Gianni Pardo
Lunedì, 25 Novembre 2013
Purtroppo, il massimo di protezioni deresponsabilizza. Chi ha visitato
l’ovest della Bretagna conosce le maestose falesie delle sue coste, alte, a
picco sul mare e senza alcuna protezione. I visitatori sanno che devono stare
attenti. Se ci fossero delle ringhiere per centinaia di chilometri, se esse
fossero interrotte in un punto e qualcuno cadesse, si direbbe subito che la
colpa è di chi ha permesso che ci fosse quell’interruzione, mentre la situazione
differirebbe da quella attuale soltanto perché la ringhiera mancherebbe solo in
un punto, invece di essere totalmente assente. E questo creerebbe la condanna,
mentre il fatto che oggi manchi dovunque manda assolti tutti. E poi, se anche la
ringhiera non avesse interruzioni, qualcuno potrebbe ancora scavalcarla: e le
autorità sarebbero accusate di non averla fatta abbastanza alta. Oppure un
vandalo potrebbe staccare una sbarra, un bambino passare attraverso l’apertura,
ed ecco la condanna per omicidio colposo di qualcuno.
Gli esempi sono infiniti. Se muore una persona importante per droga si cerca
il pusher, come se fosse colpa sua. È il drogato che fa esistere il pusher, non
il pusher che fa esistere il drogato. Ma qualcuno bisogna punire. È avvenuto
quando è morto Marco Pantani. Per le class actions americane il principio è
stato che il singolo può essere stupido, demente e imprudente, ma se subisce un
danno la colpa è di chi gli ha permesso di essere stupido, demente e imprudente.
Né noi italiani siamo esenti da questa mentalità. Deprechiamo il consumismo
(deprecavamo, per la verità, ora siamo troppo poveri, per farlo) pur continuando
a consumare, con la scusa che “il consumismo ci condiziona a consumare”. Noi
siamo innocenti. La pompa di benzina di minaccia con la sua pistola: “O il pieno
o la morte!”
Esemplare anche il caso della Protezione Civile. Prima, quando pioveva, si
esclamava “Governo ladro!”. Ora la Protezione Civile, se non è colpevole di
avere permesso che piovesse, è responsabile dei danni per non avere allertato in
tempo. Cosa che avrebbe sbalordito i nostri nonni. E allora l’Ente ha imparato,
alla prima previsione di acquazzone, a inviare messaggi ai comuni. Questi alla
fine, ricevendone troppi, non se sono più curati ed ora sono accusati di non
aver tenuto conto dell’allarme riguardante la Sardegna. Ma si sono difesi: gli
avvisi arrivano via fax e gli uffici all’ora d’arrivo erano chiusi. Bisognerebbe
lasciare qualcuno in Municipio ventiquattr’ore al giorno? Ed ecco si parla di
inviare un avviso a tutti gli abitanti mediante sms sui cellulari. Ottimo. E chi
ha le pile scariche? E chi ha spento il cellulare? Istituiremo il reato di
telefonino spento? La verità è che il rimedio a un problema crea spesso altri
problemi (e costi) a cascata. Forse non migliorando neppure la situazione
complessiva. È anche notevole il fatto che in occasione dell’alluvione in
Sardegna si sia parlato di “risarcire” i danneggiati. La terminologia è
significativa: lo Stato è responsabile di tutto, e i responsabili sono chiamati
a “risarcire”.
Il colmo in questo campo lo si è raggiunto all’Aquila: dei geologi sono stati
condannati per avere affermato che di solito la scossa più forte è la prima.
Hanno affermato un luogo comune statistico della sismologia, ma siccome
all’Aquila è andata diversamente, sono stati condannati ad anni di carcere.
Facendo ridere il mondo scientifico, costringendo in futuro tutti i sismologi a
dichiarare indefinitamente pericolosissimo qualunque sisma e la gente a non
tener conto dei loro allarmi. Ma all’Aquila c’erano stati dei morti, si poteva
non condannare qualcuno?
Un’altra infinita solfa è quella per la quale “bisognerebbe mettere in
sicurezza tutti i comuni a rischio terremoto, alluvioni o dissesto geologico”.
Bellissimo programma. Ma l’Italia è fatta come è fatta e si tratta di migliaia
di casi. Ce lo possiamo permettere? Per non parlare di casi emblematici. Cefalù
sta sotto una falesia: che si fa, si sposta la falesia o la città?
In Italia si è arrivati a processare le agenzie di rating americane perché
hanno osato dire la verità, che l’economia italiana va male: infatti ciò avrebbe
potuto allarmare le Borse. Se un ragazzo si suicida per un brutto voto a scuola
si parte subito alla ricerca del colpevole. La scuola è troppo stressante, non
si è tenuto conto della fragilità di quel minore. E se quel professore aveva
fama di severità, non ne parliamo. Forse si dovrebbero abolire i brutti voti.
Del resto tanto assurda la proposta non è, se dopo il ’68 gli studenti di
sinistra chiedevano il “sei politico” e all’università gli esami di gruppo, dove
uno solo aveva studiato. Poi ci stupiamo se le nostre università sono assenti
nelle classifiche di eccellenza.
La ricerca della perfezione è dannosa in tutti i campi, persino quello della
compassione. È naturale che si abbia pietà di un poveretto affamato, malato e
sprovvisto di mezzi e che si voglia soccorrerlo. Ma lo Stato non può farlo per
un singolo: lo fa per tutti i poveri. Ma chi sono? Qui, stabilito il limite, la
pietà si sposta sul primo escluso. Se il limite è a mille, che facciamo con chi
è a milleuno? E come controlliamo il reale livello? Creiamo sorveglianti, e
uffici dei sorveglianti, e sorveglianti dei sorveglianti, e uffici dei
sorveglianti dei sorveglianti. Alla fine si crea un elefante che vive a carico
dei contribuenti e finisce con lo spendere buona parte delle sue disponibilità
per tenersi in piedi, concedendo sussidi a chi non li merita (le pensioni di
invalidità in Italia sono uno scandalo nazionale) e a volte negandoli a chi li
merita. La soluzione non è non soccorrere nessuno: ma bisognerebbe limitarsi ai
casi estremi. La complessità è sempre in agguato, sempre costosa ed occasione di
abusi.
Si potrebbe continuare all’infinito. Il serpente si morde la coda. Più
deleghiamo allo Stato la nostra sicurezza, più ci costa lo Stato, senza per
questo giungere alla sicurezza. Dunque sì alla pietà, alla prevenzione degli
incidenti e al welfare, ma senza esagerare. Le controindicazioni potrebbero
farci pentire della cura.
pardonuovo.myblog.it
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