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venerdì 15 novembre 2013

Berlusconi e il paragone con gli ebrei

Bartolomeo Di Monaco

6 novembre 2013

Se volete un altro degli ennesimi esempi di malafede con cui in Italia si fa la lotta politica (anziché il democratico confronto) osservate come è stata fraintesa la frase di Berlusconi:

«I miei figli dicono di sentirsi come le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler. Abbiamo davvero tutti addosso»

Lo sciocco (politicamente parlando) Danilo Leva del Pd, subito prende la palla al balzo e giù anatemi per lo scandaloso paragone. E poi si domanda (e qui cascò l’asino) che cosa di questa dichiarazione pensa Angelino Alfano. La strumentalità è sfacciata e palese. Se questa frase fosse scappata per esempio ad un Bassolino perseguitato dalla magistratura e pochi giorni fa assolto e riconosciuto innocente su tutta la linea, il Pd avrebbe subito diffuso un comunicato di sostegno all’ex presidente della regione Campania, giustificando il tutto con la forte tensione con cui Bassolino ha vissuto questo lungo periodo in cui è passato come un ladro e un delinquente agli occhi della famiglia e dei cittadini.

Berlusconi la cui persecuzione dura da 20 anni, invece, non lo si deve capire. Poiché ha ricevuto una condanna definitiva e dunque è un delinquente con tanto di certificazione, ciò che dice è frutto di una ragionamento lucido e spietato.
Anche la comunità ebraica, sebbene più morbida, ha preso posizione scandalizzandosi.

Tutto questo avviene a poche ore di distanza dal successo e dagli applausi ottenuti in parlamento dal ministro della giustizia Cancellieri, la quale è stata riconosciuta degna di mantenere l’importante dicastero non avendo trovato niente di disdicevole nel comportamento tenuto in occasione dell’arresto della famiglia Ligresti.

La quale Cancellieri alla famiglia Ligresti non ha detto di sentirsi impaurita e assediata come lo furono gli ebrei tedeschi, bensì qualcosa di molto più grave dal contenuto che non è difficile classificare come eversivo. Infatti, alla signora amica che si lamentava all’altro capo del telefono dell’arresto subito dalla famiglia, il ministro si permetteva di sottolineare che quell’arresto (di cui probabilmente nemmeno sapeva i dettagli), non era giusto e dunque ne metteva in dubbio la legittimità, accusando con ciò magistrati e funzionari delle carceri.
Per questa dichiarazione il Pd, per bocca di Zanda, non ha trovato di meglio da dichiarare in parlamento che: Continui il suo lavoro.

Vediamo ora la frase di Berlusconi e vediamo se essa abbia un contenuto eversivo quale quello che si rileva obiettivamente dalla trascrizione della intercettazione indiretta della Cancellieri.
I miei lettori mi perdonino se in questi giorni sono così pignolo, ma ciò dipende dal fatto che, come non era mai accaduto nel passato, si stanno manifestando in numero notevole  e con frequenza sempre di più ravvicinata comportamenti che aiutano a capire che cosa di terribile sta accadendo alla nostra democrazia, ormai alla deriva per colpa di personaggi che fanno della menzogna, della arroganza e dell’ipocrisia i loro strumenti privilegiati di confronto politico.

Dunque, ha detto Berlusconi:

«I miei figli dicono di sentirsi come le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler. Abbiamo davvero tutti addosso»

Qual è il senso di questa frase? Un paragone con il destino finale degli ebrei tedeschi durante il Nazismo?
Chi lo ha pensato, a partire da Zanda e anche dalla comunità ebraica, dimostra di aver peccato di superficialità e di troppa fretta, pur di dare addosso all’avversario.

È lapalissiano e storicamente provato che milioni di ebrei hanno subito lo sterminio in modi orrendi; e che particolarmente orrendo fu lo sterminio di massa nelle camere a gas, ma davvero qualcuno ha potuto credere che la frase di Berlusconi volesse accostare il suo sentimento di paura a quello di terrore provato dagli ebrei trascinati a forza nei campi di concentramento e poi rinchiusi nelle camere a gas per lo sterminio di massa?

Si vergognino costoro per essere arrivati a disumanizzare un individuo (si chiami Berlusconi o Pinco Pallino) fino al punto di dare ad una sua frase un significato così orribile e che nessun serio ermeneuta potrà mai avallare. Ho repulsione e sgomento per l’uso così blasfemo che viene fatto della nostra lingua. Quanta inadeguatezza e quanta approssimazione!

La frase di Berlusconi richiama il sentimento di cui erano preda gli ebrei allorché si cominciò a respirare il marciume e la fiumana nazista che stavano scavando il loro alveo in direzione del popolo ebraico. Gli ebrei non volevano credere a questo, e ci sono tante testimonianze di ebrei nati in Germania i quali stentavano a dar fede ai racconti che venivano loro narrati dai compagni. Poi ci fu la famigerata notte dei cristalli e allora le voci che circolavano sulla persecuzione a loro carico ebbe la prova certa, inequivocabile. Si cercò di trovare riparo, ci si nascose nelle soffitte o negli scantinati, si visse in molti in una sola stanza per mesi, con la paura che all’improvviso la porta si aprisse e i tedeschi irrompessero gettandosi su di loro rozzamente e violentemente.

È questa la paura denunciata da Berlusconi. Non la paura dei forni crematori che gli ebrei nascosti nemmeno sapevano che esistessero, ma la paura di una discriminazione che intuivano devastatrice e violenta.
Eppure di questa paura la letteratura dell’Olocausto è colma, a partire dai diari di Anna Frank e di Louise Jacobson.

Noto è il libro scritto da Anna Frank, meno noto l’altro che fu pubblicato da “l’Unità” (Zanda dovrebbe conoscerlo) nel 1996 con prefazione nientemeno che dell’ex rabbino capo della comunità ebraica romana, Elio Toaff, la cui prima edizione era uscita in Francia nel 1992.
Da questo diario riporto uno dei tanti momenti in cui appare una paura che non riguarda il destino finale, a quel momento sconosciuto, ma lo smarrimento per una discriminazione di cui ancora non si ha piena contezza:

Alle tre del pomeriggio, nella sala comune dove io stavo parlando con gli altri, arriva un uomo con una lista in mano. Oh, questo non me l’aspettavo di certo; non pensavo che ci avrebbero portato via di lì tanto presto! Legge alcuni nomi, c’è anche quello di Sourèle, ma non il mio. Senza un attimo di riflessione mi getto su di lei e la stringo fra le braccia “no, non ci separeranno mai!”

(omissis)

Dove stavamo andando e per quali vie, non lo sapevamo.

Per marcare la differenza tra queste due tragiche testimonianze e un’altra testimonianza, che è quella a cui non si richiama Berlusconi ma i suoi denigratori, sbagliando segno, bisogna andare al libro “Sonderkommando”, di Salmen Gradowski, l’ebreo addetto ai forni crematori. La sua tragedia sta nella ormai consolidata sicurezza del suo destino (fu ucciso dai nazisti il 7 ottobre 1944).

È la paura di una persecuzione che non si riesce a capire quella contenuta nella dichiarazione smarrita di Berlusconi. La paura che percuote l’uomo Berlusconi è quella di un destino in cui compaiono mascherature orripilanti prima sconosciute.

Nel prosieguo della sua dichiarazione Berlusconi ricorda anche la possibilità della fuga suggeritagli tante volte e mai accolta, in quanto radicato in Italia dall’amore per il Paese in cui è nato e ha dispiegato la sua vita, così come accadeva all’ebro tedesco che respingeva il pericolo nazista con l’autoconvincimento che anche lui era un tedesco nato in Germania come gli altri. Un autoconvincimento che poi è andato a poco a poco risolvendosi nella incredulità, poi ancora nella paura, e infine nella tragedia dei forni crematori.

Berlusconi è un cittadino che si dichiara innocente, non dobbiamo mai dimenticare questo dato fondamentale, da cui muove ogni suo sentimento. Pure lui è stato incredulo di fronte ad un attacco così massiccio e carico di odio e di parzialità (la sentenza Esposito insegna) da parte della magistratura ed anche della politica. Lui che fino al 1993 non solo era stato onorato del titolo di cavaliere del lavoro ma come imprenditore era stato additato ad esempio per creatività e audacia. Poi dall’incredulità è passato alla paura. Paura per sé, che, secondo il consiglio di amici, avrebbe dovuto fuggire dalla terra che ama, paura per i figli suscettibili di pagare il peso di quella scomoda paternità.

È lo stesso sentimento di paura, di insicurezza, di smarrimento, di confusione che provarono gli ebrei nel momento in cui si cominciò a parlare di persecuzioni nei loro confronti.
Quel tipo di paura non appartiene solo agli ebrei, ma appartenne ai negri all’epoca orribile della loro tratta, a cui prese parte attivamente perfino un grande poeta come Rimbaud.
È una paura che appartenne e appartiene ai Pigmei massacrati periodicamente dai Bantù, agli Hutu massacrati periodicamente dai Tutsi in Ruanda, e così via. Chi non ricorda il massacro degli Hutu perpetrato a colpi di machete dai Tutsi.

Ogni uomo ha paura della discriminazione, e non è detto che questa paura deve essere presa in considerazione solo quando attraversa masse di individui. Un singolo cittadino quando avverte l’accanirsi su di sé di una discriminazione che nasce da una dismisura di forze a cui non può reggere, è assalito da un sentimento che in quel momento lo accomuna a quello di qualunque essere umano, a qualunque epoca sia appartenuto, il quale si stia rendendo conto che una catastrofe si sta abbattendo su di lui ingiustamente.

Il mondo è pieno, ahimè, di queste paure e guai a non riconoscerle e a non rispettarle.

Il pensionato immorale

  


Gianni Pardo
Giovedì, 14 Novembre 2013

 
Un ex bancario pensionato a 2.100 € al mese si lamenta sul Corriere perché gli hanno bloccato l’indicizzazione e, di fatto, ogni anno percepisce sempre meno. Questo perché, con 2.100 € netti, oltrepassando i tremila lordi, per il governo fa parte dei “ricchi” che devono pagare per gli altri. Il bancario non ci sta. Ha lavorato tutta la vita, cominciando a 17 anni, e dice, risentito: “Non ho rubato niente a nessuno!”
Non solo ha ragione da vendere; non solo il quantum del trattamento di quiescenza non dovrebbe mai essere toccato, perché risulta da un contratto liberamente sottoscritto dalle parti: ma ha ragione anche chi la pensione l’ha “rubata”. E questo deve essere spiegato.
In passato in questo campo si è molto largheggiato. Dal momento che pagava lo Stato, si è stati generosi con tutti. Non si è nemmeno tenuto conto dell’elementare principio che la pensione doveva risultare dall’accantonamento di parti della retribuzione, per coprire (con logica attuariale) gli anni della vecchiaia. Invece si è permesso a giovani di lasciare il lavoro per ricevere una somma mensile dignitosa per molti anni, fino ad arrivare all’assurdo che si poteva essere a riposo per un tempo notevolmente più lungo di quello passato a lavorare. Nella scuola, per esempio, vent’anni sulla cattedra e poi, se uno era longevo, quarant’anni a spese dello Stato. Cioè dei connazionali.
Per molto tempo è stato di moda stramaledire quelli che erano chiamati baby pensionati. Li si trattava da profittatori e da ladri. Con qualche ragione, naturalmente, dal punto di vista astrattamente economico. Ma in concreto?
Immaginiamo che un signore anziano, non interdetto e neppure inabilitato (il che in diritto corrisponde a dire “perfettamente in grado di intendere e di volere”) un giorno ritiri in banconote da cento la massima parte del suo patrimonio e poi vada in strada a seminarle al vento, affinché siano raccolte dai passanti. Naturalmente i figli – futuri eredi – potrebbero essere furenti, vedendo così regalare quel patrimonio che legittimamente si aspettavano di ereditare. Potrebbero anche rimpiangere di non avere portato in tempo il padre dinanzi ad un giudice per toglierli la possibilità di fare operazioni di banca. Ma dal momento che non l’hanno fatto - e non è neanche detto che il giudice avrebbe dato loro ragione - devono assistere impietriti a quella scena agghiacciante.
E tuttavia qui non interessano né il ricco signore né i suoi figli: interessano i passanti. Chi raccoglie quel denaro non lo ruba a nessuno. Nel momento in cui le dita del legittimo proprietario allentano la presa, quelle banconote sono res nullius, cosa che appartiene legittimamente al primo che la raccoglie. È certo vero che i passanti potrebbero fare l’ipotesi che l’uomo non abbia tutte le rotelle a posto: ma ciò sarebbe giuridicamente senza conseguenze. Non potrebbero impedirgli di buttare per aria il suo denaro, se già non possono impedirglielo i suoi figli. Non potrebbero impedire agli altri passanti di raccogliere le belle banconote verdi. E il singolo che si astenesse dal raccoglierle non salverebbe né il vecchio né i suoi eredi.
La parabola è trasparente. Se lo Stato italiano è stato tanto demente da regalare pensioni ai giovani, perché vivessero a lungo girandosi i pollici; se è stato tanto demente da dare pensioni molto più generose di ciò che corrispondeva ai contributi versati, i beneficiari non ne hanno colpa. Non potevano certo farsi nominare tutori di uno Stato interdetto. Se qualcuno c’è da rimproverare è tutta una classe politica di demagoghi e di economisti “de sinistra” che hanno creduto di poter essere generosi a spese della crescita dell’economia, delle generazioni future e in fin dei conti dello Stellone italiano. Né va dimenticato che mentre facevano questo erano applauditi da tutta la pubblicistica nazionale. Se un Paese ha creduto per decenni che si potesse spendere più di quanto si guadagnava (deficit dello Stato), quello stesso Paese ora non si deve lamentare se la realtà presenta il conto.
Un vecchio detto romano ammonisce: “Caveat emptor”, il compratore stia attento. Se qualcuno vende una bottiglia d’acqua minerale per dieci euro, sostenendo che guarisce il cancro, il giudice non condannerà il venditore per truffa, perché è il compratore, ad essere demente. È la sua demenza che gli ha provocato il danno di nove euro e mezzo, non l’inganno del venditore. Caveat emptor.
I baby pensionati, i titolari di pensioni d’oro, e tutti i beneficiati della follia nazionale, non hanno rubato niente a nessuno. Oggi sarà concepibile che uno Stato ridotto ad un disperato bisogno di denaro gli sottragga con la forza qualcosa che è legittimamente loro, ma non deve farlo credendo di avere giustificazioni morali. Perché la prima immoralità consiste nel togliere a qualcuno ciò che è suo. Solo perché si è più forti.
 
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