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lunedì 24 marzo 2014

Il giusto compenso dell'Ing Moretti

Ci sono aggettivi, come “giusto”, che sembrano evidenti e che invece si guastano se si scende sul concreto. Il colpevole deve essere condannato, ma qual è la pena giusta? A partire da questo momento è difficile trovare l’unanimità fra magistrati, accusa e difesa. Il metro, per sua natura opinabile, lo è particolarmente quando si tratta di un compenso. Chi fornisce la prestazione tende a misurare il compenso sulla fatica che gli è costata, chi la prestazione deve pagarla, la misura sulla base dell’utilità che ne ha ricavato.
Dall’inizio della rivoluzione industriale le discussioni più appassionate sono quelle riguardanti “il giusto compenso” per i lavoratori dipendenti. In questo campo si intersecano parecchi parametri: quello morale, sul quale gli interessati non si metteranno mai d’accordo; quello politico, dove si fanno scorpacciate di demagogia, sempre a spese dei terzi; e infine quello economico: in definitiva, l’unico che conta. Qui infatti, come per tutti i contratti, il compenso dipende in fin dei conti, dall’incontro della domanda con l’offerta: “Se mi dài troppo poco non vengo a lavorare per te”, “Se chiedi troppo non ti assumo”.
Ci sono però persone i cui compensi sorprendono e scandalizzano la gente. Un vecchio aneddoto racconta che una volta un re si lamentò dell’eccessivo onorario richiesto da un cantante, osservando: “Non pago tanto nemmeno i miei generali”. E quello gli rispose: “Maestà, faccia cantare i suoi generali”. E infatti Pavarotti poteva chiedere per una serata compensi inimmaginabili per chi vive di stipendio.
Ma non sono privilegiati solo i grandi artisti. La gente e i giornali si scandalizzano quando fanno la proporzione fra ciò che guadagna un operaio – per esempio della Fiat – e ciò che guadagna il numero uno dell’impresa, per esempio Marchionne. La differenza - dicono - è immorale. E dimenticano che la legge della domanda e dell’offerta è valida anche ai livelli più alti. Se Pavarotti chiedeva troppo, il teatro lirico poteva sempre rivolgersi a Placido Domingo. E se la Scala offriva troppo poco, Pavarotti poteva sempre rivolgersi al Metropolitan di New York.
Ciò ci conduce all’attualità. L’ing.Mauro Moretti, Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato, avendo sentito parlare di riduzione dello stipendio (il suo è di 850.000 € l’anno) ha detto che, nel caso, egli lascerà il suo incarico. E tutti gli hanno dato addosso: alcuni, benevoli, hanno parlato di un’inammissibile gaffe, altri, dopo aver ricordato quanto essi stessi guadagnano al mese, hanno dichiarato che quel signore meriterebbe più o meno di essere fustigato sulla pubblica piazza. Ma la risposta giusta la dà la realtà. Se questo signore, lasciate le Ferrovie, non trovasse lavoro, o lo trovasse con un compenso minore, si rivelerebbe uno sciocco e uno sbruffone. Se al contrario trovasse presto un altro incarico, per giunta con un compenso ancora maggiore, sarebbe chiaro che la sua paga attuale è appena sufficiente. Dunque avrebbe avuto perfettamente ragione a dichiarare ciò che ha dichiarato: quel compenso “lo vale” largamente.
Il punto è che qualunque operaio, ed anche qualunque ingegnere delle ferrovie, sono perfettamente fungibili. E infatti, cambiando lavoro, non è detto che guadagnerebbero di più. Mentre il grande amministratore somiglia, in questo campo, al grande artista. Opera su una tale scala che, se riesce a migliorare i bilanci della ditta di una piccola percentuale, ne migliora i conti per un notevole multiplo del suo compenso. Ciò valse, ad esempio, per Lee Yacocca, ed oggi per Marchionne. Anche se poi ci sono i pagatissimi executive della Lehman Brothers che non ne hanno evitato il fallimento. Comunque i discorsi moralistici sui compensi altrui sono inutili. Se si trova che Pavarotti è troppo pagato, si vada a cantare al suo posto.
Il discorso puramente tecnico va precisato ed in parte contraddetto quando si tratta di imprese di Stato. Qui un grande amministratore può essere prezioso a condizione che gli si lasci la libertà di guidare l’impresa con criteri economici. Se invece all’occasione gli si vieta di ridimensionare la forza lavoro, oppure di licenziare chi sabota la produzione, i grandi compensi sono sprecati e i suoi eventuali cattivi risultati sono giustificati. Infatti è come se, per pilotare un’automobile di Formula 1, si assumesse un asso e poi gli si vietasse di schiacciare l’acceleratore.
Di perdere soldi siamo capaci tutti. Se l’erario è risoluto a tenersi un’impresa antieconomica, tanto vale che la lasci dirigere a una qualunque mezza calzetta. Purtroppo poi non va così: perché, quando si tratta di imprese pubbliche, c’è sempre il sospetto che l’assunzione di un collaboratore costoso non corrisponda tanto alla volontà di avere un’ottima amministrazione, quanto a quella di procurare ad un amico una retribuzione da sogno. 
In questo caso, come è evidente, oltre che fuori dalla morale, siamo fuori dall’economia.
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