- Piero Ostellino
- Mercoledì, 28 Maggio 2014
Corriere della Sera - Il dato strutturale che emerge dall’esito delle elezioni europee è che il trasformismo rimane una costante della politica italiana. Oltre il 40% di elettori ha premiato le promesse e gli annunci riformistici di Matteo Renzi, producendo un miracolo: la trasformazione del Pd e del governo in una sorta di berlusconismo di sinistra. Il «ciclone» Grillo è stato scongiurato anche con l’aiuto di media che hanno promosso il Pd a qualcosa di diverso da ciò che è stato ed è: l’erede culturale del Pci, un partito ideologico, novecentesco, antiriformista, per la sua componente marxista; antimodernista e totalitario, per la sua parte rousseauiana, quella della «volontà generale». Il Partito democratico è diventato, con queste elezioni, la «diga», a contrasto dell’estremismo palingenetico, ma senza il disincantato pragmatismo della vecchia Dc, ma il modo con il quale ciò è avvenuto non è incoraggiante per il futuro del Paese.
Renzi è un ragazzotto che se la cava bene a chiacchiere. Non ha altro da esibire; perciò fa dell’ottimismo della volontà la propria bandiera, spacciandola per programma politico. Ma non pare avere né la preparazione, né la forza e la volontà politiche per riformare davvero il Paese e liberarlo dal dispotismo burocratico. Insomma, secondo copione dopo ogni elezione, qualcosa è cambiato affinché nulla cambi. Renzi, sulla scia di Monti, ha aumentato le tasse; il Paese, caduto in una recessione economica devastante, attraversa una crisi culturale dalla quale non si vede come possa uscire. Ora, gli italiani - lo erano stati per anni quando ancora credevano nelle capacità riformistiche di Berlusconi - attendono, in privato, senza grandi speranze; in pubblico, animati da ottimismo di maniera - che annunci e promesse di Renzi si traducano in fatti. Scriveva Piero Gobetti agli albori del fascismo: «La lamentata incultura dei deputati rappresenta l’incultura e la confusione del Paese. Le corruzioni demagogiche, le indulgenze verso il parassitismo... corrispondono alle nostre condizioni storiche e indicano appunto l’incapacità e l’impossibilità di porre il problema nostro che determinerebbe ogni chiarezza, il problema dell’antitesi fra Nord e Sud (...) In sostanza, l’Italia, patria di tutte le ideologie e di tutte le ribellioni, si riduce a un Paese di conservatori». È cambiato qualcosa da allora e dopo vent’anni di fascismo e quasi settanta di democrazia ? A me pare di no.
Siamo il solo Paese al mondo che festeggia una sconfitta bellica e, con essa, la caduta di una dittatura alla quale aveva dato il suo consenso. I tedeschi non celebrano la sconfitta bellica che non nascondono di dovere agli Usa e all’Urss. Non festeggiano la caduta del nazismo, perché l’hanno elaborata e rimossa, con Ragione luterana, dal proprio immaginario e cancellato, con essa, il relativo senso di colpa. Noi continuiamo a celebrare la caduta del fascismo, agostinianamente il nostro peccato originale del quale non ci siamo ancora liberati, peraltro senza aver riflettuto su ciò che esso è stato e quanto di esso ancora rimanga nelle istituzioni e nel modo di pensare. Il 25 aprile è diventato, così, una sorta di confessione collettiva e liberatoria perché celebrata in perfetta sintonia con l’altro totalitarismo novecentesco, il comunismo.
Il mestiere che faccio è un ottimo osservatorio per capire gli umori dei miei concittadini. Molti di quelli che si credono la forza motrice del progresso ripetono, spesso parola per parola, ogni versione ufficiale dei fatti correnti, diligentemente divulgata dai media. Abbiamo il sistema informativo, nel mondo, più antinomico che ci sia della democrazia. Siamo individualmente e collettivamente incapaci di esercitare lo spirito critico e, come diceva Gobetti degli italiani della sua epoca, non sappiamo fare opposizione, facciamo (solo) la fronda e (poi) votiamo Mussolini. Il mito dell’«Uomo della Provvidenza» ha accompagnato gli ultimi tre governi, Monti, Letta, Renzi, nati non attraverso libere elezioni, ma per partenogenesi del presidente della Repubblica, diventato un monarca costituzionale un po’ per ambizione personale, molto per dilatazione «materiale» della Costituzione formale parecchio pasticciata di suo.
In conclusione. Non saranno il successo di Renzi e la sconfitta di Grillo a salvarci. Ci vuole altro. Dalla scuola secondaria all’università, dall’Ordinamento giuridico al sistema politico alla cultura dominante, «gli è tutto da rifare», come diceva la buonanima di Bartali. Ma non si vede chi e come lo possa fare. Uno che assomigli a Bartali non c’è; di certo, Renzi non è, diciamo, Coppi; neppure Magni...
Piero Ostellino
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