Benito Mussolini - Sab, 27/08/2016
Abbiamo lanciato una parola d'ordine agli italiani per il 1921:
riguadagnare il tempo perduto, che, per il solo 1920, si compendia in questo
pauroso totale: ventuno milioni di giornate di...vacanza!
Lavorare! Questo monito ha il torto di ricordare il famoso nonché nittiano...
produrre. Ci limitiamo ad osservare che, già durante l'ultima fase della
guerra, noi ci eravamo posti sul terreno produttivista e dal punto di vista
nazionale e dal punto di vista sociale. Lavorare!, noi diciamo o ripetiamo
oggi, non soltanto per ridotare la nazione e l'umanità dell'enorme,
inverosimile quantità di ricchezze distrutte dalla guerra.
Questo è un lato del
problema. Certamente, non è trascurabile. In tempi, come gli attuali, di nera
miseria, malgrado certe ostentazioni dell'alto e del basso e di spaventoso
caro-viveri, che si producano o non si producano beni materiali, non è cosa che
possa lasciare indifferenti gli uomini.
I quali non vivono di solo pane, ma
nemmeno di sole frasi, siano pure cantaridizzate dalla più smagliante retorica.
Le cicale, si dice, vivono e muoiono del loro canto; gli uomini di carne e
d'ossa, no. Del resto anche quelli che paiono avere in sommo dispregio le
banali necessità della vita, alla prova dei fatti sono meno ascetici di quel
che amino far credere.
Non è semplicemente per aumentare la quantità di beni materiali che noi
incidiamo sulle nostre insegne la parola «lavorare!»; e non è soltanto in
omaggio ai criteri della vecchia, rispettabile morale secondo la quale il
lavoro nobilita e l'ozio, ecc., ecc. C'è una ragione più profonda, nella quale
si riassume tutta l'esperienza e la lezione tragica della nostra guerra:
bisogna lavorare, cari italiani, se volete essere liberi a casa vostra e nel
mondo. Lavoro è uguale a libertà. Un popolo parassita non può sfuggire al suo
destino, che è quello di essere ridotto nella più miserevole delle schiavitù.
L'equilibrio dell'Europa, qual è uscita mal combinata dalle radunate
diplomatiche di Versailles, Trianon, Sèvres, Neuilly, Rapallo è instabilissimo.
L'Europa non ha ancora ritrovato la sua pace. O la ritroverà, giungendo a
creare la sua unità politica, economica, spirituale, il che le permetterà di
non essere semplicemente il bottino da spartire fra i due continenti
virtualmente già in guerra (America, e Giappone-Asia); o continuerà a vivere
qualche decennio ancora nell'attuale stato d'incertezza, ottimo per la
penetrazione commerciale americana e giapponese.
È lecito prevedere che fra qualche decennio i rapporti demografici fra le
varie nazioni europee si saranno di nuovo profondamente alterati. Il mondo
russo, ricacciato in piedi dall'americano Vanderlip e dal tedesco Stinnes,
tornerà a gravitare, fatalmente e pesantemente, verso il Mediterraneo e
l'Atlantico. L'enorme ondata del mondo slavo spazzerà via gli Stati periferici,
come la Polonia, e si abbatterà, in un primo tempo, sulle pianure della
Vistola. I settanta-ottanta milioni di tedeschi si metteranno allora di nuovo
in movimento, «aspirati» dalla rarefazione della massa francese, il cui
squilibrio fra territorio e popolazione - malgrado i premi di natalità - tende
irresistibilmente ad aumentare. L'Inghilterra, che, nel frattempo, sarà stata
bandita dall'oceano indiano e dal Mediterraneo, grazie alla sollevazione - già
in atto - del mondo islamico, affiderà alla sua flotta navale e aerea la
protezione estrema della sua libertà.
Nessun dubbio che la storia europea di domani sarà opera principale del
mondo russo e del mondo germanico. E l'Italia? Dopo la Russia e dopo la
Germania, l'Italia è il blocco nazionale più compatto ed omogeneo. Verso il
1950 potrà contare circa sessanta milioni di abitanti, quindici o venti dei
quali diffusi sulle rive del Mediterraneo o nei paesi d'oltre Atlantico.
Nessuno può mettere in dubbio la vitalità straripante della nostra razza. Ebbene,
nel momento nuovamente topico e tragico della storia europea, quando gli
infiniti nodi verranno fatalmente al pettine, noi, italiani, potremo o non
potremo scegliere, potremo o non potremo fare una politica da nazione libera, a
seconda della maggiore o minore libertà economica che ci saremo conquistati
nell'intervallo di tempo.
Noi siamo oggi economicamente schiavi. Schiavi di chi ci dà il carbone;
schiavi di chi ci dà il grano. Se verso il 1950 avremo ancora bisogno
d'importare dall'esterno trenta milioni di quintali di grano, e non avremo
«redenti» nemmeno gli ottocentomila ettari di terreno paludoso - che, secondo
il recentissimo studio dell'on. Buoncompagni Ludovisi, possono aumentare la
superficie del nostro terreno coltivabile a cereali - noi saremo costretti a
fare la politica che piacerà allo Stato nostro fornitore di grano: Russia o
America che sia. Se verso quell'epoca non avremo elettrificato le nostre
ferrovie, utilizzato e sfruttato sino al possibile tutte le risorse del nostro
sottosuolo, la nostra politica sarà dipendente dalla politica della nazione che
ci darà o ci negherà il carbone. Insomma: bisogna ridurre al minimo il nostro
vassallaggio economico per avere il massimo di libertà e di autonomia in
materia di politica estera. In altri termini: bisogna lavorare!
Solo a questo patto l'Italia può diventare la nazione dominatrice del
bacino del Mediterraneo e scaricare sulle rive africane di quel mare il più
della sua popolazione e delle sue energie. Il mondo che circonda l'Italia ad
oriente e ad occidente è straordinariamente rarefatto. Per popolazione e
territorio, Italia e Spagna stanno come Francia e Germania. Certi straripamenti
delle masse umane sono inevitabili e necessari. Rappresentano i fecondatori
«rovesci» della storia. Il dilemma che attende l'Italia è questo: o dividere
con Germania e Russia l'onere e l'onore di dirigere la vita del nostro vecchio
e tormentato continente, o diventare un grande «casino» internazionale.
Gli italiani che non amano il ruolo di Alfonsi della loro patria smettano
d'incarognire su ognuno di tutti gli scogli dell'Adriatico e mettano mano ai
torni, ai telai, alle navi, agli aratri.
Lavorare per essere liberi e grandi!
8 gennaio 1921
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