Non ci sono cose che non si possono dire
- Dino Cofrancesco
- Lunedì, 31 Agosto 2015
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- Mezzo secolo fa, un vecchio militante del PSI – un ‘compagno della base’ molto perbene, commerciante di farina all’ingrosso – sentendo una mia sbrodolata retorica sul partito di Matteotti e di Turati, mi sussurrò in confidenza. «Tu non sai cos’erano diventati i socialisti negli anni venti – demagogia, corruzione, ricatti etc. e cos’era diventata l’Italia! – sono cose che non si possono dire». L’episodio mi è tornato alla mente molti anni dopo a Roma. Un amico giurista, che ha ricoperto le più alte cariche della magistratura e che stimo molto per la sua cultura e la sua probità (anche se abbiamo opinioni politiche assolutamente inconciliabili, facendo lui parte dei benecomunisti da buon dossettiano), mi stava accompagnando a casa. Attraversando alcuni quartieri costruiti nel ventennio, non poté fare a meno di dirmi: «Come vedi, qualcosa di buono il fascismo ci ha lasciato ma non si può dire».
- Nei due episodi c’è tutta l’ideologia italiana.
- Ci sono le ‘verità ufficiali’ di regime, quelle della Repubblica democratica fondata sulla Resistenza e sull’antifascismo, dell’ANPI, della storiografia rimasta legata alla ‘vulgata antifascista’, – nonostante Renzo De Felice – e ci sono le esperienze concrete dell’uomo comune come della persona colta che non coincidono.
So che farlo rilevare, nella fattispecie, significa esporsi all’accusa di filofascismo ma, in realtà, si tratta proprio del contrario ovvero di liberarsi dalla sindrome fascista (e totalitaria) che sovrappone una realtà mitica ed eroica a quello che i cittadini hanno visto coi loro occhi: i treni in orario e le stragi nazifasciste, il triangolo della morte e gli stupri delle truppe marocchine, le bonifiche pontine e le bande Koch e Carità, le Fosse ardeatine e le foibe – per non parlare dei due tempi di Piazzale Loreto (la rappresaglia fascista e la barbarica vendetta partigiana). La ‘società aperta’ è definita dal fatto che non ci sono «cose che non si possono dire» e che – anche se si è di sinistra – non ci si deve astenere dalla denuncia dello stalinismo per non demotivare gli operai parigini, come pretendeva Jean-Paul Sartre.
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