L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, uno dei tanti tabù che tengono ingessata l’Italia e non la fa progredire, forse e’ stato superato, seppure persistono resistenze che si spera risulteranno vane. Ma subito qualcuno ha voluto precisare che la riforma del mercato del lavoro non riguarderà il settore del pubblico impiego, se cosi’ fosse la riforma sarebbe “incoerente”. Come molti sanno, diciannove anni fa, con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, fu attuata una riforma generale del pubblico impiego, ispirata al principio della privatizzazione del rapporto di lavoro di impiegati e dipendenti pubblici. Il decreto legislativo n. 29/1993 non esiste più perché e’ stato abrogato, ma la normativa che l’ha sostituito (decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165) ha la medesima logica. Per la stragrande maggioranza dei lavoratori del pubblico impiego vale la regola che il rapporto di lavoro e’ disciplinato dal Codice Civile e dalle disposizioni vigenti sui “rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”. L’applicazione di questa disposizione, contenuta nel Codice Civile, vale per i dipendenti dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali. Soltanto per i dirigenti statali sono previsti contratti particolari legati al conseguimento di obiettivi. A questo punto la domanda sorge spontanea: una volta che la disciplina del lavoro viene applicata ai lavoratori privati, cambiano anche i rapporti di lavoro nel pubblico impiego? Come può essere che non ci siano conseguenze per gli impiegati pubblici? E’ solo questione di tempo. Ma come e’ possibile che le pubbliche amministrazioni, le quali hanno ciascuna una propria pianta organica, possano licenziare i dipendenti per motivi economici? Nella grave crisi economica in corso molte cose cambieranno anche perche’ sarà “costituzionalizzato” il pareggio di bilancio. Saranno “obbligatori” gli impegni assunti in sede di Unione Europea con la firma del nuovo “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell'Unione economica e monetaria”. Se davvero non potranno più esserci “bilanci in passivo” e se davvero l’Italia “dovrà ridurre il debito pubblico” fino al parametro previsto del 60% rispetto al PIL, con un ammortamento ventennale, allora bisognerà mettere in conto che le pubbliche amministrazioni, a tutti i livelli, “dovranno costare meno”. La conseguenza sarà che lo Stato sarà costretto a “snellire” il “mastodontico” apparato burocratico privandosi di tutti quei settori non più essenziali, né strategici. Del resto, non e’ forse vero che negli Stati Uniti d’America, in Australia e in molti altri paesi e’ normale che i dipendenti pubblici “possano essere licenziati”, soprattutto i dipendenti dei singoli Stati? Non e’ forse vero che alla Grecia e’ stato imposto un piano di licenziamenti nel settore pubblico? La verità e’ che la possibilità di licenziamenti più facili da parte delle imprese, e la possibilità di licenziare pure lavoratori del settore pubblico, sono due aspetti di una medesima strategia. L’applicazione avverrà in tempi diversi e non vuole ammetterlo chi fa finta di non sapere. Ma i cittadini sono meno “cretini” di quanto molti politici suppongano. Molto presto si accenderà un’infuocata discussione su un altro tabù: il “posto fisso” nel pubblico impiego. Così, sperando di superare un tabù dopo l'altro, l’Italia diventerà sempre più flessibile, moderna e competitiva.
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