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lunedì 13 luglio 2015

Il vicolo cieco

Eccolo, il vicolo cieco. La strada è stata spianata dall’idea che dentro i binari dei conti possa essere contenuta tutta l’Europa reale. I muri sono stati edificati dall’arroganza con cui s’è pensato d’usare un sembiante democratico contro i doveri del debitore. Lo schiacciasassi tedesco e il murartore greco hanno messo su una trappola, un vicolo cieco dal quale si esce invertendo la marcia, o supponendo che si possa sfondare senza sfondarsi.

Sappiamo tutti, fin dall’inizio, che i greci non sono in grado di restituire i soldi. Sappiamo che ristrutturare, vale a dire tagliare nuovamente il debito greco, abbonandolo in gran parte, significa colpire gli altri contribuenti europei, dato che il debito greco non è, da tempo, nelle banche, ma nei fondi istituzionali. 
Sappiamo di doverli aiutare, senza aspettarci altro che promesse. Ma loro sono riusciti in un capolavoro: rifiutare pure le chiacchiere e affermare che è un loro diritto vivere con i soldi altrui. Alexis Tsipras è andato a prendersi gli applausi dicendo che gli aiuti europei sono arrivati alle banche e non al popolo, peccato che, già da domani, affinché il popolo non perda i propri soldi è necessario che soldi europei arrivino alle banche greche. La mamma dei demagoghi è prolifica, ma sono i figli delle altre a farne le spese.
La proposta giunta dal governo greco sarebbe stata oggetto di normale negoziato e accolta al 90%, visto che, del resto, al 90% ricalcava la proposta delle autorità europee. Ma tutto è diventato difficile, perché anche solo a pronunciare la parola “accordo” occorre che si affianchi subito la fotografia dello sconfitto. Siccome la proposta viene dai greci, i tedeschi si sono sentiti osservati. Non fosse roba seria e continentale, sembra un bisticcio da ricreazione scolastica. 
Così i tedeschi hanno elaborato una proposta che contiene in sé l’affondamento dell’euro: i greci ne escano per cinque anni, si mettano a posto e poi tornino. Significa una sola cosa: dentro è impossibile. Messa così, è l’ammissione di un fallimento. Che invece non c’è, o, meglio, potrebbe non esserci, se solo si apprendono le due lezioni che discendono da quel che accade.
Prima lezione: il rigore dei conti pubblici è inviolabile e necessario. Chi pensa di governare assumendo forestali e mandandoli in pensione ragazzi è un incosciente che è giusto impoverisca i propri cittadini, così quelli se ne accorgono e lo cacciano in malo modo. Al tempo stesso, però, inviolato il rigore, è necessario ci siano strumenti federali sia di controllo e governo del debito che di promozione e gestione degli investimenti. Se l’Unione europea è unione di stati, è destinata a crollare per il collidere degli interessi. Se è unione di cittadini, allora non si può ragionare come cento anni fa. Considerato, appunto, che eravamo in guerra.
Seconda lezione: le legioni antieuropeiste hanno saputo trovare un denominatore comune, mentre l’armata europeista non sa neanche da che parte sta andando. Attorno al referendum greco si sono ritrovate fazioni opposte e inconciliabili. Ad Atene si son dati convegno i perdenti del secolo scorso, dai comunisti ai nazionalisti, passando per i fascisti un popolo un sangue. Spettacolo avvincente. Ma gli eredi dei vincitori, delle forze democratiche, non c’erano proprio. Spettacolo avvilente. Può anche darsi che in questo passaggio, inciampando sull’infinitesimo debito greco e sulla ciclopica arroganza ellenica, tutto si sfasci. Ma ove riesca a sopravvivere, non disonorando il pensiero e l’azione di chi vide nell’Ue la soluzione dei problemi storici europei, allora si deve imparare a fare politica europea. Che non significa farsi eleggere in dialetto in un Parlamento che è palestra di vaniloquio, ma dedicarsi alla politica, che è scontro d’idee, aspirazioni e interessi, in uno spazio continentale. Ad Atene gli “altri” non c’erano. E non va niente bene.
Quel vuoto non può essere colmato dai governi, perché questi sono gli eredi di ciò che ha stravolto la storia del secolo scorso. Non può perché i governi sono necessariamente espressione di un interesse nazionale, in quanto tale antitetico a quello federale. E nessuno creda che maggiore integrazione istituzionale, come oramai tutti ripetono, un po’ a pappagallo, non comporti maggiore conflittualità politica. La porta con sé e la reclama. Non possono essere i governi nazionali, a supplire, né litigando né accordandosi, perché l’Europa mercato, poi comunità e infine Unione è stata pensata per superarli, non per esaltarli.

@DavideGiac

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