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venerdì 8 maggio 2015

Caso maro'. Vergogna! Arbitrato dopo 3 anni

Vergogna! Vergona! Vergogna!
Dopo tre anni, nel corso dei quali il Governo Italiano ha raccontato le più invereconde bugie sulla questione dei Marò, bugiardamente dichiarando per bocca dei ministri, più volte, di “aver intrapreso”, di “stare per intraprendere” la via dell’arbitrato internazionale (che, nientemeno, doveva accompagnare il rifiuto di farli tornare in India prima del tradimento del Governo Monti) e dopo aver dato per imminente il raggiungimento di un accordo con l’India (magari quello “di non più di sette anni di carcere…”) ora l’annuncio che le trattative con il Governo Indiano sono fallite e che a giugno “se ne prenderà atto” e si inizierà la procedura di arbitrato.

Stiamo facendo di fronte al Mondo la figura dei buffoni. Ed un nuovo, vergognoso tradimento, una beffa senza pudore è consumata sulla pelle dei nostri Militari. Ma tutto tace. Nemmeno più le scritte “portiamo a casa i nostri Marò”. Sono scomparse anche a Brindisi.
Invitiamo tutti gli amici ad unirsi a questa nostra protesta. A scrivere al Ministro della Difesa, al Sindaco di Brindisi. Basta con questa degradante presa in giro del Popolo Italiano.
Se i nostri Governanti sono buffoni, noi non dobbiamo seguire il loro esempio. Bisogna prendere nuove iniziative. Denunziare ministri, funzionari e generali, tutti i responsabili.
Bisogna che capiscano che non ci faremo fregare nel sonno!!    

Avere senza dare

La suggestione dei diritti senza doveri ha figliato l’illusione dell’avere senza dare. Tale dileggio delle compatibilità e della ragionevolezza nasce dall’allucinazione secondo cui ciò che è pubblico deve essere inteso come una specie di dispensa, che ciascuno può aprire per prendere, prima perché ne ha bisogno, poi perché ne ha voglia, infine perché non sa cos’altro fare. E trova nella Corte costituzionale il suo accreditatore culturale, sì che la società dei viziati non abbia a sentirsi tale, ma, semmai, accolita di giusti cui è sottratto il dovuto. Leggete la sentenza sulla legge Fornero, quella che stabilisce il diritto di tutti all’adeguamento delle pensioni ai prezzi, e ponetevi una semplice domanda: chi paga? Sappiate che è l’unica che non si sono posti, in quell’alto consesso.
La legge Fornero, del 2011, fu strappo brutale e impreciso. Lo strappo accorciò i tempi di un processo riformatore che si trascinava da anni. Processo spinto, giustamente, dal centro destra e risospinto indietro, ingiustamente, dal centro sinistra. Alla Lega che ha disciolto la memoria occorrerà ricordare che lo “scalone”, ovvero una leggera accelerazione dell’innalzamento dell’età pensionabile, porta il none dell’allora ministro del lavoro, Roberto Maroni. Al Partito democratico, che suppone la storia si possa scrivere a maggioranza, va ricordato che furono loro a cancellare lo scalone, mettendolo sul conto dei precari. Prima di volerli eliminare, dunque, li impoverirono. I precari sono ancora lì, però, più poveri di futuro. Appunto. Fu impreciso, lo strappo della Fornero, perché il correre appresso ad un’emergenza di cui non seppero vedere e aggredire le cause, fece commettere errori gravi, come quello degli esodati. Oltre a produrre la lacrimazione ministeriale.
Quella legge, però, partiva da un’evidenza che rimane tale ancora oggi: le pensioni in pagamento hanno un valore largamente superiore alla ricchezza accumulata mediante i contributi versati. La metà delle pensioni esistenti non ha relazione con quei versamenti. La differenza ce la mettono gli altri, i lavoratori e i contribuenti di oggi. Decisero, allora, di bloccare la perequazione per chi incassava più del triplo della pensione minima. Misura rozza, certo, ma non priva di senso. Ora la Corte dice che fu violato un diritto costituzionale, perché la Carta afferma l’inviolabile diritto a vedere aggiornato il valore della pensione. Ammesso (e assai non concesso) che si trovi un tale scritto, la domanda è: chi paga? Nella Costituzione hanno trovato anche un comma che dice: chi lavora oggi e non avrà la pensione uguale a quella di ieri, ha comunque il dovere di pagare per quella degli altri, imparagonabilmente più alta di quella che li aspetta?
Occorrerebbe avere un quadro preciso, sapere, dalla pensione più povera a quella più ricca, quali, quante e di quanto si discostano dal valore dei contributi versati. Poi si può decidere di regalare ricchezza a chi ha la fortuna d’essere nato prima, togliendola a chi è nato dopo. Si può decidere di essere generosi solo con i poveri, tagliando i diritti acquisiti di chi non lo è (ma qui si deve essere onesti, senza legarsi all’ipocrisia che vuole “ricchi” i piccolo borghesi). Si può deliberare dopo avere conosciuto. Tito Boeri ha promesso questi dati. Bravo, li attendiamo. In ogni caso non c’è un vincolo costituzionale a remunerare il passato impoverendo il futuro, se non per quel che corrisponde al patrimonio da ciascuno accumulato. Toccare il quale sarebbe furto.
Ma, dice la Corte, il governo non ha ben spiegato quali esigenze finanziarie giustificassero un tale provvedimento. Si può invecchiare senza perdere il senso dell’umorismo, e gli attempati della Consulta ce ne danno conferma. Sicché, nel 2011, non leggevano i giornali. Né in italiano, né in una qualsiasi delle lingue dell’Unione europea. E ora pretendono di saper fare i conti meglio dell’Istat, dell’Inps, della Ragioneria generale dello Stato e del governo. Il che può pure essere, se non fosse che i conti non li fanno proprio. Si limitano a dire: qui c’è un diritto ad avere, sicché voi avete il dovere di scucire. Sì, ma chi paga?
Pagano quelli che non avranno. E si paga con un aumento del deficit. Che porta un aumento del debito, il cui costo fa sì che ogni euro speso a buffo ci costa più di un euro. La via sicura verso la bancarotta. Ma non abbiate paura, quel giorno chiameremo la Corte e la faremo giudicare incostituzionale.
Davide Giacalone
@DavideGiac

Abbiamo superato Macchiavelli

Da un redazionale di economia del Corriere della Sera apprendiamo che, secondo la nota Cgia di Mestre, il “buco” della mancata rivalutazione delle pensioni, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, ci potrebbe costare non i 4,9 miliardi di cui si è letto, ma ben 16,6 miliardi. Una voragine finanziaria. E infatti ecco che il Sottosegretario all’Economia e segretario di Scelta Civica, Enrico Zanetti. interviene al riguardo per dire, se pure “a titolo personale” (ma non tanto), le seguenti ispirate parole: “Escludo che sia possibile restituire a tutti l’indicizzazione delle pensioni: per quelle più alte sarebbe immorale e il Governo deve dirlo forte”. Queste opinioni non gli sono scappate in un momento di distrazione. Infatti ha aggiunto: “Per quanto riguarda Scelta Civica dico che è impensabile pensare di andare a restituire l’indicizzazione anche per le pensioni di molte volte superiori alla minima”. Queste affermazioni inducono a sapide considerazioni.
Innanzi tutto, se il Sottosegretario Zanetti sostiene l'effettiva e per così dire “materiale” impossibilità di restituire tutto quel denaro, dice cosa non vera. Uno Stato, come quello italiano, che ha contratto debiti per circa 2.100 miliardi, non si spaventerebbe certo dinanzi alla necessità di contrarre debiti per altri dieci o venti miliardi. Insomma questa è stata semplicemente un'affermazione azzardata che il Sottosegretario si sarebbe potuta risparmiare. E tuttavia, come ipotesi di scuola, facciamo che quella restituzione sia seriamente impossibile. Che cosa ne conseguirebbe?
Se la restituzione di quel denaro indebitamente sottratto a milioni di pensionati fosse effettivamente impossibile, se ne dovrebbe dedurre che la sentenza della Consulta non potrebbe essere applicata. Dunque non avrebbe valore giuridico: e sarebbe uno straordinario risultato, per una Corte così prestigiosa.
Dicendo che quella sentenza non avrebbe valore giuridico, non s'è voluto esagerare o fare una battuta. Basta chiedersi: una sentenza può ordinare ad un cittadino di svuotare il Lago di Garda? Oppure di portare in Tribunale, come testimonio, Giordano Bruno? O anche di costruire un motore che vada ad acqua? Certamente no. Un ordine impossibile non soltanto non va eseguito ma delegittima l'autorità che lo ha emesso: sia perché rende lecite le perplessità sulla sua salute mentale, sia perché, in futuro, rimarrà il dubbio su chi avrà il potere di decidere se un ordine sia possibile o impossibile.
Lasciamo dunque da parte l'ipotesi-limite dell'impossibilità totale e facciamone una seconda, più moderata. Forse Zanetti intendeva semplicemente dire che, per le finanze dello Stato, l'applicazione pedissequa di quella sentenza sarebbe una decisione tanto rovinosa da essere impraticabile. Dunque non un'operazione materialmente impossibile, ma economicamente e politicamente impossibile. Purtroppo, questa seconda versione ha esiti ancor più problematici.
Innanzi tutto rimarrebbe provato che l'applicazione della decisione della Corte dipende dalla volontà politica. E – chiaramente – la volontà politica della Corte sarebbe per l'attuazione ad ogni costo. E ciò mentre la sua competenza dovrebbe essere esclusivamente giuridica. Ma c'è di più. In caso di contrasto, la volontà politica della Corte Costituzionale deve prevalere sulla volontà politica del governo, o la volontà politica del governo deve prevalere sulla volontà politica della Corte?
Il problema è spinosissimo. Se in questa occasione il governo dichiara “politicamente inattuabile” la decisione “politica” della Consulta, con ciò stesso dichiara che anche in futuro si riserva il diritto di considerare politica e inattuabile qualche altra decisione. E a quel punto, chi dirà chi ha ragione e chi ha torto?
Fino ad oggi, a parere di chi scrive, molte sentenze della Corte hanno avuto valenza politica, ma la nazione ha continuato a ritenere che l'obbedienza a quelle decisioni fosse inevitabile. Il governo ha dovuto subire che fossero cassati perfino provvedimenti a tutela della libertà personale dei membri dell'esecutivo (lodo Alfano). Stavolta invece la Corte è andata oltre il limite ed il bubbone è scoppiato.
Qualche commento merita pure l'affermazione di Zanetti secondo la quale far valere la decisione della Corte anche per le pensioni più alte, corrispondenti a molte volte l'importo delle pensioni minime, “sarebbe immorale e il Governo deve dirlo forte”. Da un lato dunque le sentenze della Corte sono applicabili o non applicabili secondo ciò che decide la politica, dall'altro sono applicabili o non applicabili in base alle idee morali del governo. Machiavelli ci insegnò che la politica va spesso oltre la morale, Zanetti ci insegna ora che la politica, quando si ammanta di morale, può anche andare contro il diritto. Che progresso, dal Cinquecento a oggi.
Gianni Pardo
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