Il mancato decreto legge per la modifica dell’art.18 blocca le aspettative di flessibilità ed e’ contro gli interessi dei giovani che aspettano che si apra il mercato del lavoro. Servirebbero, invece, tempi brevi per uscire dalla crisi, servono decisioni rapide. Ci sono seri dubbi che il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro uscirà dal Parlamento. E, se lo sarà, ci sono seri dubbi che la legge sarà migliorata, rispetto alla necessaria rigidità attuale. In Parlamento accadrà di tutto: imboscate, ricatti, veti, trasformazioni, guerriglia ... mentre, con la regia dei sindacati sovversivi e dei gruppi di odio sociale, il Paese sarà messo a soqquadro. Prima c’era la scusa di Berlusconi al governo. E’ duro a morire lo spirito “sessantottino”. Con l’inevitabile scontro parlamentare, l'Italia perderà ancor più competitività, gli investitori esteri si terranno alla larga mentre quelli italiani accelerano a “delocare” fuori dall’Italia. Il Pil si abbasserà ulteriormente e aumenterà ancor di piu’ la disoccupazione. Tutto questo porterà acqua ai mulini degli “arruffapopoli” Vendola e Di Pietro. Ancora una volta il PD dimostra di non esistere. Bersani e’ già fuori gioco, non conta niente, non ha coraggio. Il governo Monti e’ gia’ al tramonto? Se dovesse cadere e’ dimostrato che il Pd non mantiene gli impegni per l’interesse del Paese. E’ “demenziale” arrivare a elezioni politiche in un clima da guerra civile per l’art. 18.
lunedì 26 marzo 2012
Fine del “posto fisso” a vita?
L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, uno dei tanti tabù che tengono ingessata l’Italia e non la fa progredire, forse e’ stato superato, seppure persistono resistenze che si spera risulteranno vane. Ma subito qualcuno ha voluto precisare che la riforma del mercato del lavoro non riguarderà il settore del pubblico impiego, se cosi’ fosse la riforma sarebbe “incoerente”. Come molti sanno, diciannove anni fa, con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, fu attuata una riforma generale del pubblico impiego, ispirata al principio della privatizzazione del rapporto di lavoro di impiegati e dipendenti pubblici. Il decreto legislativo n. 29/1993 non esiste più perché e’ stato abrogato, ma la normativa che l’ha sostituito (decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165) ha la medesima logica. Per la stragrande maggioranza dei lavoratori del pubblico impiego vale la regola che il rapporto di lavoro e’ disciplinato dal Codice Civile e dalle disposizioni vigenti sui “rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”. L’applicazione di questa disposizione, contenuta nel Codice Civile, vale per i dipendenti dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali. Soltanto per i dirigenti statali sono previsti contratti particolari legati al conseguimento di obiettivi. A questo punto la domanda sorge spontanea: una volta che la disciplina del lavoro viene applicata ai lavoratori privati, cambiano anche i rapporti di lavoro nel pubblico impiego? Come può essere che non ci siano conseguenze per gli impiegati pubblici? E’ solo questione di tempo. Ma come e’ possibile che le pubbliche amministrazioni, le quali hanno ciascuna una propria pianta organica, possano licenziare i dipendenti per motivi economici? Nella grave crisi economica in corso molte cose cambieranno anche perche’ sarà “costituzionalizzato” il pareggio di bilancio. Saranno “obbligatori” gli impegni assunti in sede di Unione Europea con la firma del nuovo “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell'Unione economica e monetaria”. Se davvero non potranno più esserci “bilanci in passivo” e se davvero l’Italia “dovrà ridurre il debito pubblico” fino al parametro previsto del 60% rispetto al PIL, con un ammortamento ventennale, allora bisognerà mettere in conto che le pubbliche amministrazioni, a tutti i livelli, “dovranno costare meno”. La conseguenza sarà che lo Stato sarà costretto a “snellire” il “mastodontico” apparato burocratico privandosi di tutti quei settori non più essenziali, né strategici. Del resto, non e’ forse vero che negli Stati Uniti d’America, in Australia e in molti altri paesi e’ normale che i dipendenti pubblici “possano essere licenziati”, soprattutto i dipendenti dei singoli Stati? Non e’ forse vero che alla Grecia e’ stato imposto un piano di licenziamenti nel settore pubblico? La verità e’ che la possibilità di licenziamenti più facili da parte delle imprese, e la possibilità di licenziare pure lavoratori del settore pubblico, sono due aspetti di una medesima strategia. L’applicazione avverrà in tempi diversi e non vuole ammetterlo chi fa finta di non sapere. Ma i cittadini sono meno “cretini” di quanto molti politici suppongano. Molto presto si accenderà un’infuocata discussione su un altro tabù: il “posto fisso” nel pubblico impiego. Così, sperando di superare un tabù dopo l'altro, l’Italia diventerà sempre più flessibile, moderna e competitiva.
Se si spende più di quanto si guadagna fatalmente ci si caccia in guai seri.
In tutti i secoli, nei periodi di crisi finanziaria, i cittadini sono stati sempre sicuri che “in un modo o nell’altro ce la si sarebbe cavata”, che una soluzione si sarebbe trovata. Che comunque “Roma e il suo Impero erano destinati all’eternità”. Cosi’ ognuno si “arrabattava” a vivere la propria vita e non percepiva la lenta “decadenza” che minava il mondo. Finché i romani si sono creduti “invincibili” ed hanno sentito il dovere di difendere la patria, Roma si e’ ingrandita. Quando hanno cominciato a credersi “invulnerabili” ed hanno affidato ad altri la propria difesa, Roma e’ sparita dalla storia. Non hanno tenuto conto di un paio di “regolette” semplici: “se non sai difenderti, morirai” e se affidi la cura dei tuoi interessi a qualcun altro, un giorno scoprirai che quello “fa i suoi interessi e non i tuoi”. Nell’epoca in cui viviamo si e’ voluto dimenticare un fondamentale principio: “Se si spende più di quanto si guadagna fatalmente si va a sbattere”. Per anni ed anni, l’Italia ha speso molto più di quanto guadagnava “e tutti erano contenti”. Perché “non succedeva niente”. L’Italia prosperava invece di fallire. E allora perché non regalare qualcosa a tutti, perché non fare altre spese, perché non dare di piu’ a chi chiedeva magari minacciando? In una parola: perché non comprare il consenso? Non bisogna pensare che i politici degli anni 70/90 fossero tutti “stupidi”. Il principio per cui “non si può spendere più di quanto si guadagna” lo conoscevano benissimo, ma perche’ preoccuparsene? Se la crescita economica continuerà, nel futuro con le imposte si copriranno tutte le spese che facciamo oggi. E perché non doveva continuare quella crescita? Comunque, se nel caso i debiti dello Stato divenissero troppo onerosi, una bella “svalutazione” rimetterebbe le cose a posto. E questo e’ stato fatto più volte. I governanti di quel tempo non volevano perdere le elezioni, ed e’ cosi’ che la Democrazia Cristiana era costantemente al potere (consociata sotto banco con i comunisti) e nessuno poteva scalzarla. Tutti erano convinti del fatto che l’Italia non poteva mai crollare e cominciavano a pensare che quella regola (“non puoi spendere più di quanto guadagni”), dopo tutto, poteva essere non valida. Erano anni che non l’applicavano e tutto continuava ad andare benissimo. Se fa caldo da vent’anni, perché non dovremmo parlare di “cambiamento del clima”? Ma venti anni di seguito, per l’uomo e’ un tempo sufficiente per trarre delle conclusioni, mentre per la Terra quel tempo e’ del tutto insignificante e cos’ lo e’ anche in economia. Siccome tutto va bene “madama la marchesa”, si e’ divenuti così fiduciosi del fatto che l’Italia non potesse fallire, e Prodi ha accettato un cambio lira-euro del tutto sbagliato (1936,27 lire per ogni euro quando la valutazione giusta era attorno alle 1200 lire) e ci si e’ impegnati a non procedere mai più a svalutazioni. Il risultato l’abbiamo visto. Con l’euro i prezzi sono pressoché raddoppiati, non si e’ più potuto “svalutare” la moneta, il debito pubblico e’ rimasto “altissimo”, e infine i mercati finanziari si sono molto allarmati che l’Italia potesse fallire. Fra l’altro, non e’ detto che questo pericolo sia del tutto scongiurato. Oggi nessuno, neppure il governo Monti, sa esattamente come ridivenire competitivi in campo internazionale e come sopravvivere. E nessuno sa come toglierci di dosso un debito pubblico mostruosamente grande. Chi va contro i principi del buon senso, chi arriva a negare l’evidenza, chi pensa che possa avere tutto quello che desidera, prima o poi sbatte la faccia contro la “dura roccia” della realtà.
In tutti i secoli, nei periodi di crisi finanziaria, i cittadini sono stati sempre sicuri che “in un modo o nell’altro ce la si sarebbe cavata”, che una soluzione si sarebbe trovata. Che comunque “Roma e il suo Impero erano destinati all’eternità”. Cosi’ ognuno si “arrabattava” a vivere la propria vita e non percepiva la lenta “decadenza” che minava il mondo. Finché i romani si sono creduti “invincibili” ed hanno sentito il dovere di difendere la patria, Roma si e’ ingrandita. Quando hanno cominciato a credersi “invulnerabili” ed hanno affidato ad altri la propria difesa, Roma e’ sparita dalla storia. Non hanno tenuto conto di un paio di “regolette” semplici: “se non sai difenderti, morirai” e se affidi la cura dei tuoi interessi a qualcun altro, un giorno scoprirai che quello “fa i suoi interessi e non i tuoi”. Nell’epoca in cui viviamo si e’ voluto dimenticare un fondamentale principio: “Se si spende più di quanto si guadagna fatalmente si va a sbattere”. Per anni ed anni, l’Italia ha speso molto più di quanto guadagnava “e tutti erano contenti”. Perché “non succedeva niente”. L’Italia prosperava invece di fallire. E allora perché non regalare qualcosa a tutti, perché non fare altre spese, perché non dare di piu’ a chi chiedeva magari minacciando? In una parola: perché non comprare il consenso? Non bisogna pensare che i politici degli anni 70/90 fossero tutti “stupidi”. Il principio per cui “non si può spendere più di quanto si guadagna” lo conoscevano benissimo, ma perche’ preoccuparsene? Se la crescita economica continuerà, nel futuro con le imposte si copriranno tutte le spese che facciamo oggi. E perché non doveva continuare quella crescita? Comunque, se nel caso i debiti dello Stato divenissero troppo onerosi, una bella “svalutazione” rimetterebbe le cose a posto. E questo e’ stato fatto più volte. I governanti di quel tempo non volevano perdere le elezioni, ed e’ cosi’ che la Democrazia Cristiana era costantemente al potere (consociata sotto banco con i comunisti) e nessuno poteva scalzarla. Tutti erano convinti del fatto che l’Italia non poteva mai crollare e cominciavano a pensare che quella regola (“non puoi spendere più di quanto guadagni”), dopo tutto, poteva essere non valida. Erano anni che non l’applicavano e tutto continuava ad andare benissimo. Se fa caldo da vent’anni, perché non dovremmo parlare di “cambiamento del clima”? Ma venti anni di seguito, per l’uomo e’ un tempo sufficiente per trarre delle conclusioni, mentre per la Terra quel tempo e’ del tutto insignificante e cos’ lo e’ anche in economia. Siccome tutto va bene “madama la marchesa”, si e’ divenuti così fiduciosi del fatto che l’Italia non potesse fallire, e Prodi ha accettato un cambio lira-euro del tutto sbagliato (1936,27 lire per ogni euro quando la valutazione giusta era attorno alle 1200 lire) e ci si e’ impegnati a non procedere mai più a svalutazioni. Il risultato l’abbiamo visto. Con l’euro i prezzi sono pressoché raddoppiati, non si e’ più potuto “svalutare” la moneta, il debito pubblico e’ rimasto “altissimo”, e infine i mercati finanziari si sono molto allarmati che l’Italia potesse fallire. Fra l’altro, non e’ detto che questo pericolo sia del tutto scongiurato. Oggi nessuno, neppure il governo Monti, sa esattamente come ridivenire competitivi in campo internazionale e come sopravvivere. E nessuno sa come toglierci di dosso un debito pubblico mostruosamente grande. Chi va contro i principi del buon senso, chi arriva a negare l’evidenza, chi pensa che possa avere tutto quello che desidera, prima o poi sbatte la faccia contro la “dura roccia” della realtà.
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