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venerdì 3 giugno 2016

La ferocia del buonismo

C’è della ferocia, nel buonismo sugli immigrati. Accogliere tutti quelli che vogliono entrare in Italia, per fermarsi o transitare, è un’opzione impossibile. Neanche da prendere in considerazione. Per questo le parole di Nunzio Galatino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, sono pericolose. Alimentano l’illusione che regge lo sfruttamento dei disperati.
La tesi di Galatino è che chiunque si metta su un barcone è, per ciò stesso, in diritto d’avere asilo. Immagino la gioia dei trafficanti, ma è un’affermazione priva di logica e diritto. L’asilo e la protezione è un dovere nei confronti dei profughi, naturalmente nei limiti del possibile. L’accoglienza degli emigranti, invece, è un’opportunità, che va governata. Se lo si fa bene si produce convenienza, per chi accoglie e per chi arriva. Ove se ne perda il controllo si producono disastri e degenerazioni razziste. Per distinguere occorre esaminare i singoli casi. Per farlo è necessario avere uno spazio giuridico che lo consenta. Per questo, da anni, andiamo ripetendo che va fatto in zone extraterritoriali, a cura dell’Unione europea (e non di un singolo Paese), sotto quella giurisdizione. Esaminare, del resto, comporta l’assentire e il respingere. Come si fa anche al portone del Vaticano.

Che il disagio economico sia sufficiente a creare un diritto a essere accolti non è solo privo di fondamento, ma un fondamentale errore. Perché condanna le zone di provenienza a eterna povertà. Si deve aiutarli colà dove si trovano? Certo, se possibile. 
Aiutare lo sviluppo significa creare le condizioni per la crescita della ricchezza. Il che comporta far funzionare il mercato. La carità è pelosa, quando si parla di masse di persone, intere aree del mondo e diverse culture. La convenienza è assai più onesta. C’è un punto, però, che i cultori dell’aiuto in loco puntualmente scantonano: che si fa se guerre e faide rendono impossibile l’aiuto, o lo trasformano in potere nella mani di soggetti riprovevoli? Si lascia che rimedino gli interessati o si interviene dall’esterno? Perché la seconda cosa ridischiude le porte al colonialismo, che per altro verso non ci si stanca di condannare. Come se tutte le colpe del mondo fossero solo nostre e senza di noi regnerebbe l’eden.
Noi italiani abbiamo un problema in più: siamo la frontiera europea esterna più esposta, dopo che quella greca è stata protetta dai turchi. La fregola dei muri è per noi una fregatura, tappandoci fra mare e muro. E più sono permeabili le porte esterne più si chiuderanno quelle interne. Il rimedio consiste nel chiamare gli europei dell’interno a presidiare con noi il solo confine reale, quello esterno. Senza egoismi e piccinerie. Né nostre né altrui.

giovedì 2 giugno 2016

Salviamo la nostra lingua

Giampiero Pallotta
02 giugno 2016


Più ci penso e più mi convinco che quello che sta succedendo alla nostra lingua è sintomo d’un Paese che non sta bene con sé stesso.
L’italiano di oggi si trova in uno stato pietoso che provoca malessere sico a coloro che amano la propria lingua, e si rendono conto che e’ una lingua ammalata. L’italiano è affetto da troppi “anglicismi” che lo indeboliscono e lo rendono banale.
Non si tratta certamente di quei neologismi che appartengono alla sfera delle scienze e della tecnologia, e cioè al mondo delle scoperte scientiche e delle invenzioni tecnologiche, mondo da tempo dominato da Paesi di lingua inglese, non si tratta di questo lessico, lessico,  dopotutto,  preso in prestito in gran parte dal latino e dal greco, ma si tratta di quel lessico, espressioni e modi di dire.
Non è altro che uno specchio d’una società imitatrice, priva d’immaginazione, priva di creatività, priva di orgoglio e priva d’amore per la propria lingua e cultura, e piena di complessi d’inferiorità.
Sebbene i cambi linguistici sono qualcosa di normale e sono segno di essibilità e vitalità, l’uso assolutamente innecessario, sproporzionato, arbitrario e fuori luogo di una serie di anglicismi non è altro che il segno di una pseudocultura che si manifesta attraverso la televisione, la radio e la stampa, e che inne arriva nella bocca di tutti. È molto facile vericare, mentre guardiamo la televisione o leggiamo i giornali, che chi usa anglicismi, quando potrebbe usare uno dei tanti vocaboli italiani di analogo signicato, è di solito una persona banale, un po’ sciocca, semicolta o, peggio ancora, pseudocolta
Queste persone banali, sciocchi e pseudocolti sono i veri responsabili di questo sfacelo linguistico, di questo scempio culturale, proprio perché devono parlare e scrivere bene, con eleganza di stile, e, allo stesso tempo, con semplicità e chiarezza.
La gente comune non fa altro, come è naturale, che imitare e copiare coloro che sentono e leggono frequentemente, coloro che, colpiti da un complesso d’inferiorità e da un senso di insicurezza personale, credono di dimostrare più cultura, più intelligenza, più eleganza e più fascino usando parole “straniere”. 
Secondo me, tutto questo e’ francamente sconcertante.  Chi vogliono ingannare questi buffoni?
Questo linguaggio assomiglia più a quello di noi italiani residenti nei paesi anglofani che a quello degli italiani che non hanno mai messo il naso fuori del loro paese. C’è una bella differenza però. Ci sono diverse ragioni per cui noi italiani residenti in paesi anglofoni, senza rendercene conto, abbiamo fatto una mescolanza (un mix per i moderni!!) di lessico inglese e fonetica italiana, ma per gli italiani d’Italia non ce n’è nessuna.
Cosa poi dire della stragrande maggioranza delle colonne sonore dei programmi televisivi, dei films e dei documentari italiani che adottano canzoni in lingua americana/inglese? Quanti sono a capirne il testo? Perche’ pagare milioni e milioni di diritti di autore ad artisti stranieri? Non sarebbe piu’ opportuno attingere ad autori italiani di tutti i tempi e far rimanere la valuta in Italia finanziando i propri artisti? 
Gli italiani in Italia non sono piu’ orgogliosi di essere italiani al contrario di noi italiani residenti all’estero.

  


lunedì 30 maggio 2016

Le nuove paure che stanno svegliando l'Europa

Forse solo la paura convincerà l’Europa a smuoversi. A prendere quelle decisioni che molti ritengono essenziali per la sopravvivenza dell’Unione, ma che un Consiglio europeo dopo l’altro vengono regolarmente rimandate.
Secondo quanto scrive qualche giornale europeo, alcuni capi di governo dell’Ue, in particolare i leader di Germania, Francia e Italia, avrebbero dato mandato ai loro «sherpa» di preparare un Piano B, cioè un programma da attivare nel caso il referendum del 23 giugno portasse la Gran Bretagna fuori dall’Unione.
È probabile che lo stesso accada fra cinque mesi, alla vigilia delle elezioni americane e di fronte alla possibilità che Donald Trump sia il nuovo presidente. In un caso la paura è che l’abbandono di Londra porti alla disgregazione dell’Unione o comunque rafforzi il potere di ricatto di Paesi, come l’Ungheria, che si stanno sempre più allontanando dai valori fondamentali dell’Europa. Ci sono anche preoccupazioni più concrete. Ad esempio in campo militare: nel 2010 Parigi e Londra firmarono un accordo di cooperazione molto ampio che comprende anche l’armamento nucleare. Sopravviverebbe questo accordo alla Brexit?

Nell’altro caso, l’eventualità che Donald Trump sia il prossimo presidente degli Stati Uniti pone un dilemma all’Europa. Come scriveva domenica scorsa Alberto Alesina, è probabile che Trump, una volta eletto, dimentichi gran parte delle sue promesse.
Ci sono però due aree in cui il presidente degli Stati Uniti ha poteri esecutivi: gli accordi commerciali e quelli sul clima — che cancellerà per poi rinegoziarli su basi opposte a quelle da cui si è mosso Obama — e gli accordi di cooperazione militare, in primis la Nato. La richiesta di Trump che gli europei «si paghino la loro difesa» e cessino di cavalcare la spesa militare americana è popolare negli Stati Uniti, non solo fra gli elettori repubblicani.
Formalmente Trump ha torto. I Paesi della Nato contribuiscono alle spese dell’Alleanza ciascuno in proporzione al proprio reddito: gli Usa per il 22%, la Germania per il 15, Francia, Gran Bretagna e Italia sono intorno al 10. Ma la realtà è che gli Stati Uniti spendono oggi per la difesa una cifra che corrisponde al 3,5% del loro Pil, contro il 2% circa di Francia e Gran Bretagna e l’1% o poco più di Germania e Italia. E quanto gli Usa spendono al di fuori della Nato, ad esempio per garantire la copertura aerea notturna dei cieli di tutto il pianeta, beneficia anche noi. Pagarsi la Nato da soli, non riducendone i compiti, costerebbe agli europei almeno l’1% del Pil all’anno. È evidente che a quel punto l’Alleanza cesserebbe di esistere e verrebbe sostituita da una difesa comune europea.
Sono 60 anni, da quando è nata l’Ue, che gli europei parlano di difesa comune senza combinare nulla. Nemmeno l’Isis è riuscito a far superare le gelosie nazionali. Forse sarà Donald Trump a fare il miracolo, con ricadute positive sull’economia europea. Perché nel momento in cui dovessimo pagare il 100% della Nato dubito continueremmo ad acquistare aerei da caccia americani.
Da quanto si sa del Piano B pare che sia proprio la difesa l’area dalla quale si propone di partire per rispondere alla Brexit accelerando l’integrazione. Lo strumento saranno le «cooperazioni rafforzate», una previsione dei Trattati che consente ad un sottoinsieme dei 27 Paesi (o quanti ne rimarranno) di accelerare l’integrazione in alcune aree, ad esempio la difesa.
Nemmeno la paura, invece, pare essere in grado di far fare passi avanti all’integrazione economica. Qui mi aspetto che il Piano B sarà vago. Sia sulla possibilità di affiancare alla Bce uno strumento fiscale che consenta di controllare la domanda quando la Banca centrale, dopo avere ridotto i tassi di interesse a zero, non riesce più a farlo. Sia sulla possibilità di creare una rete di protezione finanziaria per i Paesi dell’euro, a cominciare da un’assicurazione europea sui depositi bancari e regole applicabili in concreto, non solo in teoria, nel caso una banca fallisca.
La possibilità che una nuova crisi di fiducia colpisca l’eurozona rimane significativa, forse più probabile della Brexit e dell’elezione di Trump. Ma evidentemente le teste (e gli interessi) di alcuni attori della politica europea sono più dure di quelle, pur non tenere, delle gerarchie militari.

Candidati a sindaco di Roma

Tra i film del grande Fellini, quello del quale più spesso mi tornano alla mente le scene, è senz'altro "Roma". Trovo geniale vedere la città eterna con quell'occhio scanzonato e  critico, che secondo me coglie perfettamente il modo di essere di Roma capitale. Ed è tanto penetrante la descrizione che molti romani si sentono offesi per quelle scene, molte delle quali dettate dalla fantasia del maestro. Per quel che mi riguarda, sono romano di adozione, essendo in questa città  nato quasi un secolo fa, ed avendo trascorso in questa tutta la vita: quelle scene non mi offendono e trovo che Fellini colga perfettamente nel segno.
Da allora, il degrado della città ha fatto molti progressi – non è mancato nulla, persino la "mafia capitale" –, ed anche le elezioni alla carica di sindaco vedono in lizza personaggi che, a mio modesto avviso, non avrebbero sfigurato nel film citato. Elezioni che fanno seguito alle dimissioni di un Sindaco che sembrava capitato li per caso, e che è stato defenestrato dallo stesso partito che lo aveva "sponsorizzato" nella elezione. 
Cominciamo dalla persona che è la più accreditata – almeno secondo i sondaggi – a divenire primo cittadino ed amministratore di una città con tre milioni di abitanti, decine di migliaia di dipendenti, una costellazione di società delle quali il comune è azionista. Si tratta della Sig.ra Raggi, giovane, di aspetto gradevole, nessuna esperienza amministrativa o manageriale; in compenso dichiara che per ogni decisione amministrativa (tutte o solo quelle importanti?) – come stabilito per contratto – chiederà lumi alla Casaleggio e Associati o al suo partito. La legittimità di un tale vincolo è oggetto di verifica da parte di un tribunale. Quando questo candidato  parla di programmi,fa delle affermazioni molto generiche: si comincia col dire che la casa è un diritto di tutti, e verrà censito il patrimonio immobiliare; intensificherà la raccolta dei rifiuti; conti alla luce del sole ("trasparenza" quale parola d'ordine).  E così via un elenco di miglioramenti dell'esistente, con una nota di contrarietà per le Olimpiadi. Un programma nel quale nulla è dettagliato, che potrebbe essere quello di un amministratore di condominio in uno stabile nel quale non vi siano lavori da eseguire. 
Segue (nell'ordine delle proiezioni) Roberto Giachetti. Questi difende la sua scelta di non presentare un programma, essendo Roma in una situazione di estrema complessità. Si concede in una specie diintervista. A proposito del traffico, vuole restituire trenta minuti di vita utile ai romani, senza fare però alcun cenno ai modi con i quali agire. Pensa poi di rivitalizzare i tram, ed intervenire sulla ferrovia Roma-Ostia. Un pensiero va alle numerose opere incompiute (Città dello Sport, Nuvola di Fuksas), senza accennare ai denari con i quali terminare le opere. Forse, sperando che Renzi, suo dante causa, li trovi per lui. Pensa infine ad un decentramento valorizzando comitati di quartieri ed associazioni periferiche. Al pari della Raggi, questo candidato non ha esperienze amministrative o manageriali, ma un curriculum di politico puro con esordio  nel partito radicale e successiva militanza nel PD.
Il terzo candidato è Giorgia Meloni, futura mamma. Sono consapevole di essere scorretto con questa precisazione, visto che è stato ribadito da più parti (tutte autorevoli), che le donne sono libere di scegliere indipendentemente da quei ruoli ed incombenze che la natura affida loro. Anche lei, nessuna esperienza di amministrazione, solo una lunga militanza nelle file dei vari partiti di destra, ed una parentesi da Ministro. Parlando del programma, esordisce con qualche luogo comune – invito al voto e al ripudio della violenza – e passa poi a parlare di rifiuti (e chi non è d'accordo su differenziata e riciclo?), di mafia capitale e di tasse (troppo elevate per colpa di Rutelli e Veltroni). Conclude parlando della necessità di una rinegoziazione del debito, di dare maggiore autonomia alla Capitale, e conclude in perfetto politichese, affermando che la sua attenzione per le periferie sarà testimoniata dal comizio di chiusura della campagna elettorale, che avrà luogo in Tor Bella Monaca.
Segue in questa nostra rassegna Marchini, erede di una dinastia di imprenditori, "accusato" nei molti media di possedere una Ferrari. Come noto, essere benestanti, o ricchi, è nel nostro paese una colpa. Marchini non si è fino ad oggi risparmiato negli interventi alle varie trasmissioni TV, tenendo testa alle domande dei giornalisti. Pieno di entusiasmo, tenta di vincere l'ostilità, che grava sempre sugli "intrusi" in politica. E' l'unico tra i candidati che ha presentato un programma dettagliato, ricco di idee interessanti ed innovative. Difficile dire se tutte le proposte  sono realizzabili in un arco di tempo limitato e con mezzi scarsi: interessanti quelle sullo snellimento del traffico (istituzione di nuove linee tranviarie, sfruttando i binari esistenti). Per le ormai famose "buche", presenti in tutte le strade di Roma, si prevedono appalti non per il lavoro da eseguire ma per una manutenzione di lotti di strade. Una idea è particolarmente ambiziosa: si pensa ad un  "Senato Capitolino", formato da personalità avente un ruolo nella vita della Capitale, con compiti consultivi. Temo che non saranno in molti a leggere il programma, di 67 pagine. Molti italiani votano per fede, altri per sentito dire. 
Ed infine, va menzionato Fassina. Sembrava uscito di scena, ma il Consiglio di Stato ha rimesso in gara la lista – respinta per difetti formali, riconosciuti tali dal TAR – con la curiosa motivazione che la presenza di una lista è giovevole al processo democratico. Fassina ha parlato del suo programma in una intervista. E' preoccupato del mostruoso debito e pensa una possibile ri-negoziazione degli interessi. Vorrebbe aumentare in qualche modo gli stipendi dei dipendenti.  Per le strade, pensa che sarebbe utile una fidejussione a garanzia dei lavori; pensa anche come altri di dare maggiore responsabilità in questo campo ai municipi. Fa menzione del problema dei nomadi, e ritiene utile che le scuole, secondo una proposta dello stesso Ministro, rimangano aperte l'estate.
Come dicevo all'inizio, molti dei candidati mi ricordano i personaggi dei film di Fellini. Fassina, nelle sue apparizioni televisive, mi ricorda, con i suoi lamenti, un bimbo maltrattato dai suoi coetanei, che racconta i guai alla mamma. La Sig.ra Raggi, che sappiamo essere telecomandata  da un non identificato "staff" dell' M5S, non fa altro che ripetere che trasparenza ed onestà sono l'unica ricetta per amministrare Roma. L'onorevole Meloni, con i suoi occhioni azzurri, è brillante in un comizio, ma molto modesta quando deve argomentare. Giachetti mi sembra uscito da una di quelle assemblee studentesche  degli anni ruggenti della contestazione.  
Forse, i candidati che ho menzionato non hanno il "physique du rôle": l'unico che a me sembra "normale" è Marchini, il quale ha formato una "squadra" per il governo della città di tutto rispetto. Gli auguro il successo, per il bene della città: ma è azzardato pensare che Roma possa avere un sindaco "normale".