- Davide Giacalone
- Martedì, 12 Aprile 2016
La Costituzione è stata cambiata. La riforma è stata approvata in via definitiva, dopo che le opposizioni avevano abbandonato l’Aula e il presidente del Consiglio ne aveva confermato il genitore: Giorgio Napolitano. A votarla si sono trovati non pochi parlamentari che la detestano e la considerano nociva. Ad avversarla ve ne sono che, al contrario, non ne vedono i rischi. Così vanno le cose, quando gli schieramento sono più importanti (specie per le sorti personali) dei contenuti. La riforma non entra in vigore subito, la Costituzione (articolo 138) prevede tre mesi di moratoria, entro i quali un quinto dei parlamentari, 500mila elettori o 5 consigli regionali possono far richiesta del referendum. E’ escluso il referendum ove la maggioranza approvante raggiunga almeno i due terzi. Nell’attuale caso non rileva, perché la chiamata popolare era nelle premesse e promesse iniziali. Un appuntamento considerato tappa trionfale nel cammino verso le elezioni politiche.
In autunno, quindi, gli italiani voteranno, dovendo, con un “sì” o con un “no”, accettare o respingere l’insieme della riforma. Tale procedura è stata fissata immaginando che la Carta sarebbe stata cambiata in maniera puntuale, senza mischiare materie diverse. Ma i costituenti non previdero quel che ora accade: un frullato di materie, offerto per un’unica bevuta. Prendere o lasciare. Si va dal tema più citato, ovvero la fine del bicameralismo perfetto, senza, però, la soppressione del Senato, bensì la sua elezione non popolare, con i membri nominati dalle regioni e dai comuni; al fatto che la Camera sarà da sola, nel votare la fiducia al governo; dal fatto che i giudici costituzionali non saranno più eletti dal Parlamento, ma 3 dalla Camera e 2 dal Senato (figli dei consiglieri regionali?!); al fatto che i consiglieri regionali nominati senatori avranno l’immunità parlamentare, mentre i loro colleghi, eletti nel medesimo modo, no (e non oso immaginare il criterio di selezione); cambia l’elezione del presidente della Repubblica, che passa alla sola Camera, integrata da rappresentanti delle regioni; così come cambia il Titolo quinto, con la sinistra che cancella quello che la sinistra volle nel 2001; e non è finita, perché ci sono diverse altre materie, dalla soppressione del Cnel alle modalità di convocazione dei referendum abrogativi, da come si presentano le proposte di legge di iniziativa popolare alla possibilità di ricorrere preventivamente, alla Corte costituzionale, avverso le eleggi elettorali. E altro ancora.
Se dovessi dire, anche in modo sintetico, cosa ne penso, dovrei per forza dividere la materia e ragionare punto per punto. Ma non potremo farlo, dovremo rispondere a una sola domanda, per quanto irragionevole sia. Voterei favorevolmente, e con entusiasmo, alla ririforma del Titolo quinto, mentre considero pericoloso il combinarsi del premio di maggioranza innestato sull’unica Camera che esprimerà i governi ed eleggerà il capo dello Stato. Occorre essere ciechi per non vedere il veleno contenuto in una roba simile. Ed occorre essere smodatamente cinici per accettare che una simile forzatura passi sull’onda della retorica del cambiamento, adottata spocchiosamente da chi alza il mento e sentenzia, evitando il confronto delle idee e prediligendo quello delle truppe. Dell’attuale stagione questo è il passaggio che promette peggio. E veramente spero di sbagliarmi.
Ad aumentare il paradosso contribuisce il fatto che non solo si dovrà rispondere una sola volta a quelle che sono una ventina di domande, ma una di quelle decisive, ovvero l’interazione fra la riforma e il sistema elettorale, non è manco compresa. Perché l’Italicum non è materia costituzionale. Eppure il risultato sarebbe non solo diverso, ma per certi aspetti opposto se quella legge fosse un uninominale a turno unico, cambiando anche se lo fosse a doppio turno. Invece è un proporzionale con ballottaggio unico nazionale e premio di maggioranza, senza che gli elettori possano scegliere gli eletti. La volle così Matteo Renzi, sicuro non solo che gli avrebbe portato la vittoria, ma che lui fosse il solo cui gli elettori potessero ragionevolmente rivolgersi. Ma la storia si fa beffe di tante sicurezze. E, fin qui, chi ha fatto leggi elettorali per vincere ha poi perso. Non preoccupa il fatto che possa capitare anche a Renzi (che si sarebbe fregato con le sue stesse mani), ma che il meccanismo scelto potrebbe aprire la via a dolorose avventure. I sistemi stabili non sono rigidi. Inseguendo la “democrazia decidente” ci vuol niente a finire in quella deragliante.
Sia la riforma costituzionale che quella del sistema elettorale sono state inizialmente condivise dal centro destra, ma nonostante questo, e anche a causa di un’inversione di marcia senza adeguata ammissione dell’errore, questa sarà l’ennesima pagina di storia non condivisa, ma divisiva. Ieri se ne è avuta conferma. Dirà la storia se con danno alla credibilità delle persone o delle istituzioni.
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