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domenica 6 marzo 2011

Renzo De Felice. Dalle macerie del dopo guerra ad oggi. La riforma della scuola Gelmini per rimediare ai disastri del "Sessantotto".

Il Globo & La FiammaAustralia

Venerdi 04 marzo 2011


Durante gli anni degli studi (terminati nel 1959) ho visto, e ancor di piu’ negli anni successivi, tanti “deficienti” che marciavano a braccio teso, ma erano piu’ numerosi quelli che marciavano con il pugno chiuso. Chi e’ nato dopo il fascismo (oramai quasi tutti) ha potuto capire qualche cosa del “ventennio” solo leggendo Renzo De Felice. La retorica della “resistenza” e dell’antifascismo ha nascosto la verità storica, rendendo quasi “inspiegabili” gli anni precedenti. Una volta appeso a testa in giù il dittatore a Piazzale Loreto, i piu’ preferirono cancellarne la memoria, mentre una minoranza di “nostalgici” continuavano a “ostentare” il saluto fascista e si rasavano le loro teste di cavolo. De Felice e’ nato nel 1929 (deceduto nel 1996) ed e’ stato lo storico considerato il massimo esperto del fascismo. Iscritto al PCI (Partito Comunista Italiano), nel 1956 fu tra i firmatari del celebre “manifesto dei 101”, sottoscritto da intellettuali dissenzienti all’appoggio del PCI all’invasione sovietica dell’Ungheria. Insieme a molti dei firmatari del manifesto (Giorgio Napolitano e tutti gli attuali dirigenti del Pd ex PCI non lo firmarono), De Felice lasciò il PCI per iscriversi al Partito Socialista Italiano. Nel 1968 fu professore ordinario presso l’Università’ di Salerno. Nel 1970 fondò la rivista “Storia Contemporanea”. Nel 1972 professore all’Università’ de “La Sapienza” di Roma, dove insegnava storia dei partiti politici. Nel 1986 ebbe la cattedra di storia contemporanea. I suoi studi, indirizzati inizialmente verso la storia moderna, si concentrarono poi su quella contemporanea da li scaturì l’interesse che caratterizzò la sua carriera di storico della dittatura fascista. Al di là degli elogi e delle critiche, l’interpretazione che De Felice da della dittatura mussoliniana ha comunque il merito di aver suscitato l’interesse di studi e riflessioni sul fascismo. Quando De Felice pubblicò il primo volume della monumentale biografia di Mussolini, la cultura e la politica italiana erano ancora “ferocemente” divise (e lo sono tuttora). Le sue ricerche, riconosciute da buona parte degli accademici come serie e scrupolosamente documentate, furono spesso interpretate dalla destra per negare le responsabilità storiche del fascismo, mentre la sinistra lo accusavano di giustificare il fascismo. Gli antifascisti reagirono violentemente considerando “blasfema” la sua opera e De Felice subì il “boicottaggio” universitario e culturale. Lui se ne “fregò” e continuò il suo lavoro assolutamente “scientifico” e non affatto “revisionista”. Pubblicò alcuni suoi articoli su “Il Giornale” e sul “Corriere della Sera” ed ebbe il merito di aprire il dibattito sul fascismo a un pubblico non di soli specialisti. La nostra democrazia, la nostra libertà e la nostra Repubblica le dobbiamo ad un avvenimento a cui nessun italiano partecipò: gli accordi di Yalta. Per nostra fortuna l’Italia venne assegnata all’Occidente. Certo, una minoranza (erano 8000 i partigiani, dopo il 1945 “divennero” – miracolo!- oltre 500mila) combatté contro il nazi-fascismo, ma il PCI, diventato “egemone”, avrebbe voluto sostituire la dittatura fascista con quella comunista. La liberazione dell’Italia e’ stata conquistata con il sacrificio di tutti gli italiani, nessuno escluso. Non può essere rivendicata esclusivamente dal “ristrettissimo” movimento partigiano che ha avuto l’arroganza di “appropriasi” del merito dell’esclusiva “liberazione” dell’Italia dal fascismo e della scrittura della Costituzione. Dalle macerie belliche, affrontando enormi sacrifici e con l’emorragia di milioni di persone emigrate in tutti i Paesi dei cinque continenti, nei primi anni ’60 l’Italia raggiunse un straordinario“miracolo economico”. I consumi si diffondono anche tra gli strati sociali inferiori, in precedenza esclusi. I giovani iniziano a vivere in un’epoca di “vorticosi” mutamenti e stanno molto meglio delle generazioni che li aveva preceduti. La loro visione del mondo e’ diametralmente opposta ai loro padri. Vogliono una vita con piu’ valori umanitari e piu’ “permissiva”. Sono critici di una scuola di massa che non garantisce sbocchi lavorativi adeguati. Sono contro la cultura capitalista. Pensano che il significato della vita sia nell'arte, nella scienza, nella filosofia, nell'amore, nella solidarietà, nell'avventura. Credono in un diverso rapporto uomo-donna e a una diversa ripartizione dei ruoli in seno alla famiglia. E, infatti, l’evoluzione e l’affermazione del femminismo subiranno una forte accelerazione dopo il “Sessantotto”. Credono nella convivenza di razze diverse. Sono contro il materialismo imperante. Usano le manifestazioni come strumenti di mobilitazione dell’opinione pubblica. Sul finire del febbraio 1968 iniziarono le “occupazioni” delle universita’ “esautorando” gli insegnati per dar vita a seminari “autogestiti” ed esami di gruppo. Sono una minoranza, ma godono di appoggi politici e dei mass media. Il “Sessantotto” durerà per una decina d’anni influenzando, per lo piu’“disastrosamente”, la nostra storia. Una parte degli studenti vuole vivere completamente fuori dal sistema dando vita al fenomeno degli “hippy”, i figli dei fiori, fate all’amore no la guerra, ma facevano, molte volte, uso della droga. La protesta e la contestazione giovanile si fonde con le lotte operaie di fede “marxista”. Nel 1969, le lotte del cosiddetto “autunno caldo” vedono protagonisti, fianco a fianco, studenti e operai che vagheggiano una rivoluzione comunista sul tipo della rivoluzione culturale cinese di “Mao”. Danno vita a formazioni extraparlamentari rissose e anarchiche. Una parte della contestazione sessantottina degenererà nel “terrorismo” e l’Italia vivrà gli “anni di piombo” delle “brigate rosse” e l’assassinio (1978) di Aldo Moro. Era difficile prevedere un buon futuro in Italia per i miei cinque figli, e cosi’, nel 1982, li portai in “salvo” in Australia. Visti i risultati da loro raggiunti fu un’ottima decisione, ma per mia moglie e per me costituì un “regresso”. Il movimento studentesco “sessantottino” diventa “palestra politica” dove si affinano le abilità “retoriche” e di comando e si formano le nuove classi dirigenti. Molti leader della contestazione fanno parte attualmente della classe politica dirigente, sono professori di scuole superiori, docenti universitari e magistrati. Ecco che si spiegano tante cose. Nelle fabbriche si diffonde il “sabotaggio” delle macchine e della produzione. Si pratica spesso lo sciopero “selvaggio” per rivendicazioni salariali. Il “Sessantotto” diventa una rivoluzione “autolesionista”. Gli obiettivi sono vaghi, esclusivamente ideologici, poco concreti e lontani dalla realtà: una “utopia”. I valori religiosi ed umani vanno in crisi o scompaio del tutto. Il “Sessantotto” fu un vero terremoto, un movimento di grande energia innovativa, ma con moltissime “nefandezze” che durano tuttora e che hanno profondamente “condizionato” la vita politica, economica, culturale e sociale di questi ultimi decenni. Si diffuse la consapevolezza dei “propri diritti” trascurando l’obbligo dei “propri doveri”. In quell’epoca avevo trent’anni e quattro figli da sostenere: soltanto “doveri” per me. Il “Sessantotto” rallentò e mise in crisi lo sviluppo industriale del Paese. Diede origine ad una guerra civile “permanente” (che in parte continua) che causò una drammatica scia di sangue con morti e feriti. Provocò lo “sfacelo” della scuola, generò un certo “lassismo” nella pubblica amministrazione e una certa ”ineducazione” di comportamenti nella vita quotidiana. Scrive lo scrittore Giampaolo Pansa nel fare un bilancio di quell’epoca: “Straordinaria stagione di grandi slanci, di enormi sciocchezze e di terribili errori”. E’ tempo di uscire dalla “influenza deleteria” del “Sessantotto” salvando i pochi aspetti positivi e gettando via quei molti di piu’ negativi. La riforma della scuola, recentemente approvata, e’ l’inizio, ma la sinistra e l’opposizione, come al solito, la contestano e polemizzano per una recente dichiarazione di Berlusconi proprio sulla scuola: “Il mio Governo ha avviato una profonda e storica riforma della scuola e dell'Università, proprio per restituire valore alla scuola pubblica e dignità a tutti gli insegnanti che svolgono un ruolo fondamentale nell'educazione dei nostri figli in cambio di stipendi ancora oggi assolutamente inadeguati. Questo non significa non poter ricordare e denunciare l'influenza deleteria che nella scuola pubblica hanno avuto e hanno ancora oggi culture politiche, ideologie e interpretazioni della storia che non rispettano la verità e al tempo stesso espropriano la famiglia dalla funzione naturale di partecipare all'educazione dei figli. Le mie parole, perciò non possono essere in alcun modo interpretate come un attacco alla scuola pubblica, ma al contrario come un richiamo al valore fondamentale della scuola pubblica, che presuppone libertà d'insegnamento ma anche ripudio dell'indottrinamento politico e ideologico”. E per essere piu’ chiaro aggiunge:“Educare i figli liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli educandoli nell'ambito della loro famiglia”. Un Paese “democratico”, se vuole veramente salvaguardare la sua “Democrazia” e che si rafforzi, deve avere una scuola “apolitica”. I cittadini che ne verranno formati dovranno essere consapevoli del bene e del male della storia del loro Paese per essere, sempre e comunque, orgogliosi ed onorati di essere italiani. La scuola deve insegnare la storia per quello che realmente e’ stata, obbiettivamente e senza imbarazzi, per questo non deve mettere al “bando” storiografi come Renzo De Felice.

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