenzialmente utili, corollary.

domenica 29 settembre 2013

Il tifoso indignato

 


Gianni Pardo
Sabato, 28 Settembre 2013
Se l’Italia fosse una squadra di calcio che sta irrimediabilmente perdendo la partita, un suo sostenitore dovrebbe essere quasi disperato. Ma se costui fosse un innamorato del bel gioco, vedendo quanto male stia giocando, forse le augurerebbe di perdere in modo ancor più ignominiosoLo spettacolo è desolante. Forse avremo una crisi di governo, forse no; forse sarà colpa del Pd, forse sarà colpa del Pdl, forse sarà colpa della magistratura politicizzata, ma che importa? Nella nostra eterna guerra civile a bassa intensità non serve distinguere i torti dalle ragioni: è più semplice dare torto a tutti. Perfino le originarie parti lese (ammesso che ci siano) hanno commesso tanti di quei falli di reazione che, come per le faide, le ragioni del contendere sono ormai dimenticate. Rimane l’odio puro e semplice.
Anche in questa guerra, come sempre, la prima vittima è la verità. Il Pdl insiste sull’illegalità dell’applicazione retroattiva della legge Severino, ed effettivamente che nessuna norma penale vada applicata retroattivamente è un principio che, dal Settecento, è considerato Vangelo in tutte le legislazioni civili. Ma, appunto, la legge Severino è una norma penale? Inutile chiedere: ognuno vi darà la risposta preconfezionata che serve alla sua tesi. Altra domanda: la Giunta del Senato è un organo giurisdizionale che deve applicare il principio nullum crimen sine praevia lege poenali o è un organo politico, che deve decidere secondo equità e opportunità? Anche qui, inutile porre domande. E se i quesiti fossero altri, si può contare che le risposte sarebbero sempre di parte. Come chiedere all’oste se il suo vino è buono.
Altro fatto: con la sua posizione di chiusura, il Pd offre al Pdl la scusa per far cadere il governo. Che cosa ne ricava? Per quel che se ne capisce, l’onore di avere dato un calcio nel sedere a Silvio Berlusconi. Ma possibile che quella pedata valga una grave crisi politica? Ci devono essere ragioni più serie: neanche lo scemo del paese crederebbe che ci si stia strapazzando tanto per applicare scrupolosamente le norme di legge. A meno che l’intenzione del Pd non sia proprio quella di provocarla, la crisi, un motivo potrebbe essere che si è già impegnato a comportarsi così e non vuole fare la cattiva figura di cambiare opinione. Un altro che la base li accuserebbe di avere favorito il Cavaliere.  Ma ancora una volta, al prezzo di una crisi? E fornendo al Pdl su un piatto d’argento la possibilità di incolparlo – magari in malafede – di averla provocata?
Un uomo di sinistra potrebbe pensare che questa sia l’unica occasione di eliminare Berlusconi e che dunque il Pd fa benissimo. Ma ciò è assolutamente falso. Innanzi tutto la Giunta non decide: rinvia al Senato per la votazione in aula. Dunque si tratta di qualche settimana di più o di meno. E c’è di più: il 19 ottobre la Corte d’Appello di Milano condannerà Berlusconi a tre anni o poco meno di interdizione dai pubblici uffici e lo farà decadere da senatore. Inevitabilmente. E allora, di che stiamo discutendo? Di qualche giorno di differenza?
Né più chiara e plausibile è la posizione del Pdl. Se vuole la crisi, invece di correre l’alea del pentimento di coloro che hanno già firmato le dimissioni (documento privo di valore giuridico) perché non ritira i ministri e toglie la fiducia a Letta? O vuole arrivare al bizantinismo di votare la fiducia al governo il due ottobre e farlo cadere il quattro, dopo la riunione della Giunta? Se uno credesse che le ragioni dell’agire di tutti sono quelle che abbiamo sotto gli occhi, ci sarebbe da pensare che abbiamo a che fare con dei dementi. Dunque è inutile cercare di capire mosse e contromosse. Qui si dànno più calci negli stinchi che al pallone.
Si prenda il caso dell’aumento dell’Iva dal 21 al 22%. Per andare contro il Pdl, il governo non lo blocca e dice agli italiani: “Vedete? A causa loro pagherete tutto più caro”. Sarebbe un buon argomento se, per evitare quell’aumento, il governo non avesse avuto in animo di chiedere soldi alle imprese e aumentare di due centesimi il prezzo della benzina. Dunque il Pdl dirà: “Vedete? Siamo riusciti ad evitare il solito aumento della benzina, perché siamo ancora al governo. E quanto all’aumento dell’Iva, noi abbiamo tentato in tutti i modi di bloccarlo. Ci siete testimoni”. Chi dice la verità? Non importa. Quando si spara contro l’altra trincea non si mira a questo o a quello, l’essenziale è che il nemico muoia.
Le squadre che rappresentano l’Italia giocano così male che si può rimpiangere soltanto che non possano perdere tutte. Sette a zero.
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