Arturo Diaconale
Mercoledì, 27 Novembre 2013
I dirigenti del Partito Democratico, renziani o
cuperliani che siano, non si pongono neppure il problema delle conseguenze della
decadenza di Silvio Berlusconi. Sono troppo inebriati dalla possibilità di
salutare l’8 dicembre agitando la testa dell’odiato avversario storico sulla
picca della loro intransigenza.
E non si rendono minimamente conto che non aver lasciato alla
magistratura ordinaria il compito di cacciare il Cavaliere dal Parlamento e di
aver compiuto ogni sforzo per assumerne la titolarità strappandola addirittura
al Movimento Cinque Stelle, costituisce un atto che si ritorcerà gravemente sul
loro partito e sull’intero Paese. In passato, l’aver sparso il sangue dei vinti
rivendicandolo come atto di suprema giustizia rivoluzionaria ha alimentato per
generazioni nella stragrande maggioranza dell’opinione pubblica nazionale un
fortissimo pregiudizio nei confronti dell’affidabilità di governo della sinistra
italiana.
Non è senza significato se il primo ed unico esponente della sinistra
di discendenza comunista (Massimo D’Alema) è entrato a Palazzo Chigi non in
seguito al risultato elettorale ma grazie ad un complotto di Palazzo ordito da
un democristiano (Francesco Cossiga) in nome e per conto della Nato. E non
dipende dal destino cinico e baro se a Palazzo Chigi oggi sieda un
post-democristiano come Enrico Letta e non un post-comunista come Pierluigi
Bersani e che il quasi sicuro segretario del Pd sia un altro post-democristiano
come Matteo Renzi e non un post-comunista come Gianni Cuperlo.
La maledizione del sangue dei vinti non si è ancora estinta. Ed è
facile prevedere che invece di venire dimenticata dal passare degli anni possa
essere alimentata dal sangue metaforico di un vinto che però non si arrende e
farà di tutto per rivendicare la sua innocenza e prendersi la sua rivincita. Può
essere che i dirigenti del Pd se ne infischino di una conseguenza del genere e
che siano soddisfatti, come già in passato, del consenso euforico del nocciolo
duro dei propri militanti. Ma un partito che, come ha ricordato D’Alema, esprime
il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Presidente del
Senato ed a mezzadria con Sinistra Ecologia Libertà anche quello della Camera,
non può ignorare le conseguenze internazionali dell’espulsione dal Parlamento
dell’unico leader di opposizione presente nelle assemblee
rappresentative.
Forse la Merkel ne sarà rassicurata, come ha cercato di sostenere
Enrico Letta e forse i banchieri inglesi e tedeschi brinderanno all’eliminazione
del pericoloso nemico. Ma sotto i festeggiamenti di chi ha interessi e
pregiudizi antitaliani incomincerà fatalmente a circolare il sospetto che il
nostro Paese si sia incamminato sulla scia di quelle repubbliche post-sovietiche
dove i leader dei partiti all’opposizione si sbattono in galera accusati di
reati comuni. Non si tratta di un sospetto da poco.
Perché non è da poco caricare un Paese, che già viene visto con gli
occhiali degli antichi pregiudizi, del peso dell’etichetta di una democrazia
debole dove chi sta al potere cerca di eliminare il principale avversario
sbattendolo ai servi sociali grazie ad una magistratura politicizzata. Giorgio
Napolitano, che tanto si preoccupa della credibilità internazionale dell’Italia,
farebbe bene a porsi il problema. Dalla prossima settimana il nostro Paese sarà
più simile all’Ucraina che alle democrazie europee!
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