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martedì 22 aprile 2014

"La Repubblica" alla base di tante sciagure italiane

La selezione fu oculata assai. Tutte e tutti avevano accesso a fonti di informazioni alternative o ben integrative alle notizie controllate o dalla Democrazia Cristiana o dal Partito Comunista Italiano, suo eterno acerrimo avversario politico ma circospetto consociato nella gestione del potere.
Alcuni redattori provenivano dal quotidiano romano del pomeriggio “Paese Sera”, medesima sede centrale de “l’Unità”, medesima matrice comunista, possibile intercambiabilità di uomini e articoli, ma più attenta, come testata, a talune scapigliature della borghesia romana. Per scrivere per l’Unità bisognava essere membri del Pci, per “Paese Sera” non necessariamente.
Nella redazione del nascendo giornale, le api regine e i calabroni, di cui tra un momento, ronzavano in mezzo allo sciame di frequentatori diurni dei gruppi parlamentari e dei portaborse di politici di spicco, nonché dei loro padroni, e dei dirigenti dei ministeri, nonché dei ministri stessi ronzavano.
Ma il nocciolo duro, quello che avrebbe fatto la differenza rispetto ad altri organi d’informazione – ai tempi quasi tutti ingessati dai due partiti dominanti che nominavano in Rai e in Ansa i loro pupilli – era costituito da giovani e meno giovani donne e uomini direttamente imparentati o in intimi rapporti con esponenti dei centri di potere dominanti o dei salotti bene della capitale: figlie o compagne, figli o amici di vertici militari, di sindacalisti di massimo livello, di gruppi industriali dell’auto e dell’acciaio e del petrolio, di commissari a Bruxelles dell’allora Cee, la Comunità Economica Europea, di partecipate statali come le aziende dell’Iri, dell’Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità, ICIPU, di analoghi possenti erogatori di mezzi finanziari per iniziative sostenute con il beneplacito dei politici.
Cofondatore con Scalfari fu, non a caso, Carlo Caracciolo, imprenditore editore legato con vincoli culturali e di sangue, alle famiglie Agnelli e Falck, tanto per nominarne due.
Faccio un’eccezione alla mia regola di non parlare di io, spesso il buco nero della personalità di tanti giornalisti. Dirò quindi che, corrispondente dell’Ansa a Bruxelles, ebbi, nelle settimane della messa a punto del giornale, alla fine del 1975, contatti gradevoli, per quanto fugaci, con Mario Pirani Cohen (era amico di Barbara Spinelli, allora mia collega nei quotidiani briefing in sala stampa a Bruxelles) e, pochi giorni dopo, con Scalfari stesso, a Roma. Lui stesso mi spiegò che se un intellettuale era quasi costretto a comprare ogni giorno il “Corriere” e “l’Unità”, con “La Repubblica” non sarebbe stato più necessario.
Il clima era euforico.
L’iniziativa editoriale piaceva poco invece a un’altra collega, Vera Vegetti, funzionaria del Pci e brillante corrispondente da Bruxelles del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: mi espresse l’opinione che “La Repubblica” nascesse in funzione anti-Pci. Era comprensibile il suo punto di vista. Avvezza a una struttura verticistica del suo partito, che aveva già subito la scissione del “Manifesto”, un’altra iniziativa sedicente di sinistra non poteva piacerle.
Era, nell’insieme, una redazione con canali privilegiati con i potenti i quali, come spesso avviene tra loro, si divertivano a fare le gole profonde o per sfizio o per danneggiare qualche diretto avversario nella struttura in cui operavano o in una struttura concorrente.
Gli effetti dirompenti si fecero notare subito. “La Repubblica”, quotidiano giovane, fu ben presto anche molto fresco: le notizie erano di giornata! Tutti i suoi cronisti erano spinti da una nevrotica esigenza di distinguersi, spinta fruttuosa nel giornalismo, ché nulla c’è di meglio di reporter che decidano di cantare fuori dal coro. Fare lo scoop, dare buca a un concorrente erano le parole d’ordine.
Purtroppo in tante battaglie che si svolgevano alle spalle della redazione tanti giornalisti divennero, per dirla col poeta, strumenti ciechi di occhiuta rapina. Un esempio? La copertura della Borsa di Milano fu intensa e, a tratti, avventurosa, tanto da prestare il fianco a critiche di operare senza scrupoli, a vantaggio di speculatori dal fitto pelo sullo stomaco. Le critiche non vennero mai approfondite. Girarono addirittura voci di insider trading, ma furono tutte critiche che si rivelarono maldicenze di collegi malmostosi di altre testate.
Sella linea politica del giornale i timori di Vera Vegetti si dimostrarono fondati nei primi anni, dal punto di vista dell’ortodossia Pci almeno.
Ma né lei né altri avrebbero potuto immaginare che un giornale di sinistra avrebbe avuto una linea politica del tutto dipendente da un ristretto numero di intelligenze attente più agli equilibri economici di banche e grandi industrie vicine alla proprietà del giornale che alle sottili diatribe politiche cui l’Italia era abituata. Avvezzi tutti al potere suadente della Democrazia Cristiana e alla granitica struttura del Partito Comunista Italiano, nessuno poteva supporre che un gruppo di giornalisti, ben finanziato, potesse sparigliare il sistema d’informazione nazionale e usare termini crudi per favorire gli interessi non di una parte o dell’altra dello schieramento nazionale bensì i poteri forti che rappresentava e di cui proprietà e redazione erano antenne e tentacoli. Una lobby trasversale a sé stante, insomma, dicevano i soliti invidiosi degli altri quotidiani che vedevano erodersi diffusione e proventi pubblicitari.
Tuttavia non poteva non notarsi che, agli albori dell’Eurocomunismo di Enrico Berlinguer – poi dissoltosi nella vaghezza del nulla –, l’operazione “La Repubblica” ambiva a sostituire al potere della sinistra ortodossa genere Cominform una nascente sinistra dei poteri altri. Poteri forti? Chissà.
Quando nella seconda metà degli anni Ottanta Carlo De Benedetti, industriale e finanziare, entrò nella compagine azionaria del gruppo Espresso-La Repubblica la sua solidità finanziaria si accrebbe.
Tralascio le campagne politiche – e non giornalistiche – tra la sua nascita e il 1994, ché non furono esse che qui intendo rievocare per fare riflettere sulle strane vicende della testata.
Devo dire però, oggi che guardo a quegli eventi con gli occhi dalle sopracciglia bianche, che fu percorso spesso legato a sostenere uomini strani più legati a poteri locali di stampo affaristico che non a correnti di pensiero riformatore.
E devo rammentare le simpatie di “La Repubblica” per Ciriaco De Mita allora – e ancora oggi, trentacinque anni dopo essere stato presidente del consiglio –, uomo di potenza ad Avellino, insieme con i suoi eredi. Fu il politico che collocò Romano Prodi ai vertici dell’Iri che ben presente e attivo era nel Sud. De Mita fu Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. Di certo il suo criptico linguaggio doveva e deve dire qualcosa di rilevante e più che comprensibile per gli interessi del Gruppo editoriale che ruotava intorno a Eugenio Scalfari e alla sua equipe giornalistica.
Durante le apparizioni del politico Irpino della sinistra democristiana a Bruxelles, il suo Italiano – alla faccia della presentabilità in Europa – faceva ridere, rammento, i colleghi inglesi e tedeschi, che conoscendo un po’ di Italiano, si prendevano la briga di assistere alle sue conferenze stampa in chiusura dei Consigli europei della fine degli anni Settanta.
I cronisti della “Reuter” o della “Die Welt” mi chiedevano, divertiti, cosa mai avesse detto il Presidente del Consiglio italiano. Ricordo che dovevo ammettere che non avevo capito bene neanche io – cosa per loro giocosa, ma per me tragica poiché dovevo decifrare le sue oscure espressioni e scrivere un pezzo.
Devo anche rievocare la comprensibile avversione per Bettino Craxi che si oppose, con Silvio Berlusconi, alla svendita a De Benedetti della Sme, la finanziaria Iri dell’alimentazione. L’Iri era allora guidata proprio da Romano Prodi. (Tra parentesi: fallito l’affare De Mita-Prodi-De Benedetti la Sme venne poi venduta alla Nestlè a un prezzo ben più alto – un’operazione di dubbio vantaggio per l’Italia come altre vendite di gioielli di famiglia dell’Iri, ma fecero vantare il professore di Bologna di avere risanato i fallimentari bilanci della holding di Stato).
Non si può poi non ricollegare il comportamento degli ultimi vent’anni alla matrice di lobby trasversale originaria del quotidiano fondato da Scalfari e Caracciolo e rafforzato da De Benedetti e amato da Prodi. Ad ascoltare i frequenti interventi in televisione di tanti boiardi di Stato passati da banche a gestioni di società pubbliche e viceversa in un vado e torno e torno e vado che non sarebbe stato possibile in alcun altro paese occidentale, i toni cari a “La Repubblica” sono tenuti da loro nella massima considerazione. Così anche da parte di taluni magistrati impegnati in politica come sindaci o parlamentari o consiglieri regionali.
Il loro travolgente antiberlusconianismo – che lunga parola – senza se e senza e che prescinde da funzioni istituzionali o schieramenti intellettuali di appartenenza non può non fare pensare che rifletta appieno la vocazione de “La Repubblica” di perseguire una propria politica indipendentemente dagli schieramenti partitici, come è nella sua natura, fin dalla nascita appunto.
Il fatto grave è che il quotidiano romano – e chi ne propala le visoni – non ha mai approfondito i punti di divergenza con la politica economica dei governi Berlusconi. Né ha mai fornito proprie posizioni alternative che potessero catturare l’attenzione dell’opinione pubblica sui temi vitali nella vita dell’Italia.
Esso – e loro – si sono dedicati con tenacia a tre direttive d’azione.
La prima è stata quella di ricorrere a slogan di facile appiglio per gli insoddisfatti tra la gente e per gli incerti tra i politici (si è visto quanto essi siano sensibili alle critiche negli ultimi mesi mentre twitter imperava) e di battere sull’immoralità sessuale di Berlusconi e di chiunque avesse a che fare con lui. È un terreno mai percorso – giustamente – quando personaggi di spicco dell’economia e della politica si erano abbandonati comportamenti ben più disinvolti del Cavaliere.
La seconda è stata quella di aprire inchieste su malversazioni di politici di Forza Italia e del Pdl non avendo mai fatto analoghi sforzi per esponenti politici di drine, camorre e mafie che ancora oggi sono impuniti per passate azioni e per continuare a essere in combutta con la malavita. Qui siamo alla sponda giustizialista di una magistratura che sembra esercitare l’obbligatorietà dell’azione penale a proprio piacimento.
La terza è stata l’appropriarsi gradualmente della base del Pd, soprattutto quella più giovanile e immatura e quella radicale per temi sindacali e sociali.
È vero: stanno emergendo ora conferme sulle battaglie contro Berlusconi scatenate dai poteri forti che cui lui stesso alludeva fin dai primi anni della sua scesa in campo.
Ma c’è di più ed è qui che alla legittima lotta contro l’avversario politico si sovrappone – o si coglie nello sfondo – qualcosa di più grave, cioè il fatto che il partito degli interessi vicino a “La Repubblica” sia riuscito a delegittimare persino chi contro Berlusconi si batteva in chiave meramente culturale e sanamente politica, il Pd.
La sovrapposizione si è appalesata quando, nonostante la tragica situazione sociale del Paese, l’estremismo autoreferenziale de “La Repubblica” ha portato prima al vano tentativo di Pier Luigi Bersani di portare il Movimento 5 Stelle nella maggioranza di sinistra, almeno al Senato dove gli occorreva per governare senza controlli (con Prodi al Quirinale: l’anticamera di un regime che più regime non si poteva) e poi, fallito il bieco piano e tornato Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica, alla sua incapacità di mettere insieme una grande colazione Pdl-Pd che non poteva non avere capito essere necessaria.
Bersani stesso ebbe a dire – cito quasi testualmente – che non poteva fare accettare alla base del Pd un dialogo con un partito, il Pdl, creatura di un uomo – Berlusconi – che per un ventennio era stato indicato come fonte e icona di ogni male e di ogni nequizia e di ogni corruttela e vizio. Da chi? Ovvio: da “La Repubblica” ché sono decenni che tutti i politici hanno imparato che contro quello che scrive La Repubblica è pericoloso andare.
Non conosco gli sviluppi ultimissimi essendo lontano dall’Italia e privo di informazioni fresche. Ma credo che chiunque possa ancora osservare gli intralci posti al governo di larghe intese da una base umana a dire poco furiosa per il cosiddetto inciucio, cioè l’unico modo ragionevole di tentare di portare fuori il Paese dalla crisi – né soltanto economica ma anche profondamente culturale – dati i risultati elettorali e la sua struttura costituzionale.
Bersani si è rivelato – fino a dover porre fine ai propri sogni di gloria – non prigioniero del suo partito ma del partito “La Repubblica”. E dopo di lui analogo imbarazzo hanno mostrato altri esponenti del Pd. Altro che twitter pentastellati! A turbarli c’erano i commenti del giornale antiberlusconiano per eccellenza!
Mentre non c’era più quel partito che, quando si chiamava comunista, era abituato a ogni salto mortale imposto – oplà – dal Comitato Centrale, fin dai tempi del Fascismo e del Comintern, dell’Hotel Lux a Mosca negli anni Trenta del secolo scorso. Basti pensare alla Svolta di Salerno che portò Togliatti e Pci ad accettare persino la monarchia, la principale responsabile dell’ingresso dell’Italia nella tragicissima Seconda Guerra Mondiale.
L’ex segretario dei Ds si è palesato totalmente condizionato dalla cultura repubblichina – se con cultura si possono etichettare le tre direttive d’azione del giornale romano e con repubblichina la sua impostazione politica.
Per età e per formazione storica so della ferrea disciplina del più grande partito di sinistra di origine comunista d’Italia, d’Europa e del mondo. Se un qualunque Palmiro Togliatti aveva saputo perdonare gli efferati delitti commesso dal Fascismo e da taluni Fascisti scopertisi dopo il 1943 ferventi compagni e fare accettare il perdono – se non altro a livello di Comitato Centrale del Pci di allora (vi si entrava soltanto per cooptazione!) –, figurarsi se il povero Pier Luigi Bersani non avrebbe potuto convincere i membri di una Direzione democraticamente – si fa per dire – eletta, che era nell’interesse del Paese trovare un qualche accordo non dico con il Berlusca, ma con un partito che propugnava cambiamenti – parola cara, “cambiamenti”, al Non-Pettinatore-Di-Bambole – simili a quelli del Pd.
Nossignori. Non ha potuto ché nella famosa base del Pd c’era una sola password: odiare Berlusconi, cioè la parola d’ordine sparata per vent’anni in vena da “La Repubblica” in milioni di Italiani di bassa-media scolarità e/o di alta nevrotica invidia delle vite altrui.
“La Repubblica” è stata il miglior collante della peggiore sinistra che ieri andava e oggi va da Fausto Bertinotti a Nicola Vendola a Beppe Grillo e, oggi come ieri, a Romano Prodi e ai democristiani come lui moralisti in casa altrui (che anche lui non è mai stato un santo). Sua la responsabilità della non nascita di un partito liberaldemocratico in Italia.
Ha diseducato milioni di propri lettori e di elettori. Perché studiare la Storia, perché documentarsi, perché riflettere individualmente se cogito – e mi esprimo a pappagallo – repubblicanamente, ergo sum un intellettuale fatto e finito? – e mi si perdoni la miscela di Latinorum e Italiano.
Perché informarsi se per sentirsi giusti e appartenente a una eletta schiera basta provare l’emozione di odiare un uomo e dimostrare agli altri – in ufficio, a scuola, all’università, in fabbrica – di essere con gli altri in sintonia? Quali più semplici formulette di catechismo per essere accolti nella religione più santa?
Errato dunque è riferirsi al partito del giornale romano come a un epigono del Partito Comunista, come lo stesso Berlusconi a volte dice – e sbaglia, storicamente parlando. Il partito di “La Repubblica” non è mai stato un’appendice o un gregario del Pci o dei partiti che gli sono succeduti con i cambiamenti di nomi che tutti sanno. “La Repubblica” ha sempre avuto una sua propria politica nei quasi quarant’anni il cui ha gestito più o meno oscure manovre tra corridoi parlamentari, vertici ministeriali, segrete stanze del Quirinale e posizioni apicali nelle industrie e nelle banche italiane.
Si è servito di giovani e meno giovani addestrati ad anteporre le linee dettate dalla direzione del giornale a una qualsiasi concezione del tanto e da tanti invocato fare sistema Italia. Costoro sono stati anzi educati a un’ideologia anti-italiana che ha sputtanato il Paese in tutto il mondo con danni enormi finanziari e politici. Sono stati loro i barzellettieri che hanno fatto ghignare la Sieg-Heil!-Angela-Merker e il suo tirapiedi Sarkozy, clone dei peggiori collaborazionisti francesi nei cinque anni in cui la Francia fu asservita al Terzo Reich.
Una certa mia deformazione professionale – da psicanalista junghiano – mi induce però a chiedermi da dove sia venuta tanta energia in grado di alimentare giorno dopo giorno un odio così feroce contro un uomo, ben oltre quindi la stessa natura di lobby del giornale romano.
Credo che sia venuta da una sponda di livore di anima malata (anima in senso junghiano), quella malattia dello spirito che anziché farne strumento di esplorazione e valorizzazione delle parti più profonde e ricche della propria personalità, ne fa un moltiplicatore delle negatività dell’io frustrato.
È una malattia che affligge da sempre i più infelici umani, spesso causata non da cattiveria ma da una vita infelice e che si accanisce contro i meno fortunati.
Senza una tale fonte di potente energia dubito che gli interessi economici della lobby del giornale, seppur vasti quanto si è detto, avrebbero potuto sostenere anni e anni di quotidiani attacchi – e in così squallida forma – a un uomo e a tutti coloro che hanno lavorato con lui e che lui hanno apprezzato e alimentare il vasto mare di rancore senza il quale la corazzata di rancori non avrebbe potuto navigare.
Parlo della veemenza, e del cattivo giornalismo, fatto di spiate intorno alla vita sessuale degli avversari politici di entrambi i sessi, dell’odio per quanti non si sono fatti sedurre dal livore antiberlusconiano.
Mi pare rivelino un’animosità – appunto – che può soltanto allignare in individui poco sereni assai. Sappiamo tutti bene che “La Repubblica” aggrega persone sane e robuste e felici della propria vita di intellettuali di prim’ordine.
Ma ad alcuni strizzacervelli – i meno preparati, certo – comportamenti così lividi farebbero pensare a uomini che non accettano di invecchiare e ostentano moralismi da sacrestia dopo essere stati in verde età seduttori a gogò e stupratori, se non fisici, psichici. E a donne che, liberatesi in gioventù dalle prepotenze maschili così frequenti nella società italiana di quattro decenni fa, non vogliano concedere la medesima libertà di lotta per affrancamento alle più giovani del loro medesimo sesso, di quarant’anni più giovani, grande delitto!
Sono di questo tipo – mi chiedo spesso, ma rifiuto subito una tale ipotesi – i gentiluomini di rango elevato e le dame più intelligenti e colte del seguito del romano doge Eugenio, le dame che vivono da quarant’anni alla sua ombra e nelle sue redazioni? No di certo, mi confermo nello scartare l’ipotesi. Non è possibile! Tra loro ci sono signori e signore appartenenti ai salotti più dotti e come-si-deve della Capitale e giornalisti e giornaliste bravissime che hanno fatto con grande intelligenza il loro mestiere – per decenni e decenni.
Preferisco pensare piuttosto che nonostante l’asserita impostazione progressista della redazione di “La Repubblica”, nata aperta al nuovo rispetto alla palude democristiana di allora da cui liberò il paese – tutti gliene fummo grati –, anch’essa, come accade a tutti gli umani, sia semplicemente invecchiata – vent’anni dopo, quando Berlusconi entrò in politica. I Moschettieri e le Moschettiere non erano più le stesse. Figurarsi dopo altri vent’anni ancora!
La vecchiaia è una situazione umana meravigliosa, di questi tempi, ma porta con sé i suoi acciacchi inevitabili. A volte si fa senescenza conservatrice e rivela fastidiosi sintomi di vetero-tuttismo. Sono i sintomi di una senescenza malata di nostalgia amarissima, una fonte di livore, appunto.

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