Giuliano Ferrara
Domenica, 24 Novembre 2013
Berlusconi ha dato delle feste in casa sua, ha invitato delle ragazze e degli
amici, gli amici lo hanno aiutato a comporre il suo harem burlesque, il
suo privato divertimento, condividendolo. Berlusconi è notoriamente ricco e
generoso, fa regali da sempre a destra e a manca, senza distinzione di rango, e
con il circuito delle sue feste è stato come spesso gli succede regale e
sciupone senza remore o rimorsi. Ha fatto una telefonata in questura,
inopportuna sotto il profilo protocollare ma non concussiva, gentile e in prima
persona, allo scopo di evitare a una delle sue ospiti la consegna a una
comunità. Anche per disinnescare lo scandalo dovuto alla esibizione forzata del
suo privato, ha inventato balle giocose, come quella della nipote di Mubarak.
Bene. Queste sono tutte cose che rientrano nella dimensione privata, criticabile
quanto a comportamento politico e civile di un uomo di governo e di Stato, ma
non criminalizzabile.
Invece quel che ne è seguito, con mezzi d'indagine e una vocazione guardona e
origliatrice da Stato di polizia, è precisamente la trasformazione di
peccadillos da scapolo abbiente e da re di Arcore in reati infamanti
che comportano anni e anni di galera. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.
A dimostrare che al di là di ogni ragionevole dubbio siamo invece in presenza di
reati penali da punire con la massima severità: regali alle ragazze e agli amici
e una raccomandazione a un gentile funzionario di Questura da scambiare con anni
di galera. A dimostrare che abbia un qualche senso una condanna per atti
sessuali prostitutivi quando di questi atti non esiste prova alcuna, mentre
nelle stesse motivazioni della condanna si dice bellamente che non è quello il
problema, palpeggiamento in più o in meno. Sfido chiunque a dimostrare che sia
parte di uno Stato di diritto e delle sue garanzie un tribunale che condanna su
queste basi effimere e ambigue e poi trasforma gli atti difensivi, rinviandoli
ai pm perché istruiscano nuovi processi, in un nuovo capo d'accusa a raggiera,
una retata potenziale di testimoni che si trovano così in una pesante situazione
di condizionamento e di pressione: o ammetti di essere stato un falso testimone
e di aver collaborato con un'azione di inquinamento del processo oppure ti
becchi la galera anche tu.
Una gigantesca gogna ha devastato l'immagine pubblica di un capo democratico,
di un uomo della democrazia rappresentativa, un leader che ha vinto tre volte le
elezioni e ha governato il Paese secondo le regole, altro che storie,
ritirandosi in buon ordine anche quando avrebbe avuto diritto al suo appello al
popolo che lo aveva stravotato nelle urne del 2008 (novembre 2011). Questo non è
un caso personale, da tenere distinto dal resto, cioè dalla stabilità di governo
(che palle che ci raccontano sul semestre europeo) o da qualunque altra
circostanza. Se la democrazia sanguina, se si insinua un dubbio di fondo sul suo
funzionamento imparziale, perché gli atti di giustizia si trasformano in una
persecuzione personale, qualunque sia il giudizio sul perseguitato, sui suoi
errori, e anche sulle sue colpe o sui suoi peccati, non si può dormire
tranquilli.
Non tutti in questo Paese hanno bevuto la leggenda nera di Andreotti mafioso,
di Craxi spolpatore delle finanze pubbliche per avidità, del doppio Stato reo di
stragi infinite e di trattative collusive con i poteri criminali. Molti tra
coloro che pure hanno combattuto per le loro idee e contro le classi dirigenti
della vecchia Repubblica, e hanno mantenuto la loro autonomia di giudizio nella
situazione che seguì alla sua caduta, hanno cercato di esercitare il giudizio
critico sull'unico potere che da almeno vent'anni si considera al di sopra delle
parti mentre agisce come parte in causa in una lunga guerra ideologica, quello
dell'accusa penale. Questi italiani che non hanno portato il cervello
all'ammasso dello spirito forcaiolo si facciano sentire. E anche i capi delle
istituzioni, prima di tutti il garante della Costituzione e capo della
magistratura, il presidente della Repubblica, non possono tirarsi fuori dal
dovere di intervento e di correzione della grave stortura che si è prodotta.
Esprime il peggio della cosiddetta ideologia italiana, viltà maramaldesca,
chi oggi si volta dall'altra parte, chi mette la propria antipatia e inimicizia
politica verso Berlusconi, o anche soltanto la voglia di quieto vivere, davanti
al dovere di giudicare una ignobile messinscena chiamata giustizia.
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