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giugno 21:24FacebookTwit
Luciana Esposito è una giovane giornalista da anni impegnata contro la
camorra, che ha scelto di restare a Napoli, la sua frontiera. Due aggressioni
fisiche, 15 denunce, minacce di morte e tanto altro. L’altro giorno ha
condannato dalla sua bacheca la scelta del Ministero di togliere la scorta a
Saviano, ma due anni fa gli ha scritto una lettera aperta che in questi giorni
ha fatto il giro del web e che pubblichiamo.
Caro Roberto,
Se respirassi Napoli con i tuoi polmoni e ritrovassi il coraggio di guardarla
senza filtri, dritto negli occhi, per giungere a toccare con mano le cicatrici
e le ferite tuttora sanguinanti che si porta cucite addosso, saresti orgoglioso
dello striscione apparso nel Rione Sanità, perché rappresenta un monito forte
alla camorra e ancora di più a chi la intreccia a suggestioni
letterarie/cinematografiche per lanciare sul mercato prodotti “proliferi” utili
a tenere viva la macchina da soldi innescata da Gomorra, tanti anni fa…
“La camorra
e rinnegati non hanno nazionalità e Napoli ha bisogno d’amore, non di fango.
Napoli in azione”
questo è quanto riportato su quel mantello bianco, pregno
d’indignazione ed orgoglio, oltre che di vernice.
Napoli rivendica verità, è
stanca delle tue “favole”.
Scontata e
assai opinabile la tua replica: “Questo striscione campeggia a Napoli
abbarbicato sul ponte della Sanità. Questo striscione lo ha messo lì chi odia
Napoli. Perché fango non è raccontare, fango è uccidere, spaventare,
terrorizzare, togliere speranza e azzerare ogni futuro possibile.”
Se tu
vivessi a Napoli, ti sarebbe giunta notizia che, proprio nel cuore del Rione
Sanità, in una delle fette di Napoli più sopraffatte dalla camorra,
all’indomani della morte dell’ennesima vittima innocente della criminalità,
centinaia di persone sono scese in strada per sbarrare il passo alla camorra.
E, probabilmente, quello che esaspera ed indispettisce il popolo è il fatto che
tra gli scritti e nelle gesta cinematografiche che portano la tua firma,
“stranamente” non c’è spazio per la civiltà e la legalità che inizia a
rivendicare la sua presenza, soprattutto tra le crepe dei contesti più
devastati dalla camorra. Questo ritrovato e partecipato senso d’indignazione
rischia di offuscare l’attendibilità di quel prodotto che assicura il massimo
risultato con il minimo sforzo: “camorra, Scampia e malammore”. Del resto,
perché discostarsi da un principio mediaticamente vincente, parafrasando una
realtà che rischia di rompere il giocattolo?
E questo,
agli esseri pensanti che hanno ancora voglia di indignarsi, proprio non va giù.
Due
aggressioni fisiche, l’ultima sfociata persino in un tentativo di sequestro di
persona, all’incirca 15 denunce sporte dall’inizio del 2016, minacce di morte
da parte della madre del boss dei Barbudos, plurimi raid vandalici alla mia
auto. Le intimidazioni, le minacce e gli avvertimenti, sono all’ordine del
giorno: questi i fatti che sintetizzano il mio lavoro di giornalista,
direttrice di un giornale online qualunque, una scelta voluta per non
sottostare alle disposizioni di nessun padrone. Con tutti i contro che questo
comporta. Non diventerò mai ricca e non è questa la motivazione che anima il
mio operato, diversamente avrei mollato dopo il primo “strascino”.
Il tutto viene ulteriormente aggravato da un dettaglio
che fa la differenza: vivo nel posto in cui lavoro e di cui racconto le
malefatte, Ponticelli, quel quartiere che hai intravisto attraverso talune
scene di Gomorra, quello in cui, invece, io sono nata e cresciuta e dove vivo e
lavoro, muovendomi tra la violenza, l’odio, l’omertà di chi, mentre venivo
pestata, non ha mosso un dito per difendermi. Eppure, ho scelto di restare e di
non fare nemmeno mezzo passo indietro.
Anzi, ho
imparato a capire che misurarsi costantemente con la paura e con i limiti
imposti dalla consapevolezza di quello che fai è il metro valutativo più
attendibile per non perdere mai la lucidità né l’impatto con la realtà.
Non me ne
volere, ma credo che tu non abbia la minima percezione di cosa voglia dire
vivere costantemente sotto minaccia: gli sguardi, le citofonate nel cuore della
notte per buttarti giù dal letto solo per recapitarti l’ennesimo “consiglio”,
le limitazioni dettate dalla consapevolezza che ti muovi in un campo minato, il
lucido cinismo che ti porta a non fidarti di nessuno. Eppure, non vivo sotto
scorta, le spalle ho imparato a guardarmele da sola, ma non credo che la mia
vita valga meno della tua, meno che mai lo penso del mio lavoro.
La ricerca
della verità e soprattutto la “vera” lotta Anticamorra, richiedono questo
genere d’impegno e di sacrificio e chi sceglie d sposare questa causa, deve
fare inevitabilmente i conti con tutto ciò che questa scelta tristemente
comporta. Di conseguenza, le difficoltà con le quali mi confronto sono
innumerevoli, quindi, nonostante sia presente sul posto, faccio non poca fatica
a reperire notizie certe. Mi ha sempre affascinato ed incuriosito il fatto che,
invece, tu non subisci questo genere di difficoltà, nonostante ti trovi a raccontare
Napoli dall’altro capo del mondo. Questo “dettaglio” non sfugge allo
spettatore/lettore attento che non può non interrogarsi in merito
all’attendibilità dei fatti che racconti.
Romanzare la
camorra sta mietendo più danni dell’affiliazione stessa, ma per rendertene
conto dovresti vivere Napoli da Napoli.
I giovani
camorristi che prima di andare a fare “le stese” si riuniscono in cerchio e
urlano “le frasi di Gomorra” per motivarsi, l’emulazione fisica e
comportamentale dei personaggi della serie, non solo da parte dei camorristi,
la riproduzione fedele della casa di Don Pietro Savastano voluta da un boss, i
ragazzini che ripetono fino allo sfinimento “le frasi tormentone” della serie,
mentre giocano a pallone o ai videogiochi: per questo genere di “mostri”,
Napoli deve “ringraziare” te.
E sarebbe
opportuno ed anche estremamente interessante che fossi tu ad analizzare
“l’effetto di Gomorra sulla camorra”.
Sei bravo a
forgiare la realtà a immagine e somiglianza dei tuoi interessi, ma in questo
caso, non ci provare: gettare fango non è “raccontare”, ma raccontare una
realtà falsata per andare incontro a delle esigenze che nulla hanno da spartire
con la ricerca e la denuncia della verità.
Nessun
napoletano avulso dal sistema camorristico ha mai contestato il lavoro e le
inchieste di noi giornalisti presenti sul campo, anzi. Quello che, fin qui, mi
ha dato la forza necessaria per non mollare è proprio l’incoraggiamento dei
tantissimi napoletani desiderosi di liberarsi dalle angherie della camorra.
Non
giriamoci troppo intorno: la tua lotta Anticamorra, nasce e si sviluppa per
alimentare un business ben preciso e questo i napoletani lo hanno capito ed è
più che legittimo che ti chiedano di cambiare registro e prendere una posizione
netta: o romanziere o “detentore di verità assolute e inconfutabili”, non posso
chiamarti giornalista perché non lo sei ed è bene ricordarlo. Nel caso in cui
tu scelga di servire la verità, liberati da forzate ipocrisie, rimboccati le
maniche e scendi in trincea insieme a noi, perché lo ribadisco: la tua vita non
vale di più della mia e di quella di migliaia di giornalisti che ogni giorno
rischiano la vita in nome di un ideale e che per questo non si sentono degli
eroi né si aspettano che il mondo si fermi per tributargli una standing ovation.
Se dovesse
accadermi qualcosa, tu sei una di quelle persone dalle quali desidero ricevere
solo indifferenza: vedermi appioppare uno dei tuoi sermoni, vorrebbe dire
gettare fango prima sul mio cadavere e poi sulla credibilità del mio lavoro,
più silenzioso del tuo, ma, anche assai più sincero e disinteressato.
www.retenews24.it
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