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sabato 19 ottobre 2013

La legge di stabilita'....stabilisce che in Italia non ci sono piu' speranze

   


Giovedì, 17 Ottobre 2013
Il governo del volpino Letta ha messo in piedi un dispositivo ponderoso nel numero e nella complessità dei vari provvedimenti, ma sostanzialmente basato sulla solita partita di giro tra finti tagli di spesa e ulteriori “ritocchini” al rialzo delle tasse il cui risultato finale è probabile che sarà sfavorevole al popolo dei pagatori. D’altro canto, dopo decenni di crescente espansione del cosiddetto deficit-spending, basato sulla spinta politica ad aumentare l’intervento pubblico in cambio di consenso, all’orizzonte non si intravvedono segnali che indichino svolte coraggiose e, conseguentemente, impopolari. Svolte coraggiose e impopolari in grado di affrontare il nodo fondamentale dell’inguacchio italiota; ovvero lo squilibrio sempre più marcato tra le componenti produttive del Paese, preponderanti nel Nord, e quelle parassitarie che vivono di spesa pubblica, concentrate nel Mezzogiorno ma tendenti a diffondersi ovunque.
In altri termini, si può dire che l’evidente continuismo presente nella citata legge dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, la totale incapacità dell’attuale sistema politico ad affrontare una condizione da collettivismo strisciante che sta sempre più destrutturando ciò che resta dell’economia di mercato. Un sistema politico, nel complesso, che appare letteralmente paralizzato sul fronte dell’abbattimento di una spesa pubblica che nessuno riesce a contenere, nonostante i continui giuramenti succedutisi in questi ultimi anni. Nessun partito o politico presente attualmente in Parlamento sembra avere il coraggio e la determinazione per almeno tentare di spiegare ai cittadini che, essendo quasi finiti i soldi degli altri, non vi è altra alternativa al fallimento al di fuori di una drastica riduzione del perimetro pubblico. Il che vorrebbe dire meno redistribuzione di risorse e, quindi, meno parassitismo all’ombra dello Stato mamma. Ma i pigmei della solidarietà sociale coatta, di governo e di opposizione, preferiscono continuare a vivacchiare nella speranza che il nostro tradizionale stellone di Pulcinella riesca a sfangarla anche questa volta, magari agganciando una ripresa mondiale che, anche solo per poco tempo, faccia risalire di qualche decimale un Pil in caduta verticale. Una ben magra prospettiva sulla quale Letta & company (le dichiarazioni di Alfano sono davvero imbarazzanti) hanno puntato per restare il più a lungo possibile incollati alla loro poltrona. Mah…

venerdì 18 ottobre 2013

Manovra di galleggiamento

 


Giovedì, 17 Ottobre 2013
 
Non è certo la "svolta" che molti si aspettavano, tanto meno quello "shock fiscal" che molti invocano pur senza grandi speranze. E' una manovra di galleggiamento (del governo, soprattutto), dove la stabilità rischia di confondersi con l'immobilismo. La resistenza, purtroppo bipartisan, a procedere con decisione sul fronte dei tagli alla spesa pubblica ha impedito al governo di essere più coraggioso nella riduzione del carico fiscale su famiglie e imprese. Riduzione che di fatto, come vedremo numeri alla mano, è nella migliore delle ipotesi inconsistente, se non inesistente. Un calo della pressione fiscale di un punto percentuale nell'arco di tre anni, dal 44,2 al 43,3%, e una diminuzione davvero misera del cuneo fiscale (2,5 miliardi) sono davvero troppo poco per pensare di invertire il ciclo economico.
Da notare il doppio tentativo del governo di influenzare lo "spin" sulla manovra. Non si può escludere infatti che aver fatto filtrare le ipotesi dei tagli alla sanità e dell'aumento dell'aliquota sulle "rendite" finanziarie, per poi evitarli all'ultimo momento, avesse la funzione di far tirare un sospiro di sollievo sia a sinistra che a destra, predisponendo gli osservatori ad un accoglimento meno severo della legge di stabilità. Poi, l'accorgimento di presentare su base triennale l'ammontare dell'intervento sul cuneo fiscale, così da gonfiarne le cifre. Ma proviamo a triplicare anche altre grandezze di finanza pubblica: i 5 miliardi in tre anni di sgravi a favore dei lavoratori sono l'1% del gettito Irpef triennale (quasi 500 miliardi) e i 5,6 miliardi di sgravi alle imprese corrispondono ad 1/20 di quanto versano di sola Irap in tre anni. Nel 2014, in realtà, l'intervento sul cuneo fiscale vale appena 2,5 miliardi su una manovra di 11,5: il resto è per lo più una pioggia di nuove spese, come sempre.

Certo, politicamente il governo Letta sembra non aver offerto ai suoi nemici, a destra come a sinistra, il pretesto, la "pistola fumante", per cui farlo cadere. Ma nonostante questi tentativi di influenzare la copertura mediatica della manovra, la delusione è palpabile un po' in tutti gli attori politici e sociali, così come negli editoriali dei principali giornali, e vissuta con un certo imbarazzo persino tra gli "sponsor" del governo Letta e dai cantori della cosiddetta "stabilità". Davvero difficile per chiunque non riconoscere la pochezza e lo scarso coraggio di questa legge di stabilità.
Ma vediamo gli altri numeri. Il valore complessivo della manovra è di 11,6 miliardi nel 2014 (e 7,5 sia nel 2015 che nel 2016). Rispetto alla manovra del governo Monti c'è un leggero riequilibrio nelle coperture. Le maggiori entrate fiscali pesano sempre in modo eccessivo, ma in misura minore che in passato: 1,9 miliardi, anche se altri 300 milioni arrivano dalla rivalutazione delle attività delle imprese e 2,2 miliardi dalla revisione della tassazione delle svalutazioni e delle perdite su crediti degli intermediari finanziari. Dai tagli alla spesa corrente arrivano 3,5 miliardi (2,5 dal bilancio dello Stato e un miliardo dalle spese di funzionamento delle Regioni): si tratta comunque di meno dello 0,5% del totale della spesa pubblica e nel trienno solo del 2% in meno (16 miliardi). Da dismissioni e rivalutazioni di cespiti e partecipazioni arriveranno 500 milioni l'anno. I 3 miliardi restanti vengono definiti da Letta un «premio» per la chiusura della procedura di deficit eccessivo. Ci giochiamo, insomma, un minimo di flessibilità in più che ci viene concessa dall'Europa.

Ma le due manovre sono difficilmente comparabili: quella di Monti servì a correggere i conti pubblici, quella del governo Letta-Alfano serve a finanziare per 2/3 nuova spesa pubblica e solo per 1/3 riduzioni di imposte.
Sono una miriade le voci finanziate: le missioni all'estero, il 5 per mille, la cassa integrazione in deroga, gli investimenti degli enti territoriali, la manutenzione straordinaria della rete autostradale, l'Anas e le Ferrovie, il Mose, il fondo per le politiche sociali, il fondo per lo sviluppo e la coesione, il fondo per le università, i fondi per le non autosufficienze, per i lavoratori socialmente utili e per la Social Card. E ancora aiuti all'editoria, agli autotrasportatori e agli agricoltori. Tra i tagli alla spesa solo limature, nessun intervento strutturale. Il nuovo "contributo di solidarietà" dalle pensioni d'oro dovrebbe valere una sessantina di milioni su un costo totale della platea individuata che si aggira sui 3,5 miliardi. La sola parte eccedente i 100 mila euro di questi redditi da pensione ci costa circa 857 milioni, quindi il contributo medio sarebbe del 7% della parte eccedente i 100 mila euro (gli 857 milioni) e nemmeno del 2% rispetto al costo complessivo degli assegni (i 3,5 miliardi).

Ma cerchiamo di capire quale sarà nel 2014 il saldo reale per i cittadini, in termini di tasse, rispetto all'annus horribilis che sta per finire, il 2013. L'aumento della detrazione Irpef sul lavoro dipendente vale 1,5 miliardi, una decina di euro in più al mese in busta paga per i redditi medio-bassi (picco di 172 euro l'anno per chi dichiara 15 mila euro). A cui però vanno subito sottratti 500 milioni di minori agevolazioni fiscali (detrazioni per spese sanitarie e istruzione di cui usufruiscono quasi tutte le famiglie), ben 900 milioni per l'incremento dell'imposta di bollo sulle attività finanziarie (la nuova "stangatina" sul risparmio), nonché il ritorno dell'Irpef sulle seconde case sfitte (questi ultimi due aumenti colpiscono una platea più ristretta di contribuenti ma sottraggono comunque potere d'acquisto).

Poi ci sono due certezze e due incognite. Prima certezza: resta l'aumento dell'Iva dal 21 al 22%, che per il governo sembra ormai un capitolo chiuso (4 miliardi l'anno, 3 in più rispetto al 2013). Seconda certezza: l'aumento delle accise su carburanti (75 milioni), alcolici (130 milioni), sigarette elettroniche (117 milioni), lubrificanti e tabacchi (50 milioni). E veniamo alle incognite. Quale sarà il gettito della nuova Tasi, l'imposta che dovrebbe sostituire l'Imu sulla prima casa? Per ora sappiamo che l'aliquota base prevista è dell'1 per mille, ma non è chiaro se, e fino a quanto, ai Comuni sarà permesso di aumentarla (il tetto massimo dovrebbe coincidere con quello della vecchia Imu). Nella legge di stabilità il governo ha trasferito ai Comuni un solo miliardo (invece di due, come ipotizzato) per coprire esenzioni e detrazioni volte ad alleggerire il peso della nuova imposta, ma se le aliquote finali della componente Tasi (tra quella base e i rialzi dei Comuni) si avvicinassero a quelle dell'Imu, ecco che potrebbero restare 2/3 miliardi in più da pagare rispetto al 2013 (Confcommercio stima 2,4 miliardi di euro in più dalla "Trise"). Un vero e proprio gioco delle tre carte. Si pagherà meno (forse) del 2012, quando era in vigore l'Imu sulla prima casa, ma certamente più di quest'anno in cui l'Imu è stata cancellata.

Seconda incognita: l'Iva. Resta infatti la minaccia di un ulteriore peggioramento di alcune aliquote come risultato della rimodulazione a cui sta lavorando il governo. Per non parlare della cancellazione della seconda rata dell'Imu per quest'anno, per cui ancora non sono note le coperture. Dunque, tutto sommato e tutto sottratto, si può affermare senza timore di smentite che nel 2014 pagheremo più tasse che nel 2013 e, forse, persino più che nel 2012 (lo scopriremo solo pagando la "Trise"). Non va molto meglio alle imprese, che si vedono concedere una riduzione di 40 milioni della componente Irap relativa al costo del lavoro e un taglio dei contributi sociali di un miliardo circa.

A questo punto vi starete chiedendo come si spiega il calo della pressione fiscale di un punto percentuale in tre anni sbandierato dal governo ieri sera, se le tasse dal 2014 potrebbero addirittura aumentare. Non va dimenticato che si tratta di una grandezza percentuale in rapporto al Pil e il punto in meno è una conseguenza delle previsioni di crescita (ottimistiche) inserite nel Def, e non di chissà quali tagli di tasse.

L'impianto di questa legge di stabilità risponde ad una logica di redistribuzione del reddito (di un reddito che non c'è), piuttosto che di riduzione del peso dello Stato, e quindi delle tasse. Una logica tipica dei governi di centrosinistra per come li abbiamo conosciuti sia nella Prima che nella Seconda Repubblica.

domenica 13 ottobre 2013

La deindustrializzazione dell'Italia

 
  

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Luigi Rossi
venerdi 11 ottobre 2013

Sesta potenza industriale del mondo. Era questa l’espressione rituale, vanto dei politici, con cui i giornalisti definivano con il pregio della sintesi il ruolo dell’Italia nello scacchiere economico mondiale. Settima o sesta che fosse, l’Italia è stata a lungo nell’Olimpo delle potenze economiche ed industriali mondiali. Persino sopra la Gran Bretagna, culla della Rivoluzione industriale e presto convertita ad economia di servizi, più che di produzione.
Cresciuta con questa consapevolezza, mista a fierezza, la mia generazione si è formata su sussidiari e manuali di geografia umana o educazione tecnica che rendevano giustizia e spiegavano le ragioni di questa impegnativa definizione. Chi non ricorda la nascita del triangolo industriale tra Torino, Milano e Genova? La nascita dell’industria automobilistica torinese, lo sviluppo della grande siderurgia, l’importanza della chimica italiana a livello mondiale. Il boom economico e il dirompente successo dei distretti industriali, come quello della lana biellese, quello tessile di Prato, quelli motoristici emiliani, quelli calzaturieri e del mobile nelle Marche. Eccetera eccetera. E proprio in questi distretti a farla da padrone era la piccola e media impresa, orgoglio e modello di sviluppo tipicamente italiani.
Laddove, infatti, non erano le dimensioni a fare la differenza era la qualità, la creatività italiana a misurare la nostra competitività. Ma che fosse la grande industria chimica o siderurgica o la piccola impresa tessile o di pellame o di moda il marchio Italia – e il suo portato in termini di conoscenze e capacità industriali e e artigianali – funzionava ovunque nel mondo.
Oggi l’Italia continua a frequentare gli incontri tra i grandi del mondo, eppure l’impresa italiana vive un declino che pare inarrestabile. Un declino che ha travolto prima la grande industria, poco più che un ricordo, e la piccola e media impresa. Se ci fosse stato bisogno di una conferma da Bruxelles ci informano che l’Italia perde posizioni nella classifica della competitività dell'industria europea. Anche la Spagna, paese sotto aiuti Ue per le banche e dove la disoccupazione è seconda solo a quella della Grecia, ci ha sorpassato, agganciando il gruppo di testa dei paesi Ue più performanti guidato dalla Germania.
Gli esperti europei parlano, ormai, di «vera e propria deindustrializzazione». Dal 2007 ad oggi la produzione industriale italiana ha registrato un crollo del 20%, sebbene la quota di valore aggiunto totale nell'economia del manifatturiero resti ''leggermente al di sopra della media Ue''. A preoccupare ancor di più il fatto che in Europa non diminuisce, ma continua a crescere il divario di competitività tra i 28. La forbice tra virtuosi e non virtuosi, in altre parole, si allarga. Si è insomma bloccato il cosiddetto 'processo di convergenza', per cui gli stati virtuosi trainano gli altri verso l'alto in una dinamica di reciproco vantaggio. A livello europeo pesa il costo dell'energia, che sta portando alla deindustrializzazione non solo dell'Italia ma dell'intera Ue, la diminuzione degli investimenti, la difficoltà di accesso al credito e l'inefficienza della pubblica amministrazione. Se l’Europa perde competitività a livello mondiale, se si accentua la differenza di passo tra gli Stati membri, il giudizio negativo sull’Italia assume il tono del de profundis.
Cercare oggi le ragioni di questo disastro appare un esercizio facile, ma poco più che inutile. Da dove iniziare? Dallo smantellamento delle grandi industrie? Dal peso delle tasse e del costo del lavoro? Dall’inefficienza della pubblica amministrazione o dalla fuga dei capitali? Dal fatto che le banche si occupano di tutto tranne che di concedere credito? Dall’inettitudine delle nuove generazioni di imprenditori? Non era a tutti ovvio che la delocalizzazione avrebbe portato alla conseguente deindustrializzazione? Dal fatto che per aprire un’impresa ci vogliano mesi se non anni spesi solo per i permessi? Dai veti incrociati per qualsiasi infrastruttura o impresa di interesse pubblico? Potrei continuare a lungo questo elenco. Ognuno può aggiungere altre domande e trovare risposte adeguate ad alcune di esse, Basta, però, percorrere questa martoriata penisola per rendersi conto che l’industria in Italia non esiste più.
Capannoni abbandonati, fabbriche dismesse sono una triste costante nei panorami delle strade italiane. La deindustrializzazione è ormai un fatto incontrovertibile. Se anche le piccole imprese continueranno a chiudere allora l’Italia sarà un deserto. Da troppo tempo in Italia non si parla con coraggio di industria, non si promuove un piano industriale degno di quella che un tempo era la sesta potenza al mondo. Il momento è giunto.

Se questa e' democrazia


 
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di Silvio Berlusconi

«Questa indegna decisione é stata frutto non della corretta applicazione di una legge ma della precisa volontà di eliminare per via giudiziaria un avversario politico che non si é riusciti ad eliminare nelle urne attraverso i mezzi della democrazia. La democrazia di un Paese si misura dal rispetto dalle norme fondamentali poste a tutela di ogni cittadino. Violando i principi della Convenzione Europea e della Corte Costituzionale sulla imparzialità dell’organo decidente e sulla irretroattività delle norme penali oggi sono venuti meno i principi basilari di uno stato di diritto. Quando si viola lo Stato di diritto si colpisce al cuore la democrazia».