Nella vita bisogna essere sempre "quello di dopo" non mai "quello di prima"
Nella vita bisogna essere sempre "quello di dopo" non mai "quello di prima"
Il cambiamento del sottotitolo del mio giornale, è piaciuto a moltissimi. Non erano pochi quelli che lo attendevano. Mi sono giunte lettere significative di simpatia, soprattutto dalle trincee.
Il grosso pubblico non ha l'obbligo di sapere che da parecchi mesi io avevo deciso di togliere l'etichetta inutile e quindi pericolosa. Coloro che mi leggono non sono stati sorpresi, non potevano esserlo. Ricordate il mio articolo di primo maggio: «Il fucile e la vanga»? Non era che il preludio dell'ultima «Novità». Solo i disgraziati che non hanno vibrazioni intellettuali, solo gli impotenti che sono negati alla gioia divina della creazione spirituale, solo gli ignavi che rifuggono da ogni sforzo quando segni una variazione nella loro consacrata e idiotissima routine, solo questi lamentevoli mezzi uomini che hanno bisogno di riempire col tritume dei vecchi clichés il loro cranio minuscolo, solo costoro potevano e dovevano abbozzare la smorfia inintelligente o sibilare la loiolesca malignazione.
Pietà per costoro e galera, se occorre!
Da tempo io domandavo a me stesso: che cosa è il socialismo sotto la specie delle dottrine economiche, filosofiche e politiche? Che cosa è il socialismo sotto l'aspetto della sua attività pratica e quotidiana? Esiste ancora un socialismo? O come opina l'amico mio Lanzillo in un vient de paraître presso «La Voce» e del quale mi occuperò fra poco, è quella subita dal socialismo politico europeo una grande, irreparabile disfatta? Per quanto capace di lunghe meditazioni, io non trovavo una risposta soddisfacente a queste domande. Credo che i socialisti stessi, quelli che portano la tessera nel portafoglio, accanto ai bigliettoni di grosso taglio guadagnati talvolta colle forniture di guerra, non sappiano trovarla. Il punto interrogativo rimane. Subordinatamente io mi chiedevo: sono socialista? Prima di rispondere: no, ho dovuto colla fredda ragione soffocare i richiami nostalgici del sentimento, oscurare il «chiaro di luna» dei ricordi della famiglia e della giovinezza, passare oltre gli scogli che sembravano insuperabili, nel mare di tante memorie, spezzare definitivamente un'abitudine mentale.
Mi sono persuaso che, per me, la parola «socialista» era vuota di significato. Un uomo intelligente non può essere una cosa sola. Non può - se è intelligente - essere sempre la stessa cosa. Deve mutare. Non si può essere sempre socialisti, sempre repubblicani, sempre anarchici, sempre conservatori. Lo spirito è soprattutto «mobilità». L'immobilità è dei morti. Un uomo che non cambia mai la direzione del suo pensiero, che non cambia mai l'espressione del suo pensiero, non è un uomo di nervi, è un macigno. Peggio ancora! Poiché le ultime ricerche scientifiche hanno rilevato delle manifestazioni di sensibilità - quindi di vita - anche nelle molecole delle pietre inerti. Per certi uomini le formule sono dei cinti di castità spirituale. Noli me tangere. Ma o il pensiero che è maschio li spezza, oppure è la condanna orribile al zitellonaggio mentale. Voi li conoscete, certamente, i zitelloni dello spirito. Acidi, noiosi, maldicenti e, alla fine, insopportabili. Si sente subito che manca loro qualche cosa. Che sono degli incompleti. La vita passa col suo corteo tumultuoso e trionfale di dolori e di gioie, di uomini e di maschere, demolitrice e costruttrice, sempre varia, sempre «imprevista», sempre adorabile anche quando per conquistarla bisogna morire e i rimasticatori delle formule brontolano cupamente e plumbeamente nella malinconia rassegnata o rabbiosa dei vinti. Quell'etichetta che io ho cancellato, non mi legava, ma tuttavia oggi mi sento più libero. Libero di essere a volta a volta me stesso, soltanto me stesso, niente altro che me stesso. «Tu non sei più quello di prima» mi grida dall'angolo, il «salutista» della coerenza cadaverica! Ma tu mi fai il più grande elogio, mio piccolo filisteo. Nella vita bisogna essere sempre «quello di dopo» non mai e non soltanto «quello di prima». Se tu rimarrai sempre quello di prima, t'accorgerai di aver vissuto un solo istante della tua vita, o una sola vita delle mille che tu avresti potuto vivere. Ti accorgerai di essere rimasto fermo, mentre avresti potuto camminare dai monti agli oceani, per strade e sentieri, verso ai quattro orizzonti, nell'ampia terra che ti avrebbe offerto, prodigalmente, i tesori della sua bellezza. Ti accorgerai di aver rinunciato, mentre potevi ghermire.
Infelice mortale! Mi permetterai di non invidiare la tua sorte e soprattutto di non seguire il tuo esempio. Io ci tengo ad essere l'uomo del «dopo». In altri termini l'uomo che anticipa. La collezione di questo liberissimo, personalissimo, indipendentissimo e strafottentissimo giornale è là a dimostrare - clamorosamente - che parecchie volte ho «anticipato». Sono stato cioè l'uomo del dopo, mentre gli altri, quasi tutti, erano rimasti gli uomini del prima. Ho scritto contro la strategia passiva, quando tutti la ritenevano una utilità o una necessità. Oggi, su altre questioni, sono già al «dopo». Quelli che si afferrano alle vecchie etichette, mi danno l'idea di naufraghi aggrappati ai rottami di una nave affondata. I rottami si chiamano: socialismo, liberalismo, repubblicanesimo, elezionismo, riformismo. Credono, aggrappati a questi rottami, di giungere in porto, e di ricominciare. Quello che avviene da quattro anni, non li tocca.
Siamo nel 1918 e gli zitelloni parlano ancora il linguaggio del 1913. Come quel tal frate, reduce dalla lunga captività fra i mori, anch'essi credono di poter riprendere in predica il punto interrotto con un semplice heri dicebamus. Eh no. Noi li rovesceremo dal pulpito e profaneremo, colle nostre violenze, la loro chiesa. Non permetteremo che la lettera uccida lo spirito.
Saremo - non sembri un bisticcio - non quello che fummo, né quello che siamo, ma quello che saremo e vorremo essere.
Sia detto una volta per tutte.
11 agosto 1918
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