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giovedì 16 febbraio 2012

Il lavoro nobilita l'uomo, ma non sempre.

La gente lavora per procurarsi da vivere. Ma la “necessità” e’ solo una delle ragioni per cui si lavora. Se si lavorasse per vivere, sarebbe normale smettere quando non se ne ha piu’ bisogno, invece, nella maggior parte dei casi, ciò non avviene. Sentiamo parlare di lavoro dalla più tenera infanzia. Mio padre va a lavorare, Tizio cerca lavoro, Caio ha perso il lavoro, tutti lavorano. Come mai quel signore non lavora? Se si tratta di un ricco lo si invidia o lo si condanna. Se si tratta di un povero lo si consi­dera uno spostato o un parassita. Conoscendo una persona una delle prime cose che gli si chiedono e’: che fa, nella vita? E chi non ha un mestiere o una professione e’ uno che “non fa niente”: magari, invece, e’ un bravo “artista”. All’inizio si lavora per necessità, potendone fare a meno, si continua a lavorare perche’ molti lo sentono come un “dovere” o perché e’ un'attività interessante, perché ci permette di sentirci vivi. I guadagni potrebbero divenire secondari: c’è chi si impegna molto più per il successo che per il denaro e chi al momento di ritirarsi preferireb­be continuare, anche se dovesse guadagnare come la pensione che gli aspetta. Il “dovere” di lavorare in molti e’ nascosto nel profondo del loro “io” che si trasforma in una quasi “malattia” che non gli fa piu’ tener conto del proprio tornaconto. I capi d’impresa, che non conoscono orari e sempre pieni d’impegni, riconoscono la “assurdità” della loro vita e cercano scuse come le necessità della famiglia. Ma i figli potrebbero fare a meno della Ferrari, la moglie dei gioielli, della casa al mare ed in montagna ecc. Rimangono in ufficio fino alle undici di sera o nel week end per non farsi sfuggire un affare conve­nientissimo, ma di quell’af­fare non hanno nessun bisogno e, anzi, farebbero bene a spendere i soldi guadagnati con l'affare prece­dente. Per il “milionario” il guadagno e’ solo la misura del suo talento e spesso e’ tanto personalmente sobrio quanto e’ generoso con gli altri. Stupefacente e’ che amino il loro lavoro milioni di persone che hanno compiti umili, ripetitivi e che riescono a trovare un lato “creativo” del loro mestiere. Sono soddisfatti ed appagati di come e’ lucido il pavimento che hanno appena pulito e lavato; nel dimostrare al cliente come il guasto del motore sia stato perfet­tamente riparato; di come hanno innalzato il muro di una casa in costruzione o nell’avere venduto un brutto vestito a una cliente difficile ecc. Per alcuni il lavoro e’ l’unica fonte di “au­tostima”. Un uomo può amare le ore che passa nel suo luogo di lavoro perché lì e’ “qualcuno”, mentre a casa e’ “quel cretino di mio marito”. Se bisogna lavorare per vivere non si ha scelta, ma chi non lavora per necessità e’ quasi “innaturale” che lo faccia: il gatto sazio non caccia topi. Ad un certo momento bisogna lasciare il lavoro perche’ e’ “naturale” che si voglia dedicarsi a cose che non si e’ avuto tempo di fare durante la vita lavorativa come, ad esempio, arricchirsi culturalmente, stare di piu’ con figli e nipoti, i famigliari o gli amici, dedicare parte del proprio tempo al volontariato. Ci sono mille modi per continuare a “produrre” ed essere utili.

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