I nazionalpopulisti non vogliono ancora transitare dalla dimensione propagandistico-comunicativa a quella della prassi
Il “populismo di lotta” fatica a trasformarsi in “populismo di governo” – che sembrerebbe un ossimoro, ma era legittimo aspettarsi che le prassi post-elettorali facessero archiviare gli eccessi movimentisti. Non solo i due dioscuri della cosa giallo-verde non si sono istituzionalizzati, ma sembrano perfino essersi ulteriormente radicalizzati.
Hanno confezionato un programma di governo perlopiù anticostituzionale, che andrebbe stracciato seduta stante per l’involuzione totalitaria dello Stato di diritto cui le parti hanno certificato di ambire, e lo hanno battezzato “contratto”, termine mutuato dal gergo privatistico per esibire estraneità e dunque disprezzo per la dimensione costituzionalistico-pubblicistica (disprezzo “sostanziale”, oltreché verbale, nel caso del M5s, che ha per l’appunto privatizzato un terzo del Parlamento introducendo per via statutaria il mandato imperativo – anticostituzionale anch’esso, va de sé); hanno cooptato di fatto a Palazzo Chigi un premier-prestanome degradato a mero esecutore di un programma preconfezionato, stravolgendo la Costituzione materiale e maltrattando quella formale con un’arroganza partitocratica senza precedenti; hanno imposto a suddetto premier di autoqualificarsi come «avvocato del popolo», una formula dagli echi robespierriano-rousseauiani che fa un po’ venire i brividi, in opposizione agli ex premier tutti «avvocati delle banche» (Virginia Raggi dixit) e in linea con la favola della dicotomia tra popolo ed élite – pietra angolare dello storytelling populista – di cui ha parlato l’altro ieri Salvini. Lo stesso Conte, per dare una qualche concretezza a questa semplificazione truffaldina, ha incontrato gli azionisti traditi dalle banche in qualità di premier in pectore.
Insomma, i nazionalpopulisti non vogliono ancora transitare dalla dimensione propagandistico-comunicativa a quella della prassi, avventurandosi perfino in bracci di ferro col Quirinale per nomine-slogan che hanno fatto spazientire pure un Capo dello Stato non interventista e dalla “pazienza zen” come Sergio Mattarella. A quest’ultimo, per di più, Di Battista padre e figlio hanno rivolto parole da fascismo-movimento (impregnate dunque di fascino rivoluzionario, giacobino) dalle quali nessuno, incluso il simbolo del grillismo in doppiopetto Di Maio, ha sentito l’esigenza di prendere le distanze.
Per adesso solo propaganda – propaganda costosissima, per di più, viste le reazioni dei mercati –, non ci resta che sperare che i gemelli diversi del populismo giallo-verde scoprano quanto prima una qualche etica delle responsabilità.
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